Tutti in montagna. Ma chi ascolta davvero?
Nonostante il colpo di coda dell’inverno, che ha portato abbondanti nevicate primaverili sulle Alpi, la stagione scialpinistica volge al termine. È quel momento sospeso dell’anno in cui le pelli di foca si tolgono dagli zaini, gli scarponi tornano in cantina e si comincia a pensare all’estate, quella in cui la montagna diventa bene collettivo e rifugio di massa.
Senza la neve, la frequentazione si semplifica. Le barriere tecniche si abbassano, i dislivelli sembrano meno scoraggianti, l’accesso si fa più democratico. E così, tra pochi mesi, le stesse valli silenziose che ora respirano piano si troveranno a fare i conti con la piena. Una piena fatta di auto in doppia fila, droni in volo, playlist nei boschi e code per il caffè nei rifugi. Il turismo estivo in montagna ha raggiunto in molte località il suo picco. Un picco che pone domande urgenti, e spesso ignorate, sulla qualità dell’esperienza e sul destino stesso dei luoghi che diciamo di amare.

Siamo diventati tutti montanari della domenica. O della settimana intera, per chi può permetterselo. I numeri parlano chiaro: la frequentazione delle montagne italiane è in costante crescita, con punte record in estate e in inverno. Le località più note fanno a gara per offrire “esperienze indimenticabili”, impianti più veloci, rifugi più confortevoli, percorsi più accessibili. Ma in mezzo a tutto questo entusiasmo, una domanda comincia a farsi strada tra le valli: a quale prezzo?
Non mi riferisco solo al prezzo economico — quello, in fondo, è sempre stato il biglietto d’ingresso per un certo tipo di montagna, selettiva e patinata. Mi riferisco al prezzo culturale, ambientale, esistenziale. Perché mentre ci congratuliamo per la “democratizzazione dell’accesso” all’ambiente alpino, stiamo assistendo a una sua progressiva banalizzazione. Non è la montagna che sta diventando accessibile: è la sua immagine che si sta semplificando, riducendosi a cliché sempre più poveri.
La montagna, oggi, è un format. Tutti vogliono la “vista mozzafiato”, la “colazione in quota”, il “panino gourmet al rifugio”, l’after trekking con musica lounge. Tutti fotografano lo stesso scorcio, postano lo stesso tramonto, usano gli stessi hashtag. È la montagna confezionata per un consumo veloce, priva di spigoli — anche metaforici. Un luogo dell’anima trasformato in prodotto da scaffale.

Il paradosso è evidente: più persone frequentano la montagna, meno persone sembrano fermarsi ad ascoltarla e ad ascoltarsi. La frequentazione diventa rumore, la presenza diventa invasione. Il sentiero, da via di conoscenza, si fa passerella. I rifugi, nati per offrire riparo e silenzio, oggi servono brunch e cocktail.
Il linguaggio stesso ha cambiato pelle. Dove prima si parlava di “gita”, oggi si parla di “experience”. Invece di sedersi su un sasso, ora c’è la big bench. Tutto viene ripulito, lucidato, reso digeribile. Ma in questa operazione di branding alpino, perdiamo l’essenza di ciò che la montagna è sempre stata: silenzio, solitudine e fatica.
E non si tratta di nostalgia per un’età dell’oro che, forse, non è mai esistita. Si tratta piuttosto di una constatazione amara: stiamo portando in quota gli stessi modelli culturali che hanno già consumato le città. L’over-tourism, che ha svuotato di senso i centri storici e trasformato i borghi in fondali per selfie, ora sale di quota. I numeri dal lago di Braies, alle Cinque Torri, dalla Val Ferret al ghiacciaio di Fellaria, parlano chiaro: non siamo più pellegrini, siamo orde.

Ma attenzione: non si tratta di demonizzare chi si avvicina alla montagna senza esperienza. Al contrario, è potenzialmente positivo che sempre più persone scoprano l’emozione che può trasmettere la grandiosità di un paesaggio di alta quota, l’armonia e la cura di un alpeggio, il piacere della fatica fisica.
Il problema non è chi va in montagna. È come ci si va. Con quale spirito. Con quale consapevolezza.
La montagna è una grande maestra, ma insegna solo a chi sa ascoltare. E ascoltare richiede tempo, attenzione, silenzio. Esattamente l’opposto di quello che pretende il turismo di massa: tempi serrati e protocolli standardizzati.
Serve una nuova cultura della frequentazione: non più basata sul consumo, ma sulla relazione. Una cultura che accetti il limite — anche fisico, anche numerico — come valore. Che non rincorra sempre nuovi “servizi”, ma riscopra il valore della sobrietà. Che smetta di importare il vocabolario del marketing per descrivere quello che è, da secoli, uno spazio autentico.
Forse è il momento di dire, con coraggio, che non tutta la montagna può — né deve — essere per tutti. Non per snobismo, ma per rispetto. Perché un ambiente che si piega a ogni esigenza del visitatore, finisce per non avere più alcuna identità. E una montagna senza identità è solo un fondale tra tanti.
Se vogliamo che la montagna continui a parlare, dobbiamo prima smettere di urlare.
Nicola Pech