Giuseppe Galimberti, ricordo di un architetto di provincia.
Michele Comi, intellettuale, geologo e guida alpina malenca, interpreta da sempre un modo di essere montanari per scelta, oltre che per nascita. In questo ritratto sincero e appassionato scritto per L’Ordine, ricorda Giuseppe Galimberti, architetto di provincia e spirito ribelle della Valtellina, che per decenni ha sfidato l’appiattimento culturale e l’omologazione edilizia con la forza della conoscenza, dell’ironia e del passo in montagna. Un elogio alla montagna viva, pensata e camminata, contro il lusso senz’anima e il progresso senz’intelligenza.

Sono seduto ai piedi di una piccola casa vestita di pietra.
Tutt’attorno si estendono sconfinati muri a secco, sorreggono secoli di viticultura eroica valtellinese: qui nasce il Grumello, robusto rosso di Valtellina.
E’ uno sterminato album petrografico che raccoglie una gran varietà di rocce, scisti, gneiss e graniti, il sole è quasi allo Zenith e le cime innevate delle Orobie luccicano nell’aria pulita di questi giorni di marzo.
Una mimosa si fa strada tra le crepe di un masso ciclopico, è abbracciata a un ciuffo di rosmarino, i capolini sferici di colore giallo profumano di cipria e di miele.
Ai miei piedi un piccolo tappeto di erba nuova annuncia la primavera.
Anche il gelso secolare si sta risvegliando, sporge le fronde sul ripido versante, quasi a volersi tuffare nel nastro azzurro dell’Adda che scorre centinaia di metri più in basso, lungo la piana alluvionale della Valtellina.
Lo sguardo spazia dall’Adamello al Legnone, alle mie spalle un allineamento di castelli si dispone lungo la Linea Insubrica, un’antica cicatrice geologica che separa mondi minerali assai diversi: ci ricorda che, dal punto di vista della Terra, pure Pontida sta in Africa.
Solo qui, con il taccuino e la matita in mano, potevo ricordare Giuseppe Galimberti, l’istrionico architetto Valtellinese che per decenni ha mostrato, non solo ai progettisti, la necessità di conoscere la realtà fisica della montagna e la poesia in essa racchiusa, anche attraverso l’uso delle gambe, per ascoltare, oltre ad invitare al cammino chi da troppo tempo sta immerso nella poltrona avvolgente della noia a bagnare di sudore la camicia.

Il “Galimba” ci ha lasciati cinque anni fa.
Ci mancano le sue acute analisi, raccontate anche attraverso le pagine de La Provincia, negli approfondimenti su L’Ordine, le sue intemerate contro il lusso confuso con la ricchezza ostentata e priva di conoscenza.
“Se non conosci distruggi” era una delle sue frasi più ricorrenti, che scagliava come macigni contro politici insipienti, cacicchi, palazzinari, progettisti sciatti e arraffoni.
La tragedia del “fare” senza conoscere, infatti, sta all’origine di tante irreversibili aggressioni alla montagna perpetrate in settant’anni di “sviluppo”, non sempre accompagnato dal “progresso”, aggressioni così visibili e forti che pure la nebbia non riesce più a nascondere.
Eppure questa Terra era nell’idea del “Galimba” (e rimane) un luogo dove poter sperimentare il futuro con una nuova socialità, che può nascere dalle rovine di decenni di inutile costruire e finalmente prevedere grandi demolizioni di idiozie condivise.
Le infinite trame territoriali sparse, tra Retiche e Orobie, rappresentano il centro, il cuore e l’essenza del vero lusso racchiuso nel poco, dove potersi liberare dal costo come sinonimo del bello, dal lusso confuso con la ricchezza.
L’avere e il disporre non potrà mai produrlo, se non sono al servizio dell’intelligenza.
Galimberti amava ripetere come la montagna, tutta, racconta di una civiltà, di come non può esistere benessere nel privato, ma solo nel collettivo.
Una civiltà sbiadita da progetti sterili di poesia e ricchi di finzione, spacciata per verità da chi vive nella noia, da chi è facile preda dell’omologazione, che non conosce confini altimetrici, vera iattura della contemporaneità.
La produzione di oggetti e la riproposizione di modelli nati in pianura, ma ripetuti in tutte le parti del mondo, diventa normalità e maschera con cui rappresentarsi.
“Produciamo di tutto e ci disfiamo di tutto” ripeteva, prendendosi spesso del “passatista”, incolpato di essere fermo ad un passato di stenti e fatiche.
Ma la modernità del “Galimba” sta nella consapevolezza di vivere in un luogo ancora felice. Felicità di cui tanti mostrano paura.
La riscoperta di valori antichi letti con l’occhio e la tecnologia della modernità è l’eredità contenuta nelle memorie dell’architetto di provincia, dove un bosco ignorato di larici radi e piccole case di pietre storte sanno raccontare la geomorfologia del territorio meglio di qualsiasi libro.
Il gusto dello sberleffo non gli mancava, per il “Galimba” le baracche in lamiera e pezzi di legno dell’abitazione improvvisata dell’extracomunitario potevano insegnare ai dotti urbanisti la forma dell’avvenire.
La sua biro correva libera sulla carta, ricordo il disegno di una capra che annusava un cestino in lamiera zincata che contiene gli escrementi del nostro civile: lei adora il profumo del tabacco delle cicche di sigarette. Pensa sia da incivili farla faticare ad estrarre queste cicche da quest’oggetto piantato nel mezzo del bosco.

