Laboratorio Appennino e il ruolo delle Aree protette

I partecipanti dell’incontro dell’Aquila del 16 dicembre hanno approvato a larga maggioranza una carta di intenti che traccia la rotta di un lungo percorso volto a fermare la crescente marginalità delle aree montane all’interno delle agende e delle priorità della politica nazionale.

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Pubblichiamo qui l’intervento di Carlo Alberto Graziani: 
Il ruolo delle Aree Protette

Carlo Alberto Graziani

La grande assente: l’idea di parco

24 agosto 2016. Il terremoto colpisce l’Appennino centrale; l’epicentro è tra i Monti della Laga e i Monti Sibillini: due grandi parchi nazionali. Distrutti i paesi di Amatrice, Accumoli, Pescara del Tronto; 300 i morti; dilaga la paura che si accresce con l’ondata sismica; la grande fuga.
26 e 30 ottobre. Nuove fortissime scosse sconvolgono l’intero territorio del Parco dei Sibillini; colpiti gravemente i paesi dell’epicentro: soprattutto Visso, Ussita, Castelsantangelo sul Nera nelle Marche e, in Umbria, Norcia con il crollo della basilica di San Benedetto e con Castelluccio ridotto a un ammasso di rovine, Preci con la splendida chiesa abaziale di San Salvatore rasa al suolo. Non ci sono vittime, per fortuna, perché l’intera popolazione ha oramai abbandonato le proprie case. Prosegue lo sciame sismico con altre fortissime scosse che aggravano la distruzione.
Comincia la fase della ricostruzione, anzi dell’emergenza; si aprono infinite discussioni sul futuro del territorio.
Ma in questa fase e in queste discussioni tra politici, amministratori, tecnici, studiosi il parco è completamente assente. Sono assenti i gestori dei due parchi nazionali, ma soprattutto è assente l’idea di parco.
In questi due anni e mezzo mi sono chiesto ripetutamente con angoscia, ma anche con rabbia: perché questa assenza? perché l’idea di parco per la quale in tanti e per tanti anni ci siamo battuti e ancora continuiamo a batterci non ha avuto e non ha tuttora alcuna considerazione?
Eppure l’idea di parco – che nasce da una profonda esigenza di natura insita nell’animo umano, che si fonda su un progetto di sviluppo effettivamente sostenibile proprio perché in stretta armonia con la natura, che ha il grande obiettivo di aprire alle popolazioni nuove prospettive di vita – aveva rappresentato la stella polare per molti, soprattutto giovani, che si ostinavano a restare sul proprio territorio e che a quell’idea offrivano le migliori energie intellettuali e fisiche e insieme il cuore, le ansie e, con Massimo, perfino la vita.
Eppure, grazie all’intelligenza, allo spirito di sacrificio, alla generosità di queste persone, erano sorte iniziative che, pur tra mille difficoltà, indicavano come quel grande obiettivo non fosse pura utopia, ma potesse essere raggiunto. A me piace parlare di utopia realistica perché vi è utopia nell’idea di parco: e ben venga la forza dell’utopia che libera idee ed energie. Quelle iniziative dimostravano come fosse possibile arrestare l’esodo storico che aveva impoverito gli Appennini e come proprio i parchi indicassero la strada per il futuro.
Ma allora perché questa assenza in un momento così travagliato quando proprio l’idea di parco può costituire una pietra fondamentale per la rinascita?

