Scialpinismo e fuoripista tra illusioni e preconcetti.
Lo sci di montagna è uno strumento perfetto per entrare in sintonia con l’ambiente: il silenzio della neve, la fatica della salita e l’ebbrezza dalla discesa, la solitudine, l’esplorazione, il senso di libertà. Ma questa bellezza è fragile e richiede attenzione. Frequentare la montagna con consapevolezza significa ridurre l’impatto sull’ambiente, rispettare la fauna selvatica, adottare comportamenti sostenibili e pratiche di autoprotezione. In questo articolo esploriamo il legame tra passione per lo sci e tutela dell’ecosistema alpino, facendoci accompagnare dall’abile penna di Giorgio Daidola, scialpinista, docente universitario a Trento, giornalista e scrittore di mare e di montagna, viaggiatore e velista.
di Giorgio Daidola
(tratto, con adattamenti e aggiornamenti dell’autore, dall’articolo pubblicato su Rivista di diritto sportivo n. 2/2018, pagg. 354 -363)

La nascita del turismo invernale
La nascita del turismo invernale si fa risalire al 1864, quando un albergatore visionario di Sankt Moritz fece ai suoi ospiti inglesi una proposta rivoluzionaria: venire a provare una vacanza in Engadina in pieno inverno.
Il successo fu strepitoso e si svilupparono così nell’ordine lo slittino, il pattinaggio, l’hockey, il curling e infine lo sci, sport importato dalla Norvegia che ebbe un successo talmente grande da diventare l’asse portante del neonato turismo invernale. Si trattava di uno sci senza impianti di risalita: le montagne prima si salivano e poi si scendevano con gli sci. Si trattava di quello che oggi viene chiamato scialpinismo o, meglio, sci di montagna.
Anche nelle prime gare di sci di discesa, come il prestigioso Roberts of Kandahar, i concorrenti raggiungevano il punto di partenza a piedi. La prima gara di slalom, un’invenzione del grande Arnold Lunn, ebbe luogo a Murren nel 1922, l’inaugurazione del primo skilift a Davos nel 1934 e il debutto delle gare di discesa alle Olimpiadi a Garmish-Partenkirchen nel 1936: ebbe così inizio la progressiva separazione fra sci di discesa e scialpinismo.

Lo scialpinismo ieri e oggi
Ma cosa si intende esattamente per scialpinismo? Si tratta di “sci in montagna” oppure di “sci e montagna”? si chiede Philippe Traynard, una delle massime espressioni del forte sviluppo dello scialpinismo “classico” negli anni ottanta, nonché Rettore per molti anni dell’Università di Grenoble. La risposta è ovvia ma non per questo meno importante: scialpinismo significa “sci e montagna”. Dobbiamo però chiederci se oggi, a distanza di quasi 30 anni, è ancora così.
Ma andiamo per gradi. Dopo la cosiddetta età d’oro dello sci, iniziata nel dopoguerra e durata fino agli anni settanta, in cui le differenze fra sci da discesa e scialpinismo erano molto sfumate, spesso inesistenti, negli anni successivi esse si sono fatte via via più consistenti. Per rendere più sicuro e più accessibile alle masse cittadine lo sci da discesa, si è fatto di tutto, ad iniziare dagli anni ottanta, per eliminare i rischi, le difficoltà, le privazioni che sono proprie della frequentazione della montagna, fino ad annullare i significati più profondi dell’esperienza alpina, sostituendo le emozioni autentiche con le emozioni artificiali proprie dei lunapark bianchi.

