Orme dei dinosauri e passerella dei Lavini: ignoranza e mancanza di senso estetico come origine della trascuratezza.
Trecento metri di acciaio zincato sopra la Ruina dantesca a sud di Rovereto. La struttura metallica comparsa nella zona dei Lavini di Marco, pensata per “valorizzare” l’accesso al sito preistorico delle Orme dei dinosauri, ha suscitato stupore e sdegno. Leggi l’intervista a Luigi Casanova.
In un’epoca in cui il rispetto per il paesaggio dovrebbe essere un valore imprescindibile, assistiamo invece all’ennesima violenza estetica mascherata da progresso: sostenere che quelle orribili passerelle hanno una ragion d’essere, come è stato detto, è sfidare l’intelligenza e il buongusto, ma è anche dare prova di un gusto estetico ormai declinante.
Di seguito una riflessione di Giovanni Widmann.

Osservando le foto della passerella di acciaio costruita sopra la Ruina dantesca allo scopo di “valorizzare” le orme dei dinosauri dei Lavini di Marco, viene da chiedersi con preoccupazione dove siano finiti il senso della misura e del gusto.
A sentire le dichiarazioni di alcuni tecnici e rappresentanti politici coinvolti a vario titolo nel progetto, pare proprio che si voglia diabolicamente persistere nell’errore, infatti costoro non soltanto portano la responsabilità dell’approvazione e realizzazione di un simile scempio ambientale, ma addirittura sostengono con sicumera e protervia le loro buone ragioni, tentando di difendere l’indifendibile.
Joachim Ritter sosteneva che «il paesaggio è natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento». In questo caso è evidente la totale mancanza di senso estetico, nonché la scarsa attitudine ad osservare con animo contemplativo, ovvero con “sentimento”, che non significa in maniera sdolcinata, melliflua, ma con un profondo trasporto emotivo: come se i caratteri di quel paesaggio ammirato sapessero intercettare i recessi più profondamente spirituali dell’osservatore, non passivo spettatore ma partecipe donatore di senso. Perciò un paesaggio anche quando è naturale è sempre anche culturale: esso è in quanto è percepito come totalità dotata di significato agli occhi di colui che lo sente come proprio.

Ora, quando la bruttezza diventa tratto comune e si manifesta agli occhi come qualcosa di consueto, allora essa non viene più vista per quello che è, non è più ricusata; scompare pur restando drammaticamente presente, visibile soltanto a coloro che ancora hanno non solo occhi per vedere ma sensibilità per provare riprovazione, cultura per giudicare, gusto per dissentire. Credo che sia accaduto proprio questo nella triste vicenda del Lavini: un difetto di pre-visione e di riflessione. Il problema è che sempre più spesso non riflettiamo; in quest’epoca che avanza veloce corriamo veloci e distratti senza avvederci che siffatta impazienza è foriera di malasorte. Come sosteneva Pascal, «corriamo senza darcene pensiero nel precipizio, dopo esserci messi dinanzi agli occhi qualcosa che ci impedisca di vederlo».
La cura ha inizio nella capacità di vedere. Vedere è propedeutico all’impegno e alla responsabilità di una scelta consapevole, mentre la cieca ignoranza è prodromo di trascuratezza e di sinecura. L’ineleganza alberga laddove predomina lo sguardo indifferente.
Dire che quelle orribili passerelle di acciaio zincato hanno un loro fascino, un loro perché, una ragion d’essere, come è stato detto, è sfidare l’intelligenza e il buongusto, ma è anche dare prova di un gusto estetico ormai declinante, anche da parte di chi per professione e funzione pubblica più di altri dovrebbe avere tatto e visione, accompagnando l’ideazione alla previdente valutazione, il gesto estetico alla scelta etica, la concentrazione sui fini alla riflessione sui mezzi e sui metodi.
Invece urge “attrarre” la moltitudine e “catturare” la curiosità, per cui tutto è spettacolo e spettacolarizzazione, che mentre dichiara di “fare cultura” nega invero che culturale è per vocazione e definizione antitetico al puro e semplice apparire essendo piuttosto congenere al più pacato, meditato e mediato disvelamento, alla diretta rivelazione.
La bruttura di una paesaggio sfregiato lascia indifferente l’autore dello sfregio non tanto per mancanza di sensibilità ma di cognizione e discernimento, e codesto superficiale pressapochismo molto inquieta. Infatti se si perde il senso della bellezza, i suoi canoni minimi, le sue regole, si perde qualcosa di ancora più essenziale: la propria umanità, perché come affermava Platone noi amiamo e generiamo nel bello, e il bello non è mai privo di misura. Se la leggiadria trasfonde leggerezza, l’amore fattivo per la bellezza vuole gravità. Fare le cose con leggerezza non è solo farle male, in modo sciatto e approssimativo; è anteporre innanzitutto l’azione alla ponderazione, realizzando così anche l’impensabile e talora l’irreparabile.

Nel caso della fantomatica eppur così realissima passerella altre soluzioni tecniche meno impattanti probabilmente c’erano, o ci sarebbero. Auspichiamo almeno una tardiva resipiscenza e un passo indietro, poiché niente è pregiudicato nel regno delle cose. Certamente esistono soluzioni meno impattanti, più leggere e meglio integrate nell’ambiente circostante. Il fatto è che ormai tende ad essere privilegiata la nuda tecnica, la realizzazione a regola d’arte sotto il profilo ingegneristico, ma pessima sotto l’aspetto estetico e architettonico. Così se un’opera è fattibile, la si fa, dando priorità alla funzionalità e trascurando altre variabili; ecco allora il ricorso all’acciaio zincato, ai basamenti in cemento, agli orripilanti piantoni che si ergono minacciosi verso il cielo. Su quella «roccia sì discoscesa che dalla cima del monte al piano alcuna via darebbe a chi su fosse» la via di discesa non sia quella indicata, zincata! Amo la distesa petrosa dei Lavini e amo questa terra trentina, ma sempre più spesso la vedo offesa e ferita e vilipesa da scelte miopi e sciagurate.
Novalis lancia il suo Giacinto incontro ad un destino paradossale: intrapreso per amore un viaggio iniziatico verso la visione della Verità, costui scopre che il volto della Madre degli esseri, della Vergine velata di cui nessun mortale mai ha lacerato il velo, altro non è che il suo stesso volto. Che cosa ci insegna Novalis? Che al termine di ogni ricerca, in fondo non troviamo altro che le istanze irrisolte del nostro peregrinare. Ma anche che se vogliamo comprendere chi veramente siamo, dobbiamo osservare le nostre opere e azioni: esse parlano di noi, parlano per noi e per chi sa ascoltare sono un monito a fare meglio.
Giovanni Widmann