Il giudice amministrativo e il cambiamento climatico.

In occasione del secondo Congresso nazionale dei giudici amministrativi italiani, svoltosi a Roma il 18 e \9 ottobre 2024, è intervenuto il presidente del TAR Emilia-Romagna Paolo Carpentieri, a conclusione della IV sessione “Il giudice amministrativo e il cambiamento climatico”. Da questo intervento abbiamo estrapolato i passaggi più significativi, che vi proponiamo.

La Riforma dell’articolo 9 della Costituzione.

«Circa la riforma dell’art. 9 della Costituzione (…) l’unico effetto immediato e concreto della riforma sembrerebbe ad oggi consistere nell’indebolimento della tutela paesaggistica per effetto della equiordinazione formale della tutela ambientale (declinata soprattutto in termini industriali). Sembra, in effetti, che sinora questa riforma sia servita solo a indebolire la tutela del paesaggio sgombrando il campo dal “fastidioso equivoco” che la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, rispetto alle pale eoliche e ai campi fotovoltaici, potesse godere di una posizione di superiorità gerarchica in quanto, essa soltanto, inclusa tra i primi 12 articoli della Carta fondamentale (interesse primario e assoluto, diceva una volta la Consulta).

Adesso, entrata nei principi fondamentali della Carta anche la tutela dell’ambiente-ecosfera, nessun ostacolo si frapporrebbe più alla libera bilanciabilità dei vari beni-interessi-valori in potenziale conflitto (gli impianti di produzione di energia elettrica rinnovabile vs. il paesaggio e l’agricoltura). (…) l’art. 1 della direttiva 2023/2413 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 ottobre 2023 ha inserito nella direttiva (UE) 2018/2001 un nuovo art. 16-septies – rubricato “Interesse pubblico prevalente” – in base al quale “Entro il 21 febbraio 2024, fino al conseguimento della neutralità climatica, gli Stati membri provvedono affinché, nella procedura di rilascio delle autorizzazioni, la pianificazione, la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia rinnovabile, la connessione di tali impianti alla rete, la rete stessa e gli impianti di stoccaggio siano considerati di interesse pubblico prevalente e nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica nella ponderazione degli interessi giuridici nei singoli casi e ai fini dell’articolo 6, paragrafo 4, e dell’articolo 16, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 92/43/CEE, dell’articolo 4, paragrafo 7, della direttiva 2000/60/CE e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2009/147/CE”. 

Ambiente VS Paesaggio e approvvigionamento energetico

Sicché oramai non ci sarebbe più partita, non ci sarebbe più niente da bilanciare (al livello di procedimento amministrativo, di conferenza di servizi, o dinanzi al giudice amministrativo), con il risultato pratico che tutti i progetti di parchi eolici e di campi fotovoltaici – se necessari per raggiungere i risultati del PNIEC – dovrebbero di necessità essere realizzati, a questo punto ovunque piaccia all’impresa proponente, a nulla potendo valere l’opposizione della Regione, del Comune, del comitato di cittadini o della soprintendenza. Insomma, saremmo al cospetto di un novello super-interesse “tiranno”, quello alla lotta al mutamento climatico e al raggiungimento della neutralità climatica, dinanzi al quale tutto deve recedere e soccombere.

Tesi questa a mio sommesso avviso discutibile. Dubito che la direttiva europea possa porsi al di sopra dell’art. 9 della Costituzione (che tale pretesa graduazione, con asserita primazia dell’ambiente-ecologia-transizione ecologica, non opera) e dubito che la (poco consapevole) locuzione adoperata nella direttiva possa valere a scardinare il nostro sistema delle tutele, essendo ben possibile (e consigliabile) un’interpretazione sistematica più coerente e ragionevole. Basti pensare che, portando alle sue estreme conseguenza questa tesi, si perverrebbe all’assurdo che dovrebbe essere sempre consentito l’efficientamento energetico di un edificio storico vincolato anche sovrapponendo alla facciata storica un cappotto termico, nulla potendo in contrario il diniego di autorizzazione del soprintendente, come tale sempre recessivo e illegittimo, sol che sia dimostrato che il cappotto termico, riducendo le emissioni dell’edificio, contribuisce alla lotta al mutamento climatico».