Lo sci di massa, prodotto tipico del turismo invernale di quegli anni, ha per terreno di gioco le levigate piste autostrade di compatta neve artificiale, messe in sicurezza in un modo ossessivo, per evitare ogni responsabilità in caso di incidente: è lo “sci in montagna” nella sua espressione più aberrante e completa. Si tratta di uno sci in cui ai rischi tipici della montagna si sono sostituiti altri rischi, derivanti dalla sempre maggior velocità che esso permette, su piste spesso sovraffollate. Paradossalmente l’ossessione della sicurezza ha prodotto uno sci obiettivamente pericoloso, come dimostrano gli incidenti mortali sulle piste che si ripetono ogni inverno. Oltre che pericoloso è uno sci ripetitivo, noioso e insipido. E anche costoso. Si tratta insomma di uno sci che può avere ancora un senso solo dal punto di vista tecnico-agonistico mentre da quello ludico attrae sempre di meno: di qui il gran numero di pistaioli che, per reazione, scoprono lo scialpinismo, lo sci fuori pista, il freeride più o meno estremo. Questi nuovi adepti sono spesso atleticamente preparati ma, considerata la loro provenienza, mancano di esperienza di montagna e di sensibilità alla vera neve. Per alcuni di loro questo non rappresenta un grosso problema, perché continuano a seguire itinerari battuti, effettuando uno scialpinismo agonistico di velocità, molto simile alle corse in montagna. Per altri invece la prestanza fisica, le capacità sciistiche, le attrezzature sempre più performanti, li portano ad affrontare i rischi della montagna invernale senza un’adeguata esperienza. Di qui i numerosi incidenti dovuti alla overconfidence: si vedano in proposito gli studi del gruppo di studio del Prof. Enrico Rettore, in Overconfident people are more exposed to “black swan” events: a case study of avalanche risk, Empirical Economics, Vienna 2018. Ritornerò più volte sul punto nei paragrafi successivi.
Per uscire da questa impasse ci può aiutare un’analisi dello scialpinismo del passato, per scoprire quali eredità ci hanno lasciato gli sciatori di montagna che non sono più con noi. Si tratta di un viaggio “sentimentale” sulle tracce della meravigliosa storia del grande sci, un viaggio che ha come risultato quello di rendere più consapevole, oltre che più piacevole, il rapporto con la montagna bianca.
I grandi sciatori di montagna
Come abbiamo visto lo scialpinismo è il frutto dell’unione di due grandi sport: l’alpinismo e lo sci, e tale dovrebbe rimanere. Questo modo di vivere lo scialpinismo è stato introdotto sulle Alpi a fine ottocento dagli eredi di Fridtjof Nansen, che con la sua prima traversata della Groenlandia del 1888 aprì nuovi orizzonti sull’uso degli sci sulle Alpi e non solo. Prima della pubblicazione nel 1890 del libro di Nansen su questa grande traversata la presenza degli sci sulle Alpi risulta assolutamente trascurabile.

Nel 1894 Conan Doyle, il padre di Sherlok Holmes, effettua con i fratelli Branger la non banale traversata Davos-Arosa e la descrive in un gustoso articolo sullo Strand Magazine. Si tratta di una delle prime traversate a quote medie destinate a fare storia.
Nel 1897 Wilhelm Paulcke effettua con quattro amici la prima traversata del massiccio dell’Oberland Bernese. È la prima traversata di più giorni a quote glaciali e Paulcke, grande ammiratore di Nansen, si rende subito conto del maggior potenziale che hanno gli sci rispetto alle racchette da neve per lo sviluppo del turismo invernale sulle Alpi.
Negli anni successi altri grandi sciatori di montagna sviluppano questo nuovo modo di vivere l’alpinismo invernale: dai padri nobili come Marcel Kurz e Arnold Lunn, ai fuoriclasse come Paul Preuss ed Ettore Castiglioni, per arrivare ai grandi esploratori degli spazi bianchi come Leon Zwinglestein e Piero Ghiglione.