Le cause dell’assenza dell’idea di parco

Le cause sono soggettive e oggettive. Non è questa la sede per risposte che individuino le responsabilità soggettive: ve ne sono e sono individuabili e forse dovremmo prima o poi esaminarle almeno per tentare di eliminarle. Qui voglio dire che tutti, sia pure in maniera ben diversa, dobbiamo accollarci le nostre responsabilità: per chi come me ha creduto e crede in quell’idea la responsabilità è di non essere stati capaci di comunicarla efficacemente, di spiegare il vero significato di parco, di convincere e forse – è questo un cruccio che continua a perseguitarmi – di illudere.
Così per un verso è emersa un’interpretazione in chiave meramente economicistica, quasi mercantile, che riduce i parchi e in generale le aree protette a luoghi destinati prevalentemente al turismo enogastronomico e alla promozione del made in Italy, che suscita solo emozioni superficiali, che non è in grado di affrontare scientificamente i problemi, che rende le aree protette tutte uniformemente patinate; per altro verso è emersa un’interpretazione in chiave localistica che assimila i parchi agli enti locali o addirittura, come qualcuno ha affermato, a grandi proloco.
Si tratta di interpretazioni riduttive che tradiscono lo spirito della legge quadro e che, avallate da una parte dello schieramento politico e purtroppo anche da una parte dell’associazionismo ambientale, hanno portato il Parlamento nella scorsa legislatura a modificare alcuni aspetti fondamentali di quella legge – mi riferisco tra l’altro all’assurda eliminazione della componente scientifica dei consigli direttivi dei Parchi nazionali – e che in questa legislatura sono alla base di alcune proposte dirette a modificare ulteriori aspetti fondamentali.
Oggi inoltre con l’assorbimento del Corpo Forestale dello Stato nell’Arma dei Carabinieri tali interpretazioni rischiano di aprire la strada – e in parte la stanno già aprendo – a gestioni militarizzate della cui legittimità è lecito dubitare e che richiamano un passato non certo glorioso quale quello della milizia forestale.
In questa sede invece mi interessa riflettere, sia pur brevemente, sulle cause oggettive di tale assenza proprio perché da esse emerge l’importanza di ciò che vogliamo realizzare. In proposito voglio ringraziare Luigi Casanova, Antonella Ciarletta, Adriana Giuliobello che hanno avuto l’idea di dar vita a questo Laboratorio Appennino che, a mio avviso, ha grandi e strategiche potenzialità: sta a ciascuno di noi adoperarsi per realizzarle.
Di tale assenza individuo due cause principali, tra loro collegate: la chiusura dei parchi e l’emarginazione sia dei soggetti più vivi e vivaci sia delle esperienze più innovative.


Per quanto riguarda la prima causa si deve osservare che i parchi, al di là delle intenzioni, delle dichiarazioni e dei buoni propositi, sono rimasti prevalentemente chiusi in se stessi, non sono riusciti ad aprirsi a un vero confronto con le popolazioni e comunque non sono “esplosi” fuori dei propri confini, non sono stati cioè in grado, almeno finora, di contaminare il territorio esterno.
Ciò è avvenuto in parte per necessità – poco personale, pochi finanziamenti, troppe incombenze burocratiche– e in parte per scelta: una scelta che viene effettuata per evitare le difficoltà del confronto con gli altri, per evitare cioè un compito che nei parchi nazionali è diventato ancora più arduo a causa del venir meno della componente scientifica che dava sostanza e autorevolezza agli enti gestori; una scelta che rientra in quella logica di gestione fortemente localistica che si va affermando e che rende del tutto marginali l’apertura e il confronto.
Le conseguenze della chiusura sono l’inaridimento, l’autoreferenzialità, la coazione a ripetere: un parco chiuso in se stesso “implode” invece di esplodere sul territorio esterno, non è cioè in grado di contaminare e perciò stesso di rappresentare una prospettiva, un modello.
Ma la chiusura contrasta anche con l’obiettivo per così dire strutturale di un’area naturale protetta: la conservazione della biodiversità. La biodiversità e in genere la natura non si salvano restando chiusi all’interno di aree, cioè di confini.
Occorre dunque rompere le catene che stanno rinserrando sempre di più i parchi in se stessi: la contaminazione è la parola d’ordine che può dimostrare quanto futuro contenga l’idea di parco
Tornerò tra breve su questo punto. Ora invece devo accennare alla seconda causa di quell’assenza, precisando che essa riguarda non solo il territorio colpito dal sisma, ma tutto l’Appennino. Questa seconda causa risiede nell’emarginazione che ha colpito e continua a colpire le esperienze più vive e innovative portate avanti con grande coraggio e determinazione da singole persone o da piccoli gruppi.
Nell’interpretazione economico-mercantilistica dei parchi che si sta diffondendo tali esperienze non possono avere spazio perché fuoriescono dalle regole di mercato e richiedono una nuova cultura da parte delle istituzioni, un approccio scientifico e perciò complesso ai problemi gestionali, il superamento di rapporti consolidati su cui si sono costruite alleanze politiche e soprattutto un’attenzione continua alle persone e alle loro esigenze più profonde. Più facile e più conveniente per gli amministratori è dare spazio alle corporazioni e agli interessi forti: non solo quelli aggressivi che hanno fini meramente speculativi, ma anche quelli, certamente più rispettabili, legati alla cosiddetta economia verde sviluppata da determinati gruppi industriali che guardano al territorio in un’ottica comunque strumentale.
Occorre invece prendere atto della ricchezza quantitativa e soprattutto qualitativa di quelle esperienze, della professionalità di quegli operatori che guardano alla loro terra, della loro capacità per affrontare nuove e complesse questioni.
Penso in particolare, per fare un esempio assai significativo, alla questione dei migranti, cioè alla questione che oggi più ci tormenta in Italia, in Europa, nel mondo, e alla straordinaria proposta di Piero Bevilacqua, di Franco Arminio, di Tonino Perna, di Fabrizio Barca per collegare tale questione a quella delle aree interne e per suscitare così un nuovo protagonismo dei soggetti che operano in queste aree. L’Appennino con i suoi parchi può rappresentare il laboratorio ideale per un approccio siffatto: appunto il Laboratorio Appennino, dove anche altre questioni possono essere affrontate sempre coinvolgendo gli operatori del territorio (dalla rinascita delle aree terremotate alla sensibilizzazione delle amministrazioni locali, dalla individuazione dei servizi essenziali alle lotte per ottenerli, ecc.).