«Il dato di fatto dal quale partire è la constatazione, oggettiva e vera, che l’Italia contribuisce alle emissioni mondiali di gas climalteranti (all’incirca) per uno 0,8% circa (l’intera Europa sembra che produca non più del 10% dei gas climalteranti). (…) Cosa ci dice questo dato di verità di fatto? Ci dice chiaramente che autorizzare un campo fotovoltaico in mezzo al verde soddisfa appieno il (fisiologico) desiderio di guadagno dell’impresa proponente, ma è totalmente irrilevante sul piano della lotta al mutamento climatico. E allora è semplicemente falso dire che il conflitto è tra “ambiente-ecologia”, da un lato, e “paesaggio- agricoltura”, dall’altro lato, ossia tra chi vuole i “parchi eolici” e i campi fotovoltaici per fare la transizione ecologica e chi, come i Comuni e i comitati di cittadini (o le soprintendenze), si oppone alla transizione ecologica perché non vuole il cambiamento. In realtà il conflitto è tra le imprese che perseguono i propri interessi economici (leciti e legittimi, per carità), da un lato, e coloro che difendono gli interessi collettivi o diffusi alla tutela dell’identità paesaggistico-culturale (contro il consumo di territorio e di paesaggio), dall’altro lato. La verità è che qui si contrappongono due modelli alternativi di sviluppo o, meglio, due diverse e contrapposte visioni del futuro dei territori e del tipo di sviluppo che le comunità vogliono per sé e per i propri figli. La verità è che questa transizione ecologica, fatta in questo modo forse poco lungimirante, che consuma suolo, territorio, agricoltura e paesaggio, secondo la classica logica dell’economia estrattiva, può al più servire, questo sì, ad assicurare una maggiore sicurezza dell’approvvigionamento energetico del paese, soprattutto in tempi disgraziati di ritorno alla guerra, quali quelli che purtroppo stiamo vivendo in questi anni. Ma certo non serve affatto a combattere il cambiamento climatico. (…)

Ciò precisato, occorre esaminare brevemente tre obiezioni che spesso vengono mosse a questo argomentare, obiezioni a mio avviso errate. Si dice: “se non si fa qui e subito la transizione ecologica, tra poco, con la tropicalizzazione del clima, il surriscaldamento del Mediterraneo e la incipiente desertificazione di vaste aree del paese, non ci sarà più nessun paesaggio e nessuna agricoltura da difendere”. È facile obiettare a questa visione catastrofista che, per quanto detto sopra, è del tutto inutile auto-distruggere qui e ora, subito, i nostri paesaggi, coprendoli di pale eoliche e di campi fotovoltaici, mentre il resto del mondo non fa nulla (anzi, continua a crescere con un’esplosione demografica fuori controllo). È come voler svuotare il mare con un cucchiaino. (…) Un’obiezione più seria riguarda poi l’innovazione tecnologica. Si dice: “se non corriamo dietro agli obiettivi europei rischiamo di perdere il treno dell’innovazione tecnologica e della ricerca”. Anche a questa obiezione può replicarsi con l’osservazione che si può ben fare innovazione e ricerca anche senza dover per forza distruggere la bellezza dei nostri paesaggi. Puntando, ad esempio, sul brown field e sulle periferie degradate e compromesse e sulle aree industriali dismesse. Un altro argomento messo in campo dai sostenitori della transizione ecologica accelerata è quello che fa leva sul fatto che, soprattutto in Italia, i paesaggi non avrebbero ormai quasi più niente di naturale e sarebbero stati incessantemente trasformati dall’uomo sin dall’antichità, ragion per cui non si comprende perché oggi si dovrebbe smettere di modificarli e ci si dovrebbe preoccupare delle pale eoliche, etc.: il Colosseo o gli imponenti acquedotti romani, si dice, non rappresentano essi stessi profonde e radicali manomissioni dei paesaggi naturali? e – si aggiunge – perché non dovrebbe accadere per i parchi eolici e i campi fotovoltaici la stessa cosa avvenuta per il ponte medievale di Spoleto, ritenuto da Goethe un esempio di “seconda natura”, in cui l’intervento umano si è perfettamente integrato con il contesto naturale, sì da risultarne un tutt’uno armonico?