Tutti questi scialpinisti utilizzavano un‘attrezzatura e una tecnica molto meno performanti di quelle attuali, un’attrezzatura e una tecnica con le quali i moderni scialpinisti non sarebbero in grado di fare nemmeno una curva. Non erano ovviamente dotati di apparecchiature elettroniche per garantire idonei interventi di soccorso in caso di incidenti causati da valanghe e allora non esistevano i bollettini e altri sofisticati sistemi per valutare le probabilità di stacco. Questo non significa che fossero incuranti dei rischi di slavine e valanghe, lo erano anzi molto di più degli scialpinisti di oggi, spesso caratterizzati da un rapporto non rispettoso nei confronti del territorio.
Ne sono un esempio gli studi che il sopra citato Paulcke, che era anche professore di geologia e Rettore dell’Università di Karlsruhe, pubblicò sui fenomeni valanghivi. Egli aveva capito che le valanghe sono meravigliosi fenomeni naturali che solo l’esperienza, l’osservazione attenta e l’intuito possono prevedere. Gli fece eco molti anni dopo, negli anni 80, il grande alpinista svizzero André Roch, studioso delle valanghe e membro dell’ICAR (International Commission for Alpine Rescue) dichiarando che in caso di dubbio in merito alla tenuta di un pendio, si sarebbe fidato di più della sua esperienza che delle sue conoscenze teoriche.

Per metterla sul provocatorio ricordo che Leon Zwinglestein, lo sciatore naif, lo ski boom degli anni trenta che per primo attraversò da solo l’arco alpino in solitaria con gli sci, scrisse nei suoi bellissimi diari, con un pizzico di humour, che le valanghe non erano mai state un vero pericolo per lui in tre mesi di traversata da Nizza all’Austria, i veri rischi erano stati ben altri: i cani e i gendarmi!
Il già citato Philippe Traynard che per oltre cinquanta anni non perse mai un fine settimana per fare uno scialpinismo di ricerca con la moglie Claude, mi disse, in una intervista del 1986, di non aver mai avuto incidenti causati da valanghe: il segreto era stato, non esistendo ancora l’Artva, non aver mai accettato livelli di rischio di tipo medio ed elevato. Anche per Traynard il saper rinunciare quando l’esperienza, l’intuito e la modestia consigliano di farlo, è stata la regola fondamentale per prevenire gli incidenti.
L’età d’oro dello sci
I miglioramenti delle attrezzature e della tecnica conseguenti allo sviluppo dello sci da discesa negli anni cinquanta, sessanta e settanta interessarono anche lo scialpinismo che rimase però, in quegli anni, una pratica per pochi, riservata ad una élite di alpinisti esperti, consci dei pericoli della montagna. Le principali innovazioni di quegli anni riguardarono il peso e le geometrie degli sci, la sicurezza degli attacchi e la sostituzione del cuoio con la plastica negli scarponi. A quei tempi come materiale di sicurezza nei tratti pericolosi per valanghe si utilizzava un lungo cordino metrato di colore rosso legato a vita.
I primi rilevatori elettronici per ricercare i sepolti da valanghe, inventati negli Stati Uniti negli anni cinquanta, entrarono timidamente nel mercato solo alla fine degli anni settanta e si può dire che fino alla fine degli anni novanta essi non fecero parte del bagaglio di sicurezza per così dire obbligatorio degli scialpinisti. Oggi, se non si ha l’Artva si vieni additati come irresponsabili dai compagni di gita, che considerano il rilevatore come l’ancora della salvezza, anche se poi la maggior parte di loro non lo sa utilizzare propriamente, soprattutto nei momenti di tensione in cui ce n’è bisogno.

Alla fine degli anni ottanta ho avuto modo di sciare molto con Patrick Vallençant, guida alpina e famoso sciatore estremo: devo confessare che casco, pala, Artva e sonda (i pesanti zaini con l’air bag non erano ancora stati inventati) non hanno mai fatto parte della nostra attrezzatura per affrontare itinerari tutto fuorché banali nella zona di Chamonix, magico comprensorio per lo scialpinismo e il fuori pista. Sicuramente abbiamo corso dei rischi, Patrick metteva però molta cura nello scegliere gli itinerari, che conosceva nei minimi particolari. Anche lui, tipo esuberante e coraggioso, sapeva rinunciare all’ultimo minuto, quando l’intuito glielo suggeriva.
Lo sci moderno
Non ci sono statistiche per dimostrare che dopo gli anni novanta gli incidenti da valanghe sono aumentati come percentuale sul numero di praticanti ma sicuramente si può dire che, soprattutto negli ultimi anni, essi sono sempre più numerosi in valore assoluto, circa un centinaio all’anno sulle Alpi secondo l’AINEVA, e hanno interessato un gran numero di scialpinisti e di freerider di alte capacità tecniche, ivi compreso un numero preoccupante di guide alpine. Anche gli escursionisti con le ciaspole, forse perché particolarmente inesperti di montagna invernale, aiutano purtroppo a tener alto il numero di incidenti.

