Il limite come custode dell’Altrove.
Venerdì 2 maggio, all’interno delle numerose iniziative collegate al Trento Film Fesrtival, si è svolta una tavola rotonda sul concetto e la pratica del “limite” organizzata dal GISM. Ne hanno parlato, con il moderatore Marco Blatto, Alessandro Gogna, Franco Michieli e Carlo Alberto Pinelli. Quella che segue è la traccia dell’intervento di Pinelli

Introduzione di Nicola Pech
Chi conosce Carlo Alberto Pinelli sa bene che ogni suo intervento va ben oltre la condivisione di un’opinione. Le sue parole sono sempre un invito – talvolta scomodo, sempre necessario – a rimettere in discussione i paradigmi dominanti, anche quelli che ci sembrano più rassicuranti. Durante la tavola rotonda sul tema del “limite”, promossa dal GISM al Trento Film Festival, Pinelli ha riportato al centro del discorso ciò che per Mountain Wilderness è da sempre fondamento: l’esperienza della montagna come esperienza esistenziale, come luogo dell’Altrove, come occasione di trasformazione.
Non è la montagna in quanto paesaggio che ci interessa difendere – come ricorda lui stesso – ma la possibilità di viverla in modo autentico, libero dalle lenti deformanti del consumo e della banalizzazione turistica. Il suo intervento scava a fondo, con lucidità e onestà, nella contraddizione che abitiamo: desideriamo che sempre più persone si avvicinino alla montagna, ma sappiamo che l’accesso indiscriminato rischia di svuotarne proprio il significato più profondo. È il paradosso dei beni esponenziali, per usare le parole di Giorgio Ruffolo: quanto più vengono condivisi, tanto più si impoveriscono.
Pinelli ci richiama al coraggio di un pensiero scomodo ma necessario. A ricordare che il filtro della fatica, il disagio, la solitudine, non sono ostacoli da rimuovere, ma strumenti di iniziazione, che selezionano non per censo ma per motivazione. Non è un messaggio elitario, ma profondamente democratico e radicalmente ambientalista. È la visione che da sempre muove l’azione di Mountain Wilderness.
Con la leggerezza incisiva di una filastrocca di Rodari, e la profondità di una citazione di Proust, Pinelli ci consegna ancora una volta una bussola, forse l’unica che valga davvero: non perdere il senso per salvare la forma. E continuare, anche se in pochi, a cercare le castagne sotto la buccia.
L’intervento di Pinelli: il limite come custode dell’Altrove
Chi ha avuto l’idea di invitarmi qui mi ha descritto come un alpinista che ha passato la vita a difendere le montagne. Non è vero. A me interessa solo marginalmente difendere le montagne di per se stesse, come accidenti geografici. Io ho dedicato una grande parte della mia vita e delle mie energie a difendere l’esperienza esistenziale che, a certe condizioni, è possibile maturare – o se volete: scoprire – in montagna. Ciò non toglie che il fascino selvaggio dei paesaggi montani mi abbia sempre conquistato e ancora oggi – anche soltanto ricordandolo – quel fascino basta a accelerare il battito del mio cuore. Però non fondo le mie riflessioni su questo tipo di emozioni estetiche.

Ho la piena consapevolezza del valore soggettivo di quanto cercherò di comunicarvi. Lo considero un limite inibente? Per niente. Tutte le società e culture umane si fondano su pilastri morali in origine soggettivi finché non si sono trasformati in un patrimonio condiviso, vissuto storicamente come se fosse oggettivo.
Voglio iniziare questo mio intervento partendo da una frase famosa del monaco/ eremita francese Charles de Foucault ( 1911) che visse a lungo nel deserto dei Tassili:
“So bene che la solitudine è il loro più grande bisogno; ma se tutti verranno qui nel deserto, come potranno essere soli?”
L’affermazione categorica che anticipa la domanda di de Foucault mi sembra abbastanza discutibile, soprattutto se equipariamo ( come è doveroso) gli spazi montani al deserto. Però può aiutarci a entrare nel tema del dibattito odierno sulle varie sfaccettature del concetto di limite. Sarebbe tutto da dimostrare che sia proprio il desiderio di immergersi nella solitudine la molla che spinge tanti nostri concittadini a invadere le montagne. Sappiamo per esperienza che non è così. I frequentatori delle Alpi e degli Appennini non sembra siano particolarmente infastiditi dalla presenza di numerose altre persone lungo i sentieri sui quali avanzano, con il corredo di schiamazzi, di sottofondi musicali, del rimbombo dei fuori strada e dei quad, e via discorrendo. Si ha l’impressione anzi che la maggioranza dei nostri simili diffidi della solitudine, e tema l’assenza di una corale e rassicurante condivisione delle emozioni provate. Soprattutto se questa condivisione resta superficiale. Potremmo aggiungere: “ Buon pro gli faccia, contenti loro”. Ma le cose non sono così semplici. Se arricciamo il naso e anche ( ma ovviamente non solo) perché la banalizzazione ludica degli spazi montani è sempre andata a braccetto con l’apertura di nuove vie d’accesso, la costruzione di nuove strutture recettive, la messa in funzione di nuovi impianti di risalita, di nuove piste e via enumerando.

