Tra ecologia e misticismo: le criticità della visione di Matteo Righetto in Il richiamo della montagna.
La recensione di Giovanni Widmann del libro Il richiamo della montagna di Mattero Righetto
Il richiamo della montagna, ultimo libro di Matteo Righetto, sostiene la seguente tesi: nessuna autentica svolta ecologista sarà possibile senza che vi sia una rivoluzione culturale, la quale deve far sì che l’uomo riscopra la spiritualità della Montagna. Ma la propria ri-umanizzazione avverrà soltanto attraverso una rinaturalizzazione, ovvero recuperando l’ancestrale legame che ci unisce alla Madre Terra come ad una radice vitale che nel tempo dello sviluppo delle società industriali moderne abbiamo sciaguratamente reciso.

Ascoltare il richiamo della Montagna, termine che per Righetto ha funzione di sineddoche rappresentando non soltanto le montagne in senso stretto ma l’universo delle terre alte nella sua varietà e complessità, significa proprio aderire ad uno nuovo umanesimo recuperando la nostra più profonda natura, il che implica la necessità di cambiare profondamente la concezione del tempo e dello spazio, reimparando il tempo lento delle genti di montagna e salvaguardando l’identità dei luoghi di contro ai non-luoghi anonimi e spersonalizzanti che caratterizzano le modalità di vita e di relazione della pianura.
Bisogna recuperare l’atavica selvaticità della nostra natura, che abbiamo perso nel processo di civilizzazione, snaturandoci: infatti secondo Righetto abbiamo sviluppato la ragione strumentale che ci ha permesso di dominare la natura attraverso la tecnica, ma abbiamo sacrificato la nostra intelligenza emotiva ed empatica. In questo senso soltanto attraverso un approccio poetico, esistenziale, filosofico possiamo tornare a vivere in armonia con la natura realizzando quella tanto auspicata rivoluzione ecologica che gli effetti del riscaldamento globale e del cambiamento climatico rendono assolutamente urgente (nei primi capitoli del libro l’autore ricorda la tragedia della Marmolada del 2022 e la tempesta Vaia del 2018).

Molte sono le pagine in cui si ribadisce la necessità di riscoprire una relazione armonica con la natura: Righetto parla di sentimento panico, con-fusione con l’Assoluto, riconoscimento della sacralità e spiritualità della Montagna, relazione osmotica con la Terra-Madre auspicata con accenti mistici. Tuttavia questa compenetrazione olistica è possibile soltanto se si supera il tradizionale antropocentrismo che considera la natura come un bene disponibile da sfruttare economicamente o da godere edonisticamente. Qui l’autore dichiara l’influenza dei padri del conservazionismo e dell’ambientalismo Muir e Leopold, mentre dal punto di vista filosofico è evidente il richiamo implicito al naturalismo e al platonismo rinascimentale e alla concezione romantica della natura.

Righetto sostiene la necessità di recuperare la nostra natura più profonda, corrotta da modelli culturali improntati al materialismo e al funzionalismo e corrotta da falsi valori che scambiano il progresso civile e culturale con lo sviluppo tecnologico, contrassegnato da un’azione predatoria nei confronti della natura, ‘risorsa’ soggetta al mero sfruttamento economico e passibile della sola valutazione secondo criteri eminentemente utilitari: il paradigma dell’economia capitalistica finalizzata al profitto, il quale ha mercificato e degradato ogni ambito, anche la relazione con paesaggi e gli ambienti naturali. Ecco allora che aggressive campagne di marketing hanno progressivamente volgarizzato e banalizzato il rapporto con l’alpe, portando in quota frotte di turisti inconsapevoli della fragilità degli ambienti che attraversano e ai quali in nome del tornaconto e di uno sfrenato edonismo materialistico si concede tutto «senza vergogna», purché consumino. La natura come enorme «playground», parco-divertimento che porta in quota pratiche e stili di vita della pianura, promettendo di sanare attraverso la vacanza e il tempo libero quei malesseri esistenziali che la civiltà del progresso ha provocato inculcando a livello individuale e collettivo il culto della prestazione e della competizione esasperata.

