Ospitalità e rispetto per la natura la strada per uno sci sostenibile.
Addio monocoltura della montagna: ora la crisi climatica impone di cambiare. Dobbiamo ripensare il futuro come i visionari che inventarono le città nella neve. Di Enrico Camanni. Copyright: La Stampa
L’ invenzione dello sci alpino, in forme elitarie nel primo Novecento e con dimensioni di massa dopo gli anni Cinquanta, non è stata una stravaganza ma una rivoluzione. Per comprenderla appieno bisogna pensare a una civiltà abituata da secoli a patteggiare con la dura legge del pendio, un mondo in cui tutto era in salita, faticoso e precario, e su quelle salite si appoggiavano i campi, le case e la vita delle comunità, e poi bisogna immaginare che un giorno quel pendio, con un fantastico salto mortale, diventi uno strumento di piacere.
È successo con l’avvento dello sci e l’improvvisa rivoluzione innescata dai due assi di legno: nuove montagne, nuovi mestieri e città al posto degli antichi villaggi. Lo sci è stato un gesto futuristico, lampo pirotecnico e promessa di avvenire.
Quando la città è salita in quota la cultura del consumo ha sostituito in breve tempo quella del risparmio e l’industria della neve ha rimpiazzato i vecchi saperi, portando altri stili di vita, inedite libertà e anche nuove obbedienze, in cambio di denaro e posti di lavoro sicuri. La cattiva stagione, che per i montanari era un’interminabile attesa della primavera, è diventata improvvisamente buona e l’oro bianco di prima, il latte, s’è trasformato in neve. Da allora tanta ne è scesa sulle piste, prima naturale e poi neve da cannone, e lo sci è molto cambiato pur restando uno dei pilastri dell’economia alpina.
Sono cambiate le piste, sempre più simili ad autostrade, sono migliorati gli impianti di risalita, sempre più veloci e confortevoli, si sono allargati gli sci, sempre più corti e facili da girare, sono saliti i costi e sono cambiati gli sciatori, che una volta salivano dalle pianure con un panino e una voglia di neve e si accontentavano del tesserino a punti, e adesso arrivano da ogni parte del mondo e sono sempre più ricchi e stranieri. Soprattutto è cambiata la congiuntura climatica, non tanto perché nevichi meno di una volta ma perché succede sempre più in alto e avanti in stagione. Fa ormai troppo caldo per sciare sotto i 1500-1800 metri di quota, che presto saranno 2000 metri perché continuiamo a buttare anidride carbonica nell’atmosfera.
Mentre scrivo questo articolo l’osservatorio di chimica atmosferica del Monte Mauna Loa registra una quantità di CO2 nell’aria pari a 423,60 parti per milione; un anno fa erano 421; 10 anni fa 397,33. Non foss’altro che per sanità di bilancio, i piani sulla montagna dovrebbero anteporre queste cifre a qualsiasi valutazione progettuale. Evidentemente il comparto degli sport invernali è tra i più coinvolti dal riscaldamento globale e l’aumento delle temperature pone dei problemi all’industria dello sci, imponendo un uso sempre più diffuso dell’innevamento programmato (circa il 90 per cento delle piste italiane è preparato artificialmente, con relativi costi a carico della collettività) e ricorrendo a palliativi come i teli di protezione dal sole sul ghiacciaio del Presena e in altri circhi glaciali dove una volta si sciava d’estate in bikini e scarponi. Oppure consigliando scelte risolutive: nelle valli svizzere non si scierà più sotto i 1800 metri perché gli elvetici hanno deciso che è meglio investire nell’altro turismo, dopo avere ripristinato gli ambienti compromessi dagli impianti di risalita e dai tracciati di discesa. Se i grandi investimenti degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del ’900 poggiavano fideisticamente sull’immobilità del clima, come se avesse dovuto nevicare sempre e per sempre, in una bolla di ottimismo senza tempo, oggi ci scontriamo con la finitudine delle certezze, anche se i ragionamenti e le decisioni degli investitori sono ancora spesso ancorati al vecchio pensiero. Non si tratta certo di abbandonare lo sci a sé stesso, e insieme a lui il vasto mondo che gli gira intorno, ma è arrivato il momento di scegliere: s’investe il denaro pubblico dove lo sci di pista ha un futuro, riammodernando gli impianti senza costruirne di nuovi, e non s’investe dove l’evidenza suggerisce che quel luogo è ormai destinato ad altre vocazioni.
Tenendo conto che in alcune stazioni, le più famose, la monocultura dello sci renderà difficile la diversificazione dell’offerta, spingendole a puntare su un pubblico sempre più avulso dal territorio come i turisti milionari degli Emirati arabi o del Giappone o della Russia, quando finirà la guerra, mentre le stazioni piccole e flessibili, per esempio Prali in Val Germanasca o Torgnon in Valtournenche, con impianti meno costosi, stagionalità meno vincolante e qualità dell’ambiente meno compromessa avranno più agio di variare e integrare le proposte; già oggi nelle località “minori” si può alternare lo sci di pista allo sci di fondo (sport a torto trascurato dagli italiani), lo sci alpinismo, lo sci escursionismo, le ciaspole e il turismo naturalistico, con costi accessibili, ospitalità familiare e scambi tra chi ospita e chi è ospitato. In un caso lo sciatore è catapultato in un mondo apparecchiato per lui, ma artificiale, mentre nell’altro è lui ad adattarsi al luogo, imparando ad amarlo. I glaciologi, purtroppo, assicurano che entro il 2050 non avremo più ghiacciai sotto i 3500 metri e le Alpi assomiglieranno sempre di più agli Appennini. Per contro le estati bollenti spingeranno i cittadini sulle montagne, rivalutando il turismo estivo. Senza catastrofismi, siamo di fronte a una situazione nuovissima per le Alpi, dove il turismo è arrivato solo da duecento anni e lo sci da poco più di cento. Ora bisogna fare i conti con una situazione mai vista, ma non c’è nulla di terribile nell’immaginare un altro futuro.
Non è forse ciò che fecero Adolfo Kind e gli importatori dello sci in Italia, uomini dallo spirito utopico e coraggioso? Non furono dei visionari gli inventori delle città della neve, a prescindere dagli esiti e dalle conseguenze? E non è stato uno sguardo ribelle e geniale a scorgere nel pendio una morbida discesa, quando era ancora impregnato di fatica e sudore? L’unico futuro che dobbiamo temere è il presente che non sa cambiare.
Enrico Camanni