La peste suina e il lockdown dei boschi

Di Giobbe e Livia – dalla rivista “Nunatak” n. 63 inverno 2022

La diffusione della peste suina

All’inizio dell’anno, tra basso Piemonte e Liguria, sono stati trovati casualmente dei cinghiali infetti da peste suina africana (PSA). E’ un virus altamente contagioso trasmissibile ai maiali e resistente a lungo nelle carni, nei foraggi, nell’ambiente. L’uomo è il primo fattore di diffusione, attraverso il commercio di carni, animali o resti contaminati, tant’è che l’EFSA, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, stima che il virus sia giunto in Europa attraverso carcasse congelate. Il cinghiale infatti, pur essendone un vettore locale, è una specie piuttosto sedentaria, che non arriva mai alle migliaia di chilometri con cui si è spostato il virus tra i continenti. La malattia presenta diverse varianti, alcune più letali altre meno. Dal suo habitat endemico subsahariano, appare improvvisamente nel continente eurasiatico nel 2007, dapprima negli allevamenti in Georgia, poi attraverso contatti diretti, compravendita di animali, foraggi o attraverso campi di mais e cinghiali, nelle zone a maggiore intensità di allevamento di Russia, Bielorussia, Ucraina. Nel 2019 appare una grave epidemia in Cina, Vietnam e Cambogia. Il governo cinese impone l’uccisione di 200 milioni di maiali, causando un aumento intercontinentale della circolazione delle carni, una crisi dei prezzi mondiale, e, secondo alcune supposizioni, la ricerca di altre fonti di carne animale, comprese la caccia e il commercio di specie selvatiche come nei cosiddetti “wet market” di Wuhan.

L’epidemia si diffonde nel continente europeo sul Baltico e in Polonia, in Germania nel 2020 e infine, con un salto innaturale lungo le grandi direttrici autostradali, dall’est Europa in Piemonte e Liguria. L’ipotesi più plausibile è che il contagio di questa zona sia avvenuto tramite un automezzo, poco importa se con un panino abbandonato in una piazzola o con del materiale organico trasportato accidentalmente.

La gestione della peste suina in Italia

A gennaio non c’era alcun focolaio tra maiali, eppure nelle aree dove sono stati ritrovati alcuni cinghiali infetti è stato imposto l’abbattimento preventivo di tutti i suini sani (sia allevati allo stato brado o semibrado che ospitati presso case private e rifugi), senza seguire nessun criterio sanitario ma ricercando l’effetto mediatico per rassicurare le borse. Senza precedenti, è stato emesso il divieto di circolazione per tutta la popolazione umana al di fuori delle strade asfaltate, per dare rassicurazione ai mercati esteri che “qualcosa si sta facendo”. Vita e libertà non valgono gli 1,7 miliardi di export annuale dei salumi italiani. I grandi capitalisti dell’allevamento industriale riescono a far imporre misure severe, anche eccessive, per scongiurare ripercussioni in borsa (sono tutte società quotate). Siamo “noi” che non ci facciamo sentire. La pandemia ha reso la popolazione ancor più docile e accondiscendente verso i decisori politici, anche per questioni che di emergenziale hanno ben poco.

Pure i piccoli governatori possono sentirsi importanti e diventare un po’ sceriffi, sfruttando l’occasione di un angolo di palcoscenico. Dal 2017 l’Unione Europea ha stabilito un disciplinare nel caso di focolai di PSA, che comprende la “zonazione” di aree infette e limitrofe. Individua pratiche severe per evitare il contagio tramite gli operatori, i materiali e nel commercio, ma non arriva a prevedere il confinamento della popolazione con il divieto di percorrere boschi e montagne. Nel frattempo però c’è stato il Covid e, soprattutto, il più grande esperimento di disciplinamento della popolazione mondiale.