Gianni Rodari tanti anni fa ha scritto una filastrocca scherzosa di cui ora voglio servirmi: “ Un signore di Scandicci -. Buttava le castagne e mangiava i ricci – Un suo amico di Prato mangiava la stagnola e buttava il cioccolato- Molta gente non lo sa e neppure se ne cruccia: la vita la butta via e mangia solo la buccia.”
Dunque: la buccia. La maggior parte degli attuali frequentatori della montagna si accontenta solo dell’involucro esteriore, della buccia, e vuole ritrovare all’interno di una gradevole confezione panoramica, gli stessi piaceri, le stesse comodità, lo stesso stile di vita, i soliti riposanti luoghi comuni che ha momentaneamente lasciati a casa. L’ultima cosa che desidera è mettersi in gioco, affrontare la possibilità che l’incontro con l’Altrove si riveli uno specchio eccessivamente veritiero. Per carità, si dicono, teniamoci ben stretta la buccia, perché quel che bolle al disotto può mettere in discussione troppe cose!
D’altro canto noi che diritto abbiamo di sostenere che la stagnola non sia migliore del cioccolato? Che i ricci non siano più gustosi delle castagne? La nostra resta una convinzione soggettiva. Saldissima, ma soggettiva. Questa consapevolezza però non deve inibirci dal proclamare la nostra testimonianza e di fare del proselitismo a favore del cioccolato e delle castagne. Con quale risultato?
Le Tesi di Biella, testo fondante dell’associazione Mountain Wilderness, già nel 1987 denunciavano con chiarezza i rischi di un proselitismo fine a se stesso, privo di rigorosi paletti:
2.2 – Il desiderio – teoricamente comprensibile – di convertire il maggior numero possibile di persone alla pratica della montagna, facilitandone l’avvicinamento, ha innescato spesso processi di deleteria antropizzazione. Per fronteggiare la crescente domanda che ne è derivata si è ricorso all’apertura di nuovi rifugi, all’ampliamento di quelli esistenti, alla messa in opera di vie ferrate e di altri incentivi al consumo. Ma questa politica contiene gravi errori di valutazione. Essa infatti trascura i valori di wilderness – e della solitudine che la caratterizza – come cardini irrinunciabili della qualità dell’alpinismo. Noi crediamo che la progettazione e la capienza dei rifugi non debbano inseguire la richiesta dei potenziali frequentatori, ma vadano misurate sulla quantità di presenze che gli ambienti naturali, resi più facilmente fruibili grazie a tali ricoveri, possono sopportare senza perdere di significato. Rifugi e bivacchi fissi non debbono in nessun caso essere posti lungo itinerari di salita, o in prossimità di vette, o comunque in posizioni che possono recare pregiudizio alla grandiosità selvaggia dell’ambiente e ai suoi significati.

