Accumulare energia, disperdere paesaggi: riflessioni sul progetto Hydro Dolomiti
Un grande bacino artificiale a Salter, in alta Anaunia, promette energia e irrigazione, ma rischia di compromettere paesaggio, biodiversità e identità locale. Giovanni Widmann analizza le implicazioni ambientali, economiche e sociali del progetto, sollevando interrogativi su sostenibilità, partecipazione e giustizia intergenerazionale.
In questi giorni sulla stampa locale ho letto del progetto di Hydro Dolomiti Energia – la società pubblica che gestisce la centrale idroelettrica di Santa Giustina – di realizzare un grande bacino artificiale di raccolta (360mila metri cubi d’acqua) a Salter in località “La Val”, con un investimento considerevole: 400 milioni. Il bacino avrebbe un notevole impatto ambientale e paesaggistico e stravolgerebbe l’ecosistema della zona, visto che occuperebbe una superficie di 4 ettari, pari a una lunghezza di 400 metri per 100 di larghezza, e sarebbe di un’altezza di 15 metri, con argine di contenimento affiorante. L’utilizzo sarebbe duplice: 1) produrre energia elettrica attraverso il pompaggio dell’acqua dall’invaso di Santa Giustina nelle ore notturne (superando un dislivello di ca. 400 metri) – sfruttando il surplus energetico e il costo inferiore per KWh -, per poi convogliarla nelle condotte forzate di giorno, quando il costo è più alto e la richiesta maggiore, alimentando le turbine di due ulteriori bacini ipogei di accumulo la cui realizzazione è prevista in siti del mio comune (Predaia), uno dei quali in località “Pozze Lunghe”, nella cava di estrazione esausta di Cementi Tassullo; 2) destinare parte dell’acqua stoccata nei tre bacini a scopi irrigui.

Circa il primo punto, il geografo Bätzing prospetta per l’Europa un futuro contrassegnato dalla crisi idrica quale effetto del cambiamento climatico e del riscaldamento globale, per cui le Alpi diverranno «una grande cisterna e batteria d’Europa» con la costruzione, continua Bätzing, di nuove centrali idroelettriche in grado di pompare acqua nel bacino superiore in modo da ri-immagazzinare energia e risparmiare le riserve. In questo senso secondo Marco Albino Ferrari, da me interpellato sulla questione, «vista la sempre più ridotta permanenza della neve sul terreno, le montagne stanno perdendo la loro capacità di trattenere risorse idriche e di rilasciarle gradualmente a beneficio delle colture in pianura e di altri utilizzi. Ne consegue che in un futuro prossimo, ma già lo tastiamo con mano, si intensificherà purtroppo la spinta verso la cantierizzazione di nuovi bacini artificiali. Ancora una volta le Alpi si metteranno al servizio di interessi esogeni. Oggi però abbiamo maggiore capacità di valutazione e interdizione rispetto a un tempo: importante è non rimanere passivi».
L’accumulo in bacino idroelettrico attraverso il pompaggio pare essere una tecnologia di moderna concezione determinata dagli scenari sopra descritti. Da profano mi pare un’operazione poco sensata consumare energia per produrre altra energia, anche se si afferma che c’è un vantaggio economico. Ma vantaggio per quali attori? Attualmente sulle regioni alpine italiane la pressione per costruire nuove centrali idroelettriche di piccole e medie dimensioni non si giustifica in termini di redditività o per un significativo contributo al soddisfacimento dei bisogni energetici, ma in ragione dei consistenti contributi pubblici erogati, in quanto si tratta di impianti che producono energia rinnovabile. Ma non è detto che l’energia rinnovabile sia anche sostenibile in termini di costi economici d’investimento a fronte degli ipotetici vantaggi ambientali e delle ricadute sociali, soprattutto quando gli oneri di sistema graveranno sulle bollette degli utenti consumatori, mentre i profitti saranno esclusivamente dei privati o dei gestori pubblici, come in questo caso.
Come sostiene Lucia Ruffato, presidente del coordinamento nazionale Tutela fiumi – Free Rivers Italia, «a partire dal 2008, grazie agli incentivi governativi alle rinnovabili che remunerano il KWh prodotto dai nuovi impianti tre volte il prezzo di mercato per vent’anni, è ripreso lo sfruttamento dei corsi d’acqua residui, essendo ormai sfruttati i siti più produttivi (…) per un apporto energetico di mezzo punto percentuale rispetto ai nostri consumi energetici totali. Risulta evidente che gli incentivi hanno innescato un fenomeno essenzialmente speculativo con conseguenze tanto devastanti per i fiumi quanto poco significative per apporto energetico».[1]