Il lockdown dei bochi

Così a 114 Comuni delle Province di Alessandria, Genova e Savona, con un’ordinanza ministeriale, è stato imposto un confinamento urbano di sei mesi, con il divieto di praticare qualsiasi attività al di fuori delle strade asfaltate. Dalla possibilità di muoversi da casa per tutte le persone che abitano isolate o nel bosco, a tutte le attività vitali che vanno dalla raccolta della legna per riscaldamento proprio, alla potatura e gestione delle selve castanili, alla raccolta di funghi o erbe per uso medico o alimentare (a meno che non siano attività aziendali). Vietata completamente la frequentazione del territorio, che nella visione urbanocentrica viene evidentemente considerata un’opzione velleitaria e non una normale pratica quotidiana, inscindibille dalla vita di chi sta in montagna, non solo praticata per turismo o fuga temporanea dalla città. Sta a noi che viviamo in montagna rivendicare che il nostro modo di vivere non è opzionale, che non è accettabile rinunciare al territorio. Altrimenti abituiamoci all’idea che, di “emergenza” in emergenza, non vi saranno più diritti, né naturali né costituzionali, e che ogni libertà sarà sempre soggetta alla valutazione di opportunità di volta in volta graduata dall’autorità di turno.

Secondo la logica autoritaria, per individuare eventuali carcasse di animali infetti, è più consono istituire “squadre professionalizzate” a cui affidare un impossibile pattugliamento dei boschi evacuati dalla popolazione, piuttosto che affidarsi all’osservazione diretta da parte di chi in montagna già ci abita. Così, anziché partecipare alla risoluzione del problema, la popolazione accetta che per poter circolare sia necessario avere una divisa, una pettorina, un pass…

La limitazione della libertà conta meno degli interessi commerciali dell’agroindustria. In nome della “salute” si impongono misure contrarie alla risoluzione del problema, con un susseguirsi così rapido che, a essere saggiata non è tanto l’obbedienza alla norma specifica, ma la capacità di dire sì a tutto e al contrario di tutto: la famosa ginnastica d’obbedienza.

Gli allevamenti intensivi e la ripercussione sul resto della fauna

Le conseguenze del problema causato dall’allevamento intensivo, dai trasporti e dal sistema industriale nel suo complesso vanno a ricadere completamente sugli animali selvatici, sugli allevamenti allo stato brado e sugli animali genericamente classificati “da compagnia”. Gli ispettori dell’Unione Europea giunti in zona battono gli allevamenti sequestrando tutti i suini per incenerirli, nel caso le strutture non abbiano doppie recinzioni rigide e cementate a terra, alte un metro e mezzo e altrettanto distanti, con superfici interne totalmente lavabili (ovvero non ci siano parti in legno), rigidamente separate e inaccessibili per mezzi e persone non autorizzate. Chiaramente è molto difficile che un luogo dove vivono animali liberi di pascolare sia aderente a queste norme, dunque i piccoli allevatori stanno macellando tutti i capi e chiudendo le stalle. Si parla, per ora, di sei mesi di zona rossa, ma di due anni per gli allevamenti, che facilmente arriveranno a quattro o cinque a seconda dell’evoluzione della PSA nei cinghiali. Come abbiamo visto, una volta introdotto un divieto temporaneo, è molto facile che venga prorogato negli anni. Difficilmente si torna indietro. Nel frattempo, temendo che il virus si estenda all’appennino e diventi endemico, le autorità stanno studiando un piano di sterminio totale del cinghiale, con una manovra “a sacco” perché non ne scappi neanche uno. Dopo aver causato la diffusione del virus nel mondo, rimarrà solo l’allevamento intensivo, con i suoi animali in gabbia che non vedono mai la luce del sole.

Le alternative esistono

Ci sarebbero delle buone norme di comportamento, che finora hanno evitato il contagio negli allevamenti: mettere doppie recinzioni, isolare le zone di approvvigionamento di acqua e di cibo frequentate anche da altri animali selvatici, evitare la dispersione di foraggio e scarti di cucina, che sono veicolo di contagio e fonte di attrazione per i selvatici, cambiare e pulire vestiti e scarpe, lavare gli automezzi, usare tute, guanti, prodotti specifici e disinfettanti.

Norme senz’altro impegnative, ma che riguardano gli operatori del settore: per tutti gli altri frequentatori dei boschi basterebbe non entrare a contatto con cinghiali e le zone dove grufolano, non avendo a che fare con allevamenti, macelli e produzione di mangimi. Le normative per la peste suina non riguardano il campo del sociale, ma l’occasione è ghiotta perché, dopo il confinamento sperimentato nelle zone urbane, sia sperimentata la stessa misura contenitiva della popolazione anche nei boschi. A essere messa alla prova non è solo l’obbedienza, ma anche l’organizzazione a livello locale della struttura di comando e di controllo per una emergenza che non ha risvolti sulla salute umana. Nulla deve abituarci all’idea di dover avere un’autorizzazione per qualsiasi cosa, anche solo una passeggiata.