Paesaggio e pale eoliche: quanto etica ed estetica sono due facce della stessa medaglia.

“…E’ curioso pensare che ognuno di noi ha un paese come questo, e sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio immutabile; è curioso che l’ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così impossibile a cancellarsi”. ( Eugenio Montale, Dove era una volta il tennis).
Una riflessione di Carlo Alberto Pinelli.

Il testo pubblicato da Andrea Bedon su Micromega del 30 Agosto, dal titolo “ Sardegna, le contraddizioni della protesta contro le fonti rinnovabili”, mi spinge a sottoporre al giudizio dei lettori una breve risposta in difesa della ribellione della Sardegna ( e di tante altre comunità locali, ad esempio in Maremma, nella Tuscia, a Gubbio, ecc ) contro l’invasione massiccia delle cosiddette energie pulite che utilizzano il vento o il sole. Non intendo contestare, una per una, tutte le affermazioni ritenute apodittiche e sottilmente condiscendenti dell’autore, sebbene probabilmente riuscirei a farlo.  E neppure affronterò qui la denuncia delle zone opache, spesso mafiose, grazie alle norme criminogene sempre più lasche, che continuano ad accompagnare questa categoria di interventi industriali, o i costi anche solo energetici ( da fonti fossili!) nascosti dietro alla facciata pulita della transizione “green” in salsa von der Leyen. Mi limiterò a prendere lo spunto da una frase dell’autore, il quale, dopo aver constatato, come abbiamo fatto tutti noi, che l’effetto serra  ci sta regalando estati sempre più torride a prive di pioggia, aggiunge: “bisogna installare fonti di energia pulita ovunque possibile, più in fretta possibile”. Rimbocchiamoci dunque le maniche e corriamo in soccorso senza perdere un minuto di tempo!  Ma dove? Ovviamente qui in Italia e in particolare in Sardegna, allo scopo di abbattere efficacemente, con una raffica di torri eoliche costruite soprattutto in Cina, le emissioni termo-inquinanti a livello planetario. Bene. Vorrei umilmente ricordare che l’intera Europa contribuisce all’aumento di CO2 nell’atmosfera per circa il 9% . L’Italia per un centesimo o anche meno. Pure se riuscissimo a riempire di pale eoliche, alte molto di più della Mole Antonelliana di Torino, e di pannelli fotovoltaici sui terreni agricoli l’intera superfice della penisola e delle due isole maggiori, l’effetto positivo sarebbe irrilevante. I ghiacciai montani e il pack dei Poli continuerebbero allegramente a restringersi, il permafrost dei fondali marini a scomparire, liberando mortiferi zampilli di gas metano, le stazioni sciistiche a chiudere, il caldo estivo ad affliggerci ogni anno con maggiore violenza, le sabbie dei deserti ad avanzare, i pesci tropicali a colonizzare il Mediterraneo. Tanto più che Cina, America del nord, India, Indonesia continuano tranquillamente ad aumentare ogni anno l’ emissioni di CO2, infinocchiandoci con qualche manciata di pale eoliche, seminate  sui loro sterminati territori.  Monia Monni, assessore all’ambiente della Toscana, ha recentemente liquidato queste oggettive considerazioni sostenendo che comunque – piccoli o grandi-  ciascuno deve fare la sua parte. Ciò significa in poche parole che la conversione verso le energie pulite, nella prospettiva planetaria, declinata qui da noi, ha soltanto un valore simbolico ed esemplare: indica  un possibile percorso virtuoso, nella speranza che il resto del mondo se ne accorga e si converta, non a parole, ma nei fatti. Nobile proposito, senza dubbio. Che però non può essere sovradimensionato – proprio per la sua natura meramente simbolica –  nei confronti di altre priorità, quasi si trattasse di una urgenza inderogabile, una questione imminente di vita o di morte; ma con quelle altre priorità dovrebbe venire a patti, su un piano di reale parità.

E qui vengo al nocciolo del mio intervento: di gran lunga la principale di tali priorità riguarda la difesa del paesaggio, definita frettolosamente dal Bedon come una “argomentazione estetica”.