Ricordo la sagoma dei cormorani, i volatili arrivati anni fa dalla Scandinavia per cibarsi dei pesci del lago di Mezzola, un tempo estremità superiore del Lago di Como, da cui oggi è completamente separato a seguito dell’accumulo di detriti dell’Adda e della Mera.
Splendidi uccelli ittiofagi che provocarono crisi di coscienza tra i progettisti del piano territoriale di coordinamento provinciale. Per il “Galimba” quel volo sembrò tanto interessante da pensare che la pianificazione urbanistica sarebbe stato meglio affidarla a chi sapeva intendere il linguaggio di questi uccelli, che in due giorni sorvolano l’Europa per ammirare il paesaggio del lago e riempirsi la pancia con i pesci allevati in batteria.
La soluzione politica del problema fu molto semplice: una squadra di cacciatori con doppietta e cartucce a pallini in pochi giorni abbatterono il pericolo che avrebbe fatto perdere voti di pescatori, ai cormorani nessuno aveva detto di non presentarsi in Valle in tempo di elezioni. Uno di loro aveva un anello che diceva la sua provenienza: Stoccolma.
La “civiltà” dell’uomo convinto di essere la creatura perfetta gli dava a noia.
La Valtellina, a suo avviso, avrebbe dovuto essere vissuta da gente capace di comprendere il privilegio a lei accordato dalla natura, un luogo magnifico che poteva esaltare chi lo abitava e abita, la politica era ed è di avviso diverso. La politica territoriale ha scelto l’ignoranza come strumento di consenso, da sempre la massa è più sensibile alla ricchezza materiale che non alla ricchezza dello spirito che sa rendere interessante la vita.

La funzionalità rivolta allo spirito, stava alla base del suo progetto, con uno sguardo di attenzione ai luoghi della dimenticanza, dove si è formata una realtà meravigliosa creata dall’assenza dell’uomo.
Inveiva regolarmente contro la burocrazia del terziario avanzato, che pretende carte inutili senza sapere il perché, contro la censura ignorante e la politica ridotta a mestiere, lontana da chi ancora sa sognare un mondo più giusto.
Feroce contro inutili svincoli stradali, supermercati e casucce con il tetto di coppo anticato, a seguire l’estetica normata e l’architettura seduta su uno sgabello di plastica riciclata.
Caustico nei confronti del proliferare di finte baite di pietra e cotiche di legno per non offendere paesaggio, incapaci di riportare veri pastori sulla montagna.
Non gli interessava progettare gabbie per polli da ingrasso, ma immaginare persone che sappiano cercare nella fantasia il piacere di esistere, promuovere il lusso da ricercare nella semplicità, come tre fiori di campo nel vaso di vetro sottile davanti alla finestra che inquadra le cime di neve.
Ripeteva come in mezzo alle Alpi i profumi sanno di legno appena tagliato, sanno di latte, di fumo di larice secco: “come è possibile accettare un moderno che vuole l’architettura uguale a Creta e a Madesimo?”
Immaginava costruzioni degli uomini di ieri con il supporto della tecnica di oggi, senza più mettere la camicia di forza ai torrenti ed al fiume e ostinarsi a dilatare senza fine la città nel terziario avanzato, con un’edilizia sciatta, cara ai palazzinari con il suv da venticinque quintali.
In anticipo sui tempi pensava a luoghi dove il silenzio è basilare, dove la sicurezza sta nelle persone prima che nella norma, città future, senza box, parcheggi, e bretelle stradali, capaci di ascoltare il fruscio delle vesti di seta di chi cammina tra i viali alberati.
Un visionario architetto di provincia, che sapeva ascoltare l’atmosfera delle stagioni, rifuggendo a quella avvizzita dall’aria condizionata, dubbioso nei confronti delle aree protette, da osservare solo per smorzare il rimorso di una civiltà che distrugge.
Con il caldo di luglio, con i fiori rossi dei fagioli nell’orto, l’autunno con il bramito dei cervi, il dicembre dai fiori di ghiaccio sui vetri e la primavera con il bianco dei ciliegi nati dalla dimenticanza.
Giuseppe Galimberti (Sondrio 1936 -2020)
Architetto e insegnante valtellinese.
Nato a Sondrio nel 1936, l’istruzione finalizzata a scoprire le possibilità della mente era preclusa a chi non poteva permettersi l’università. Si iscrive all’istituto tecnico per geometri, senza smarrirsi nel labirinto del fare. Durante il corso ufficiali del servizio di leva a Roma incontra la grandezza dell’architettura al Pantheon osservando il foro con le nuvole in corsa. Si diploma all’Accademia di Belle arti di Brera e successivamente in Architettura al Politecnico di Milano. Insegna nelle scuole medie e superiori storia dell’arte e disegno.
Vive a 1000m sul versante retico, in una casa di sasso di dimensioni ridotte; a quarant’anni si permette il lusso di frequentare la facoltà di architettura, si occupa di progettazione come libero professionista, alleva cavalli a duemila metri, desideroso di riappropriarsi del mito del centauro, dove gli alpeggi abbandonati offrono spazi simili a quelli della mitologia dimenticati dagli uomini.
Ritiene più impegnativo disegnare una seggiola che un condominio normato. Scrive e dipinge sul muro d’osteria la storia di Paride, con Athena in forma di civetta, dove corrono centauri, riposano fauni e sul fondo azzurro del mare si muove una vela cretese.
Dal 1982 al 1999 è cultore della materia al Politecnico di Milano.
A Sondrio realizza un drakkar vichingo, che si affaccia sul mare d’asfalto, come stimolo ad usare la fantasia per portare oltre lo spazio che sta vicino.
Noto per la sua forte sensibilità ecologica e sociale, insegnante per diversi anni, ha contribuito nella crescita scolastica e personale di tanti giovani valtellinesi.