Supponiamo per un momento che il nostro proselitismo, fortemente connotato in una direzione responsabile e rispettosa per l’ambiente, abbia successo e che di conseguenza tutti i fruitori della montagna in un prossimo futuro si comportino come noi abbiamo auspicato. Problema risolto? Prima di affermarlo, ripensiamo a cosa si domanda de Foucault: “…ma se tutti verranno nel deserto come potranno essere soli?” In realtà sarà comunque lo stesso sovraffollamento, oltre un certo limite, a rendere via via sempre più afona la voce della montagna. Ogni ambiente naturale può farsi carico di un numero limitato di presenze al di là del quale perderà significato. E’ lo stesso numero dei compagni di viaggio, qualora divenga esorbitante, a corrodere il valore formativo del nostro percorso (che vorremmo fosse solitario e autonomo) alla ricerca del messaggio nascosto tra le pieghe dell’Altrove. In qualunque modo quegli ingombranti compagni si comportino.
L’economista e uomo politico Giorgio Ruffolo in uno dei suoi libri ha parlato di “beni esponenziali”. Sono esponenziali quei beni che perdono valore mano a mano che cresce la loro condivisione. Certamente la montagna appartiene a tale categoria. Ciò potrebbe portarci a dedurre che per salvare il messaggio della montagna bisognerebbe evitare di fare proselitismo e lasciare che il “volgo” resti confinato sugli spalti degli stadi. Però si tratta di una deduzione priva di senso. Non tanto perché egoistica o anti democratica. Ma per la semplice ragione che è stata già abbondantemente sfondata e scardinata la porta stretta ( e in qualche modo segreta) che permetteva a un ristretto manipolo di “illuminati” di accedere al senso della montagna, intessuto di solitudine, di silenzio, di pericoli affrontati con prudente ardimento, di decisioni vitali prese autonomamente. Quello che abbiamo la tentazione di bollare come il “volgo degli stadi” ha già tracimato da un pezzo dagli stadi, colonizzando negativamente una gran parte delle nostre montagne. Inutile negarlo. Come arrestare o dirottare l’ulteriore avanzata di questa valanga di persone, accompagnata da alberghi, seconde case, rifugi, posti di ristoro, strade di penetrazione, funivie, piste da sci e da bob ?

Kurt Diemberger suggeriva, come possibile soluzione, il ripristino del filtro della fatica e del disagio. Più avviciniamo artificialmente l’Altrove ai confini del mondo civile e più l’esperienza dell’altrove – del deserto – perderà la sua funzione di alternativa radicale e creativa. Diventerà a poco a poco una estrema periferia urbana, carica di tutti i limiti e i difetti della complessa società che la specie dell’homo sapiens ha contribuito a costruire e che in molti sensi resta comunque, storicamente, il nostro capolavoro. La periodica immersione nell’Altrove non equivale alla fuga codarda dalle sbarre di una prigione e non rinnega l’eredità della nostra provenienza; ma ci offre la possibilità di porre di tanto in tanto una salubre distanza prospettica tra il nostro io e la nostra quotidianità, arricchendola di senso.
Insomma concordo con Kurt. Se nuove strade di accesso, nuovi impianti a fune, nuovi mezzi di trasporto eliminano il significato iniziatico del lento avvicinamento alle alte terre, e riducono la multiforme esperienza dell’alpinismo alla sola scalata finale, è ovvio che nessuno sarà in grado di mitigare l’affollamento. Penso che quando un rifugio non riesce a ospitare la folla che bussa alla sua porta non dovrebbe essere ampliato, e poi di nuovo ampliato. Andrebbe chiuso, punto e basta, per evitare la degradazione dell’ambiente circostante causata dall’ iper frequentazione che la presenza del rifugio incoraggia. Solo le persone realmente motivate ritornerebbero lassù, accettando i disagi e anche i rischi di bivacchi in quota. Favorire o ripristinare il mantenimento della distanza dalla meta non è un atteggiamento anti democratico o elitario. E non ha niente in comune con il ricorso a divieti, a numeri chiusi imposti dall’ alto, a royalties sempre più costose. Avrebbe come esito una selezione benefica delle presenze non basata sul censo, su liste d’attesa o su grotteschi esami selettivi ma sulla libera forza delle motivazioni.
Come arrivarci è una domanda alla quale non so rispondere. Penso però che anche un sogno utopistico, se trova un numero abbastanza determinato di seguaci, può trasformarsi in un progetto realistico. Teniamolo presente.
Per farmi perdonare l’assenza di una facile soluzione conclusiva, regalo ai presenti una bella frase di Marcel Proust: “ Io non ero avido di conoscere che quello che credevo fosse più vero di me stesso; quello che per me aveva il pregio di mostrarmi un poco la forza e la grazia della Natura, così come si manifesta lasciata a se stessa, senza intervento degli esseri umani. Meno essa portava la loro impronta e più spazio offriva all’espansione del mio cuore.”
Grazie.
Carlo Alberto Pinelli