Andare in montagna è un esercizio di umiltà prima ancora che un’occasione di libertà.
Si arriva in vetta con l’illusione di dominare il mondo. Solo col tempo si comprende che l’estensione dello sguardo su quegli spazi incommensurabili misura non la nostra grandezza ma la nostra fragilità e finitezza: lassù ci sentiamo deboli e inessenziali, insignificanti. Proprio all’apice del nostro successo, giunti in alto, invero comprendiamo di non essere arrivati in fondo, che la meta è sempre e ancora ulteriore; con ciò il nostro fine non giunge mai alla fine. Per quanto mi riguarda, quando raggiungo la cima realizzo che non sono dominatore della natura, piuttosto spettatore, e tuttavia non avverto di essere da essa dominato e ostilmente contrastato, neanche quando si manifesta incombente, severa e inospitale. Semplicemente so che essa mi è superiore e che perciò non ha senso pensare di vincerla e superarla, magari facendo affidamento alla tecnologia. Gambe, testa, forza di volontà, tecnica ed esperienza sono necessari per arrivare in cima, ma non sufficienti. Tanti sono i rischi e i pericoli e limitata la nostra capacità di affrontarli per dire che il successo dell’impresa è esclusivamente nelle nostre mani. Che c’entri il caso, il destino o il volere di qualche entità soprannaturale è arduo stabilirlo. Ognuno è libero di credere quel che vuole.
Per me andare in montagna è un esercizio di umiltà prima ancora che un’occasione di libertà. Lealmente si raggiunge la vetta a mani nude; veramente se si torna a mani vuote. Abbracciando l’orizzonte siamo in armonia con la montagna e col paesaggio circostante: non vediamo soltanto ma sentiamo. Perché un abbraccio presuppone intima vicinanza, un’unità che salvaguarda le reciproche differenze; non una semplice unione e nemmeno una fusione – diventare una cosa sola – ma la capacità di stringersi insieme senza legarsi o costringersi, riconoscendosi liberi, infine.
Giovanni Widmann