Scialpinisti e freerider di estrazione pistaiola concepiscono per lo più la montagna come una palestra in cui dare libero sfogo alle proprie capacità tecniche e atletiche, talvolta anche ad una adrenalinica propensione al rischio. Per la maggior parte di essi si tratta di una ricerca quasi ossessiva della neve polverosa appena caduta, spesso la più pericolosa.
Sugli altri tipi di neve, come ad esempio sul meraviglioso e sicuro firn primaverile, gli stessi sciatori non si divertono abbastanza. Finita la breve stagione della neve polverosa preferiscono passare ad altri sport. Il fenomeno purtroppo interessa anche le guide alpine dell’ultima generazione che spesso per lavorare accettano le richieste di questa singolare tipologia di sciatori.
Il mese delle valanghe e le illusioni di sicurezza
Ogni inverno i quotidiani riportano, soprattutto nei mesi di gennaio e di febbraio, mesi critici anche secondo le statistiche della CISA-ICAR (Commissione Internazionale Soccorso Alpino – International Commission for Alpine Rescue) un gran numero di incidenti causati da slavine e valanghe sulle Alpi. I commenti che si levano di fronte a tali incidenti vanno dal celebre “valanga assassina” alla necessità di prevenirli attraverso un maggior regolamentazione, ossia attraverso divieti di vario tipo. Ma, a tale riguardo, non va dimenticato che la regolamentazione ha come effetto principale un aumento del piacere della trasgressione, soprattutto da parte dei giovani freerider. Inoltre sarebbe un errore “normare” attività come lo scialpinismo e il freeride che, come l’alpinismo, sono modi di vivere la montagna per loro natura rischiosi. Pretendere di eliminare il rischio insito in queste attività equivale a snaturarle del tutto.

C’è anche chi, andando contro l’evidenza, pensa che i rischi vengano meno grazie alla tecnologia, all’uso di gadget tecnologici sempre più sofisticati, dagli Artva dell’ultima generazione agli Air bag. Gli esempi riportati dimostrano che questi gadget non limitano il numero di incidenti ma semmai il numero di vittime. Inoltre non viene quasi mai considerato che essi possono essere la causa di molti incidenti per la falsa sensazione di sicurezza che determinano, facendo scattare la trappola psicologica di sentirsi protetti e padroni della situazione. E’ chiaro che non è così.
Sarebbe invece possibile ridurre gli incidenti con una corretta lettura dei bollettini valanghe, bollettini che hanno raggiunto un buon grado di affidabilità. E anche consultando le CLPV, le Carte Localizzazione Probabile Valanghe dell’AINEVA: è infatti rarissimo che una valanga cada dove non è mai caduta prima: consultando queste carte è quindi possibile scegliere gli itinerari più sicuri.
Si può anche applicare il metodo Munter, basato sul calcolo delle probabilità di incidente: il limite del rischio ragionevole è l’LM2, ossia un tasso di mortalità pari a 1 ogni 50.000 giornate di scialpinismo. Tale tasso viene determinato in base alla pendenza, all’esposizione, al grado di frequentazione, alla presenza di sovraccarichi di neve su di un certo pendio.
Tutti questi metodi, insieme ai gadget di cui si è già detto, sono senza dubbio utili ma al tempo stesso insufficienti. Nel senso che per raggiungere buoni risultati con gli stessi si dovrebbe convincere gli scialpinisti e i freerider a muoversi solo quando e dove il rischio valanghe è tendente a zero. E’ stato infatti dimostrato che la maggior parte di incidenti avviene con bollettini valanghe che indicano un rischio medio, pari a 2, rischio che evidentemente viene sciaguratamente accettato.
Quattro suggerimenti
Se è vero che la prevenzione degli incidenti da valanghe non può basarsi sulla regolamentazione, sui divieti, sui gadget personali e che i bollettini valanghe e la scala di Munter spesso non vengono presi in considerazione correttamente, che cosa dunque si può fare per limitare al minimo gli incidenti?
Ecco alcuni suggerimenti personali, derivati da riflessioni su comportamenti virtuosi degli sciatori del passato e su quelli decisamente meno virtuosi di molti sciatori del presente.