Ciò che non smette di stupirmi, nei decisori italiani e europei e nella spocchiosa corte di associazioni ambientaliste che forniscono loro gli alibi di comodo, è la sottovalutazione sistematica del significato autentico del paesaggio che viene manomesso. Significato cruciale che non si può equiparare alla percezione estetica del panorama e liquidare come un optional da weekend o un egoistico rintanarsi nella sindrome Nimby.  Del resto bisogna avere il coraggio di dire apertamente che a volte è proprio la sindrome Nimby l’ultima trincea contro il massacro della bellezza identitaria della penisola e delle due isole maggiori.  Sostenere che la ribellione del popolo sardo rappresenti solo un’ultima eco, fuori tempo massimo, dei soprusi e dello sfruttamento del passato equivale a rifiutarsi di capire il legame vitale di ogni comunità con lo spazio fisico e geografico che l’ha modellata nei secoli e che a sua volta ha contribuito a modellare.  Quando si parla di paesaggio identitario si intende un ambiente culturale, naturale, storico e sentimentale profondamente radicato nella percezione individuale e collettiva. La sua alterazione, soprattutto se ingiustificata, provoca una sanguinante lacerazione psicologica in tutte le persone dotate di un minimo di sensibilità. Al dilà delle sue sfumature egoistiche e localistiche la sindrome Nimby misura onestamente la profondità di tali legami affettivi. Per questo va presa sul serio.  Imprigionata all’interno di una soffocante palizzata di mostruose torri eoliche muore, con il paesaggio che ci era familiare, una parte non marginale di ciascuno di noi.

Si dice: il paesaggio si è sempre evoluto, dalla rivoluzione agricola del Neolitico ad oggi. Perché allora opporsi a un ulteriore cambiamento? Risposta: l’assoluta maggioranza di quei cambiamenti, uno diverso dall’altro, era avvenuta lentissimamente, col saggio passo dei secoli, ubbidendo alle reali necessità delle popolazioni locali, e risultava impercettibile nell’arco delle esistenze individuali. L’invasione brutale delle torri eoliche dipende invece da discutibili decisioni piovute dall’alto e cannibalizza da un giorno all’altro i tanti variegati paesaggi della nazione, omologandoli ad un unico, estraneo modello industriale, ripetuto migliaia di volte. Si dice: avete tranquillamente metabolizzato le reti dell’alta tensione, le autostrade, i viadotti, lo sviluppo delle periferie che si sono mangiate le campagne; cosa hanno di diverso e di più indigesto gli aerogeneratori?  Le seguenti cose: la quantità esorbitante, l’impatto visivo a decine di chilometri di distanza, i cantieri  stradali devastanti; e soprattutto la dimostrata inefficienza, a paragone dei danni irreparabili.

Si dice : anche se fosse vero che la pretesa salvifica delle torri eoliche e dei pannelli fotovoltaici non sia sostenibile, non potete negare che il loro sviluppo potrebbe liberare lo Stato dalle spese connesse con l’importazione del gas orientale e dell’ energia elettrica prodotta dal nucleare francese. Di conseguenza il raggiungimento dell’autonomia energetica basta e avanza per giustificare le attuali scelte “green”, anche qualora fossero gravemente invasive. Personalmente considero questa argomentazione non solo debole ma addirittura scandalosa. Debole perché l’elettricità incide sul totale dell’energia di cui abbiamo bisogno solo per il venti per cento. Scandalosa perché il prezzo per ottenerla prevede il massacro dei paesaggi identitari. E’ come se, per giungere al pareggio di bilancio, mettessimo in vendita tutti i capolavori che arricchiscono i nostri musei. Chi non considererebbe questa decisione una bestemmia? Ebbene anche i paesaggi sono i nostri “capolavori” e sarebbe un delitto immolarli sull’altare delle convenienze economiche.

E’ stato detto: le torri eoliche sono belle. Non offendono il paesaggio ma lo arricchiscono. Sono le cattedrali del nostro tempo. Non mi scandalizzo se qualcuno considera un singolo aerogeneratore un interessante esempio di design industriale. Anche due, anche tre messi in fila.  Ma qui stiamo parlando di decine e decine di migliaia di torri poste a colonizzare ogni dorsale collinare minimamente ventosa. Sarebbe un orrore anche se al loro posto si innalzassero migliaia di copie identiche del duomo di Orvieto o della torre di Pisa ( a parte le proporzioni enormemente più modeste!). O no?