Alcuni sono arrivati a parlare di energetic landscapes, paesaggi energetici. Questo argomento, radicalmente sbagliato, è stato già da anni confutato (…) La potenza incontrollabile della Tecnica oggi è enormemente maggiore che non in passato e le alterazioni antropiche dei paesaggi di oggi sono assolutamente incomparabili con quelle di ieri (…) le tecniche costruttive di “ieri” (fino al 1945) erano (se si vuole, anche per povertà economica e tecnica) oggettivamente inserite in modo organico nel contesto territoriale, per dimensioni, per tecniche e materiali costruttivi; erano dunque “a misura d’uomo” e di natura, mentre lo sgoverno dei territori del boom economico post guerra, lo sviluppo industriale, il dilagare delle seconde case sulle coste e nelle località montane, etc. hanno prodotto un profondo stravolgimento della facies dei nostri paesaggi, uno sconvolgimento mai visto prima per dimensioni quantitative e per pessima qualità estetica. È come paragonare l’arco con le frecce alla bomba atomica».

Quali alternative?

«Ma, allora, qual è l’alternativa? È stato detto mille volte: si coprano obbligatoriamente tutti i capannoni industriali, i sedimi autostradali e ferroviari in disuso, le aree abbandonate e degradate delle nostre pessime periferie urbane, si imponga (in modo effettivo e vincolante) la priorità dell’uso del brown field e, perché no, si facciano accordi con la Tunisia, l’Algeria e la Libia per andarla a produrre lì l’energia fotovoltaica, nel deserto, dove c’è sempre sole e non c’è paesaggio, a parte le dune (bastano poi dei cavidotti sottomarini per portarla in Italia, il Mediterraneo è già pieno di condotte sottomarine di ogni tipo e non ci sono particolari ostacoli tecnici). L’obiezione è dunque sul modo di procedere, affrettato, poco lungimirante, non governato, non pianificato, condizionato da forti interessi economici (non dimentichiamoci le centinaia di miliardi di euro per finanziare gli incentivi alle costruzioni di rinnovabili pagate in larga parte dai cittadini nelle bollette della luce), non sul se procedere. Il problema sta nell’assenza di pianificazione, nell’assenza di un reale ed effettivo governo pubblico dei processi, nella scelta di abbandonare questa transizione alla mano invisibile del dio mercato, al laisser faire, per cui le imprese intervengono dove più conviene loro, dove i terreni costano meno, e cioè sulle aree agricole verdi. Il problema sta, inoltre, nell’annichilimento dei poteri dei comuni, ritenuti attori molesti del fattore nimby, e nella sterilizzazione di ogni voce contraria. (…) Aggiungo che la tecnica del bilanciamento non sempre (o quasi mai) può funzionare per la tutela del patrimonio culturale, per la semplice ragione che il bene culturale o paesaggistico è unico, è irriproducibile, non lo puoi spostare da un’altra parte, mentre, nel contempo, l’impatto visivo dei parchi eolici e dei campi fotovoltaici è di regola tale da stravolgere radicalmente la facies del territorio interessato dall’intervento, trasformandola di fatto in un paesaggio industriale.

In conclusione, occorre certamente trovare un punto di mediazione ragionevole, su questo non c’è dubbio. Ma questa mediazione, per essere ragionevole, deve poggiare sulla realtà e sulla verità e non su falsi miti. A me sembra che l’assetto regolatorio attuale non abbia centrato l’obiettivo dell’equilibrio, ma sia piuttosto squilibrato a favore della visione che io chiamo dell’ambientalismo industriale, di una transizione ecologica che soggiace al dominio della tecnica ed è abbandonata al libero mercato, a discapito della bellezza dei nostri paesaggi, che sono la nostra cultura e la nostra identità».

Per ulteriori approfondimenti, documenti ai seguenti link:

Gruppo di Intervento Giuridico

Paolo Carpentieri, presidente TAR Emilia-Romagna

Riccardo Giani, presidente TAR Toscana