Secondo Arnold Lunn, sciatore alpinista eccelso (sua la prima salita e discesa in sci del Dom de Mishabel nel 1917, ancora oggi una scialpinistica per pochi) e al tempo stesso inventore dello slalom e dell’Arlberg Kandahar, la grande stagione dello sci non è l’inverno ma la primavera, quando la neve è più assestata e trasformata e il rischio di valanghe risulta molto ridotto. Si veda in proposito il suo Alpine Skiing at all heights and seasons del 1921. Non a caso il maggior numero di incidenti da valanga si verifica in pieno inverno, come abbiamo visto soprattutto in febbraio, quando il manto nevoso è particolarmente instabile, soprattutto a causa del vento che crea cornici e placche, con i classici cedimenti che provocano le valanghe a lastroni e, nel caso di molta neve fresca, le pericolosissime valanghe di neve polverosa. Da notare che anche inverni poco nevosi e molto freddi sono tutt’altro che sicuri. Con il metamorfismo costruttivo della poca neve e le basse temperature dell’aria si creano infatti nel manto nevoso sottili strati fragili a scarsa coesione che sovraccaricati possono provocare valanghe: non è quindi vero che quando fa molto freddo, nei canaloni all’ombra, i rischi siano bassi o inesistenti.

In tarda primavera, con neve trasformata in quota, se si parte presto la mattina, dopo una notte fredda e senza nubi, i rischi di valanghe sono praticamente inesistenti, anche sui pendii più ripidi. Le valanghe primaverili sono infatti quelle lente di pesante neve bagnata: molto pericolose ma facilmente evitabili se si concludono le gite prima delle ore calde del pomeriggio, oppure se si rinuncia dopo notti nuvolose, durante le quali la neve non rigela. L’assoluta sicurezza del firn primaverile viene spiegata non solo da Arnold Lunn, ma anche da Marcel Kurz, nel volume “Alpinismo Invernale” del 1925, che rimane il Vangelo di ogni vero sciatore di montagna. Si tratta purtroppo di opere sconosciute sia alla maggior parte dei moderni scialpinisti che agli attuali operatori del turismo invernale, che ignorano le differenze fra l’inverno alpino e quello di calendario. In conclusione sciare sulla neve primaverile trasformata vuol dire sciare in sicurezza oltre che in modo facile ed elegante, lasciando tracce argentee su di una neve simile al velluto.