L’alluvione in Veneto del 2018 ha innescato un dibattito e un conseguente ripensamento da parte dello stato circa l’incentivazione di nuovi impianti idroelettrici di piccole e medie dimensioni, ma le regioni e province del Triveneto hanno chiesto al ministero competente di ripristinare i fondi per i piccoli impianti. Per quanto riguarda il Trentino, secondo Ruffato «nonostante si sia ormai arrivati alla saturazione, è difficile dire di no perché ci sono studi professionali specializzati che lavorano solo sull’idroelettrico e impongono pressioni non facilmente superabili». Consapevoli della scarso contributo rappresentato dal mini-idroelettrico nel bilancio energetico nazionale, adesso si investe sull’accumulo idroelettrico attraverso il pompaggio a monte, tecnica che viene sostenuta anche con argomenti di tipo ecologico, in quanto eviterebbe di deteriorare la qualità e le funzioni eco-sistemiche dei corsi d’acqua garantendo i ‘deflussi minimi vitali’, attualmente non rispettati sia nell’utilizzo a scopo idroelettrico che irriguo.
E qui arriviamo alla seconda prevista funzione del bacino di Salter, ovvero quello irriguo destinato alle coltivazioni di meleti della zona. Ma la monocoltura intensiva della valle di Non mal si concilia con un territorio come quello di Romeno e di Salter, che se nel recente passato ha destinato alcune aree a meleto, mantiene comunque una tradizionale vocazione turistica che verrebbe compromessa se col bacino fosse incentivata l’estensione della monocoltura, come è verosimile attendersi qualora il progetto fosse realizzato e come paventato da alcuni censiti. La località di Salter conserva ancora il tradizionale e caratteristico paesaggio prativo dell’alta Anaunia, un’oasi di biodiversità nel deserto dell’agroindustria; proprio la scarsità d’acqua ha infatti scoraggiato la diffusione dei meleti nelle zone non vincolate o tutelate dal piano urbanistico (come la stessa località “En Val”), per cui è verosimile che in futuro la disponibilità di risorse idriche possa incentivare nuove piantumazioni.

Credo infatti che i portatori di interesse locali guardino proprio alla futura destinazione a scopo irriguo dell’invaso. A questo proposito sono significative le prese di posizione aprioristicamente favorevoli da parte della minoranza consigliare del comune di Romeno e del consorzio di miglioramento fondiario. Nella recente assemblea pubblica indetta dal sindaco per sentire l’opinione della popolazione, visto che entro il trenta giugno il consiglio comunale dovrà esprimere il proprio parere (anche il comune di Predaia dovrà esprimersi, ma anche in questo caso i portatori di interessi – asuc e consorzio di miglioramento fondiario – si sono già dichiarati favorevoli), pare sia emersa la paura che l’impianto incentivi l’ulteriore estensione della monocoltura delle mele, che, dico io, potrebbe comportare bonifiche, disboscamenti e riconversioni agricole delle residue aree prative rimaste, peraltro in una zona non lontana dalle praterie dei Pradiei, già oggetto in passato di dispute e appetiti e ora soggetta a tutela, dopo petizioni popolari e prese di posizione per la sua salvaguardia. In quel caso va lodato il coraggio di amministratori lungimiranti che hanno saputo resistere alle pressioni della potente lobby degli agricoltori.
Penso che il problema non possa risolversi soltanto nell’individuazione di una località più idonea – di minor pregio paesaggistico e valore sentimentale -, come richiesto da alcuni censiti di Salter, o nella richiesta di compensazioni, come richiesto dai sindaci dei comuni che a breve dovranno esprimere un parere in merito, ma debba sollecitare un coinvolgimento e una partecipazione il più estesa possibile delle popolazioni locali e dei comuni interessati, magari attraverso referendum consultivo (come si fa in Svizzera) e comunque attraverso assemblee pubbliche e una chiara e trasparente informazione da parte di Hydro Dolomiti e delle istituzioni (comuni, enti, associazioni), informazione che in questa prima fase è stata parziale, carente e reticente. Credo inoltre che sia necessario interrogarsi sull’opportunità che un bene pubblico sempre più prezioso come l’acqua sia reso disponibile a tutto vantaggio di categorie che rappresentano meri interessi corporativi. Soprattutto nell’epoca che stiamo attraversando, contrassegnata dal cambiamento climatico (anche nella nostra provincia vediamo ancora i segni lasciati dalla tempesta Vaia) auspico una riflessione più alta sull’idea di sviluppo e sui concetti di limite e sostenibilità. Perché il territorio non appartiene esclusivamente a chi lo abita ma è un bene comune che va curato, non sfruttato, come ammonisce opportunamente Luigi Casanova: «chi lo abita o lo frequenta per lavoro ha un dovere: pensare agli interessi delle generazioni future, quindi consumare il meno possibile, non cancellare identità, culture; non impossessarsi dei beni in quanto questi li si ha “solo” in gestione»[2].
[1] L. Ruffato, L’idroelettrico in Italia: un assalto alle poche risorse naturali rimaste, in Luigi Casanova, Avere cura della montagna. L’Italia si salva dalla cima, Altra Economia, Milano, 2020, p. 94. È dimostrato che il mini idroelettrico non è economicamente concorrenziale: si sostiene soltanto grazie ai consistenti incentivi pubblici. In questo caso bisogna altresì ricordare che la Provincia autonoma di Trento è orientata al rinnovo diretto (senza gara) fino alla scadenza nel 2029 della concessione a Hydro Dolomiti Energia, a fronte di un impegno della società a fare investimenti ed innovazione. La concomitanza con la presentazione del progetto non sembra casuale.
[2] Luigi Casanova, cit., p. 129.
Giovanni Widmann