Si dice: allora voi favorite lo status quo e di conseguenza ostacolate di fatto ogni tentativo di salvare il Pianeta. Tutt’altro. Pur consapevoli della scarsa incidenza delle rinnovabili nei riguardi della mitigazione dell’effetto serra, la strada che vorremmo indicare non esclude  un accorto e rispettoso uso dei pannelli fotovoltaici sui tetti dei capannoni industriali e di aree urbanizzate prive di valori storico-architettonici ( come dimostrato da ISPRA), ma conduce soprattutto verso  uno strutturale e duraturo risparmio energetico e la sua razionalizzazione. Faccio solo un esempio tra tanti: in Italia le reti di distribuzione dell’elettricità, spesso obsolete, perdono durante il trasporto una percentuale dell’ energia prodotta a monte più o meno pari a quella che le nostre rinnovabili riescono a regalarci ( incluso l’idrico e le biomasse);  tutti siamo testimoni e complici degli sprechi quotidiani: quelli reali e quelli – altrettanto deleteri – di stampo esemplare. L’illuminazione notturna dei campi da tennis, da calcetto, degli stadi, delle discoteche può anche avere un peso irrilevante sul totale dei consumi, ma veicola tra i cittadini un esempio deleterio, giustificando di riflesso comportamenti irresponsabili. Risparmio. Ma se questa parola basta a suscitare reazioni di orrore e di scherno, esiste a mio avviso un’unica soluzione alternativa: il nucleare. Tutto il resto sono fiabe per bambini viziati. Sarebbe ora che la parte meno dogmatica della nostra sinistra si decidesse a porsi qualche dubbio riguardo alla narrazione ideologica veicolata dall’ANEV, dai suoi sponsor e da Legambiente. Una narrazione intollerante di ogni dissenso, con la quale si tenta di spingere l’opinione pubblica a considerate le pale eoliche come le intoccabili icone pseudo religiose della salvezza del Pianeta. Aprite gli occhi.

 Carlo Alberto Pinelli

Addendum

Forse qualcuno potrebbe essere interessato ai costi anche solo energetici necessari per alzare al vento ogni singola torre eolica.

Ecco qui:

Solo un bambino può credere che aerogeneratori alti più di grattacieli di cinquanta piani spuntino gratuitamente come fiori di campo (si vedano le scaltre immagini dei soffioni, utilizzate dalle pubblicità), senza richiedere, a monte, un massiccio impiego di energia. Per fabbricare ogni singola pala occorrono 900 tonnellate di acciaio, 2500 tonnellate di calcestruzzo per lo zoccolo interrato, 45 tonnellate di plastica non riciclabile.  Per costruire e mettere in opera i milioni di aerogeneratori necessari a coprire il 50% del fabbisogno mondiale di energia elettrica ( ipotesi ad oggi assolutamente  fantascientifica), dovremmo cominciare con l’ utilizzare circa due miliardi di tonnellate di carbone e due miliardi di barili di petrolio. Senza contare l’energia da fonti fossili necessaria per aprire le strade su cui dovranno passare i tir carichi delle pale, i costi energetici dei trasporti via nave ( più di un terzo delle pale proviene dalla Cina), i costi ( sempre solo energetici) delle scavatrici e dei movimenti di terra, i costi per le nuove e capillari reti di collegamento e così via. Dopo quanti anni di attività una pala – in una nazione notoriamente scarsa di venti adatti – è in grado di ripagarsi, sempre in termine di consumi energetici, per essere da quel momento in poi al nostro servizio a costi accettabili?

Chi ingenuamente immagina di poter eliminare totalmente il ricorso alle fonti fossili, mediti su questi dati: in media l’eolico può produrre elettricità per 2500 ore l’anno. Il fotovoltaico per 1500 ore in giornate di sole. Spesso le due quantità si sommano lo stesso giorno. Il problema è che la nostra società, così come è strutturata, ha bisogno di energia elettrica per tutte le ore dell’anno. Che assommano a 8760, come sanno anche i bambini della prima elementare.