Il ruolo delle Aree Protette

Occorre dunque superare le cause per cui oggi l’idea di parco è assente nel dibattito sulla ricostruzione e sulla rinascita delle aree sconvolte dal sisma che ha colpito l’Italia centrale dove pure sono collocate numerose aree protette. Occorre in particolare dare la giusta dimensione a quell’idea e individuare quale sia oggi in Italia il vero ruolo dei parchi e in generale delle aree protette.
Per tutelare la natura non basta operare all’interno delle aree naturali protette, che pure coprono una percentuale di territorio che da tempo ha superato il mitico traguardo del 10% e che qui in Abruzzo ha raggiunto la soglia del 30%, ma occorre abbracciare un continuum territoriale; occorre cioè che si affermi il principio secondo cui la politica delle aree protette non può limitarsi a esse, ma deve riguardare l’intero territorio rilevante dal punto di vista naturalistico.


E’ proprio questo uno dei principi fondamentali della Carta di Fontecchio – sottoscritta a seguito del convegno tenutosi a Fontecchio (AQ) nel giugno 2014 da ben otto delle principali associazioni di protezione ambientale – che non solo sottolinea la necessità e l’urgenza di dare una svolta alla politica per le aree protette, ma contiene una vera e propria strategia che nasce dalla consapevolezza che la natura è bene comune e non può essere divisa da confini artificiali quali sono quelli amministrativi (“nessun parco è un’isola”).
La natura è bene comune nel senso indicato nel 2007 dalla Commissione Rodotà perché esprime utilità funzionali all’esercizio di diritti fondamentali (tra cui i diritti al libero sviluppo della persona, al paesaggio, alla salute) e deve essere salvaguardata anche a beneficio delle generazioni future: per questo, afferma la Carta, il diritto alla natura deve essere annoverato tra i diritti fondamentali del genere umano.
La natura – sottolinea ancora la Carta – non ha confini, deve essere considerata unitariamente. Sorge allora un interrogativo: qual è il rapporto tra le aree protette e il resto del territorio? Una prima risposta è offerta dalle connessioni: corridoi ecologici, reti, sistemi. Ma quando, come oggi sta avvenendo, è in questione la sopravvivenza stessa degli esseri viventi la risposta non può che essere globale, deve cioè riguardare il territorio nella sua globalità, la montagna nella sua interezza: in Italia gli Appennini come le Alpi.
Si scopre così il ruolo delle aree protette e in particolare dei parchi che tra le aree naturali sono le più complesse. Da un lato esse sono eccezionali serbatoi di biodiversità, ricche di paesaggi e di bellezza; dall’altro costituiscono dei laboratori dove si sperimenta una gestione territoriale che sia in armonia con l’ambiente, ponga al centro il rapporto tra la persona e la natura e pertanto diventi modello di uno sviluppo effettivamente sostenibile, valido tendenzialmente per tutto il territorio.
Ma vi è un altro ruolo che oggi assume particolare rilevanza: la natura, proprio perché non conosce barriere fisiche, è in grado di abbattere le barriere esistenziali, sociali, geopolitiche che dividono l’umanità; così le aree protette dimostrano concretamente come sia possibile salvaguardare, con la natura, sia i diritti delle persone, a partire dalla inclusione dei più deboli, sia i diritti dei popoli e perciò la pace tra le nazioni e la collaborazione tra gli stati.
E’ questa dunque l’alta missione che le aree protette sono oggi chiamate a svolgere, è questa la loro importanza strategica: modelli e bussole – come indica la Carta – per l’intero cammino della società.
La legge quadro 394 del 1991, che ha avuto il merito di liberare energie diffuse in tutto il territorio italiano come dimostra la crescita impetuosa sul piano qualitativo e quantitativo delle aree protette nella fase della sua prima attuazione, deve oggi essere ripensata alla luce dei nuovi ruoli a cui queste sono chiamate. Il dibattito parlamentare sulla legge che si è svolto nella precedente legislatura è stato però fortemente deludente e soprattutto non è stato all’altezza di questa nuova missione, ancorato a una visione meramente economicistica e localistica delle aree protette, a una banalizzazione del loro ruolo, incapace di interpretare le ansie e le aspirazioni di operatori, di amministratori, di ambientalisti.