Solo il «richiamo ancestrale del selvatico» ci potrà salvare, secondo Righetto, ovvero reimparando a sentirci non antagonisti ma parte integrante di una comune Natura vivente. Solo vivendo una relazione armonica con la «physis» potremo come uomini delle decadenti società occidentali sviluppare un rinnovato «ethos ecologico» di fronte agli scenari drammatici rappresentati dal cambiamento climatico e dal riscaldamento globale. La coscienza etica passa attraverso un affinamento della sensibilità etica ed estetica. Più volte a questo proposito Righetto sottolinea l’importanza della poièsis contro la techné, del calore sentimentale della poesia in alternativa alla fredda razionalità della tecnica. Solo uscendo dalle strettoie del “pensiero calcolante” e analitico della scienza – quello che Pascal chiamava “esprit de geometrie” – riappropriandosi della facoltà naturale dell’intuizione – l’”esprit de finesse” pascaliano – possiamo operare un’autentica rivoluzione ecologica e riappacificarci con l’universo.
Qui però a nostro avviso emerge un elemento problematico e controverso: equiparando inconsapevolmente la scienza alla tecnica – errore frequente in coloro che hanno una formazione umanistica come il nostro – Righetto non s’avvede del rischio di assumere posizioni di ingenuo sentimentalismo e velleitarismo tradendo venature moralizzanti e penetrando la sua concezione della ri-naturalizzazione di elementi esoterici, misticheggianti ed irrazionalistici, sottovalutando il ruolo che ha avuto e sta avendo la scienza nel produrre conoscenza intorno al tema del cambiamento climatico e alle sue conseguenze ambientali, economiche e sociali, e ancor più elaborando modelli predittivi e sensibilizzando l’opinione pubblica e i governi sull’emergenza ambientale in atto e sulla necessità di invertire la rotta (ammesso che sia ancora possibile) realizzando una vera transizione ecologica.
Più che in termini alternativi o oppositivi, bisognerebbe pensare piuttosto ad un’integrazione di due approcci complementari: quello logico-analitico che presiede alla conoscenza razionale e quello analogico-sintetico che contempla la dimensione magico-mitica, evocativa e intuitiva, emozionale, estetica e ‘spirituale’, entrambe finalizzate a generare quell’auspicato re-inselvatichimento e quella relazione osmotica e simbiotica con la Madre Terra attraverso la definizione di una nuova scala di valori.
Il rischio del riduzionismo è insito anche nel naturalismo neorousseauiano di Righetto: la fallacia naturalistica di considerare ‘naturale’ una prospettiva che invero è culturale, ovvero la risultante di un processo storico di comprensione e di consapevolizzazione. Il tradizionale binomio natura-cultura non può insomma essere risolto enfatizzando un improbabile e antistorico ritorno alla natura, ma attraverso una diffusa presa di coscienza, cioè attraverso un processo culturale dove possono di diritto rientrare tanto la poesia e la filosofia quanto la scienza; le scienze umane tanto quanto le scienze sperimentali. Il vero problema è porre in discussione un certo paradigma culturale europeo e occidentale fondato sul dominio umano della natura che si è imposto con Francesco Bacone e ha poi connotato l’età moderna e la civiltà industriale. Più ancora, la questione è riflettere sui dispositivi culturali che operano a livello di immaginario collettivo nella definizione di natura e di naturale, riconoscendo paradossalmente che la ‘natura’ (se si esclude la sua realtà biofisica, geologica, quella studiata dalle scienze della terra e della natura) non esiste ma è un’invenzione e una costruzione culturale, un costrutto che si è evoluto storicamente. Per dire, la sensibilità ambientale cinquanta o sessant’anni fa (al tempo della nascita dell’industria dello sci) era scarsa in ragione di una diversa concezione della natura e del rapporto uomo-natura.
Il rischio della semplificazione traspare anche laddove Righetto nutre un eccesso di fiducia nel potere redentivo del contatto con la Natura, che, diciamo noi, se è esente da una più profonda riflessione di carattere etico-filosofico sul significato di natura e cultura, di naturale/artificiale, di finitezza umana e di limite, di ciclicità del tempo e permanenza degli enti eterni rischia di tradursi in un’esperienza tutt’al più benefica per il corpo e per lo spirito, ma non significativa né pedagogicamente formativa[1]. Ma certamente Righetto con la sua opera che vuol essere un manifesto per una rivoluzione culturale, prima ancora che ecologica, ha dato ripetutamente prova di considerare seriamente questi elementi.

Altro aspetto debole e criticabile della narrazione di Righetto è costituito dalle frequenti cadute retoriche, dalle affermazioni ingenue e semplificazioni che mentre condannano giustamente il rapporto prosaico e superficiale con l’ambiente naturale caratterizzato da un turismo mordi e fuggi, rischiano di avallare inconsapevolmente una certa deteriore spiritualità commerciale e new age. Possiamo riconoscere che lo spettacolo di una nevicata, l’attraversamento del bosco tra mille presenze misteriose e fruscii, l’enrosadira dolomitica, ecc. siano esperienze emotivamente profonde e significative; il problema è che quando si descrivono in termini di vissuto personale si rischia sempre il sentimentalismo, a meno di essere poeti o narratori raffinati, e la prosa del Righetto non ne è immune.
Più convincente la critica al Tempo della velocità (dei «10 secondi») che contraddistingue l’esperienza della vita quotidiana moderna e che appiattisce sulla sola dimensione del «qui-adesso», trascurando l’importanza della memoria storica e della proiezione nel futuro. Si tratta della «sindrome fanciullesca» che guida le azioni secondo il principio del piacere e del profittevole e che non sa guardare avanti pensando che tutto si giochi nell’immediatezza del presente, dove gli imperativi sono «Fun!» e «Money!» (vedi il graffiante capitolo Nessuna vergogna). Convincono poi l’afflato, la genuinità dello slancio e la sincerità delle intenzioni, percepibili allorquando senza mezzi termini Righetto condanna i facili costumi dei turisti d’assalto, ma anche degli alpigiani che per convenienza li assecondano. Il richiamo della montagna è perciò un allarmato atto di denuncia, ma offre anche uno spiraglio di speranza: «una rieducazione selvatica» è possibile, «tornare poeticamente alla Natura» si può. Non tutto è perduto, ci dice Righetto; resta ancora spazio per l’impegno personale, nella consapevolezza che ognuno di noi ha la responsabilità di una scelta etica, culturale e sociale verso una reale conversione ecologica, la quale passa innanzitutto da una personale inversione valoriale.
Giovanni Widmann
[1] Noi heideggerianamente propendiamo per un’esperienza rivelativa, oltre che esistenzialmente e spiritualmente trasformativa: la relazione profonda con la physis svela e rivela il mistero dell’essere al di dell’ente, quella fondamentale differenza ontologica che ci fa sussultare davanti al mondo che si dona a noi provocando la fatidica interrogazione: “Perché l’essere e non il Nulla?”