La prevenzione degli incidenti da valanga nella pratica dello scialpinismo e del fuori pista cozza spesso contro gli interessi commerciali di produttori di attrezzature che basano il loro business sugli impatti mediatici di folli discese adrenaliniche, promuovendole e sponsorizzandole. La compiaciuta messa in rete di filmati o la pubblicazione di fotografie relative a performance esibizionistiche da far rizzare i capelli, sono delle istigazioni al suicidio sia per chi le compie che per chi le vede. Aziende come, ad esempio, The North Face, sponsor di molti film sulla falsariga di In to the mind, sono responsabili di pratiche di marketing che hanno effetti esplosivi per quanto riguarda il moltiplicarsi degli incidenti in montagna, ivi compresi quelli dovuti al provocato distacco di valanghe. Anche i film festival specializzati come quello di Trento dovrebbero evitare di selezionare e soprattutto di premiare opere che diventano spesso dei film culto di molti giovani apprendisti suicidi. Una buona parte degli incidenti attuali da valanghe interessa bravi sciatori che per emulazione giocano a fare gli eroi.
Tutto questo non significa sparare a zero sul freeride estremo che, per permettere di vivere a lungo, richiede anch’esso di saper leggere il terreno, valutare preventivamente ogni salto e ogni passaggio. Secondo Arno Adam, campione del mondo a Valdez in Alaska nel 1988, il freeride è “un’espressione artistica. Quando vedi le rotondità bianche di una montagna, le sue curve simili alle onde dell’oceano, devi entrare in armonia con loro, scegliere la tua linea di discesa… il freeride è straordinario perché permette di sviluppare una diversa filosofia dello sciare, al di fuori delle regole… la sola cosa che renderei obbligatoria è l’utilizzo da parte di tutti i freerider del cervello, nonché di quelle qualità troppo spesso dimenticate dalla nostra società che sono la modestia e il rispetto.”
Una ricerca della Accademia della Montagna del 2015, condotta dai professori Enrico Rettore, Paolo Tosi e Sara Tonini e ripresa nell’articolo sull’Empirical Economics sopra citato, ha messo in evidenza che gli scialpinisiti sono consapevoli di svolgere una attività che li espone a rischi ma sono del tutto inconsapevoli del loro grado di overconfidence con il risultato che quelli della coda destra della distribuzione si espongono a una probabilità in incidente doppia rispetto a quanto credono.
Per diminuire i livelli di overconfidence e aumentare quelli di underconfidence della coda sinistra della distribuzione, non c’è altro mezzo che sensibilizzare ai valori dello scialpinismo di altri tempi, ossia la modestia e la prudenza. Senza dimenticare l’amore per la neve, che è fondamentale per capirla.
La consultazione di siti web come ad esempio Over the top, che riportano le relazioni postate da solerti scialpinisti subito dopo aver effettuato una gita, è senza dubbio molto utile quando si vuole scegliere un itinerario per il giorno successivo. E’ però normale trovare sovraffollati gli itinerari che risultano migliori. Con la conseguenza di trovare lunghe file di scialpinisti che progrediscono a zig zag in salita e che possono sollecitare con il loro peso il manto nevoso, aumentando i rischi soprattutto per quelli che stanno più in basso.
Inoltre, una gita descritta come sicura un giorno, non è affatto detto che lo sia il giorno dopo. Nelle situazioni di sovraffollamento si assiste purtroppo al verificarsi del pericoloso effetto gregge: la massa di sciatori sul pendio provoca una falsa sensazione di sicurezza mentre è vero il contrario.

ll futuro dello sci e del turismo invernale
Lo scialpinismo, il fuoripista, il freeride a tutti i livelli e le gite con le ciaspole rappresenteranno sempre di più degli elementi insostituibili nel quadro dell’offerta turistica delle regioni alpine. Osteggiarli, snaturarli attraverso divieti e campagne denigratorie sarebbe un gravissimo errore.
Si tratta piuttosto di riflettere sui quattro suggerimenti di cui si è detto e di ritornare a un rapporto più rispettoso e attento fra uomo e territorio, dando spazio nelle decisioni all’intuito e all’esperienza. Questo è possibile rimettendosi sulle affascinanti tracce degli sciatori del passato, evitando gli esibizionismi sempre più frequenti e limitando la pericolosissima overconfidence.
Soprattutto occorre evitare gli itinerari adrenalinici in neve polverosa appena caduta. Accontentarsi di itinerari facili e sicuri quando i rischi di valanghe sono moderati non è una pratica di cui vergognarsi.
Bisogna saper rinunciare quando si nutrono dei dubbi circa la sicurezza di un pendio. Non bisogna mai dimenticare che la valanga assassina dovuta alla sfortuna è l’eccezione alla regola.
Gli incidenti da valanghe sono quasi sempre la conseguenza di errori umani.
“Sciatore esperto, stai attento, la valanga non sa che tu sei esperto”, usava dire il grande alpinista ed esperto di valanghe André Roch.
Giorgio Daidola