Il Laboratorio Appennino: i principi

E’ invece proprio sulla base della nuova alta missione delle aree protette che nasce il Laboratorio Appennino: è compito nostro, di ciascuno di noi, contribuire a realizzarlo.
Oggi il mio contributo – che si basa anche su un’esperienza che viene da lontano – è quello di indicare quelli che ritengo debbano essere i principi fondanti del Laboratorio, quelli che ne rendono l’importanza e l’originalità. Li elenco in estrema sintesi:

  1. unitarietà del territorio montano: i problemi della conservazione della natura e della vita delle popolazioni ivi insediate sono comuni e perciò devono essere affrontati unitariamente;
  2. visione alta delle aree protette, quale è riconosciuta dalla legge quadro del 1991;
  3. centralità dei parchi, che discende dal regime speciale previsto dalla legge: non perché i parchi abbiano maggior valore del restante territorio, ma perché nei parchi è possibile, grazie a tale regime, sperimentare soluzioni che potranno poi essere applicate in tutto il territorio;
  4. ruolo strategico dell’Appennino perché è una dorsale che abbraccia gran parte dell’Italia con le sue aree interne, perché è in grado di interpellare le Alpi e da esse essere interpellato, perché può dimostrare concretamente se e come sia possibile realizzare un modello che in un determinato territorio coniughi la conservazione rigorosa dell’ambiente con la presenza e lo sviluppo autentico delle persone;
  5. ruolo fondamentale delle persone che vivono o vogliono vivere nell’Appennino per contribuire con le proprie capacità al bene comune e che intendono mettersi in rete.
    Sulla base di questi principi il Laboratorio Appennino deve contribuire a formare le persone a essere protagonisti della rinascita dell’Appennino e nello stesso tempo a costruire un movimento che dia forza alla rete dei protagonisti, coinvolga le associazioni in un disegno unitario e trasparente, stimoli le istituzioni a partire dai Comuni, faccia irrompere nella politica nazionale la questione della rinascita dell’Appennino e in generale della montagna.

Il Laboratorio Appennino e gli altri progetti

All’Appennino guardano anche altri progetti.
Mi riferisco innanzi tutto ad APE (Appennino Parco d’Europa) lanciato proprio qui a L’Aquila nel dicembre 1995. E’ un progetto che conosco bene, anche perché in quell’occasione tenni una delle relazioni di presentazione, e che poi, durante la mia presidenza del Parco nazionale dei Monti Sibillini, tentai di attuare sulla base di due dei principi che ora ho elencato: centralità delle aree protette, protagonismo degli operatori del territorio. Il progetto però prese altre strade.
Mi riferisco anche alla proposta della Regione Marche di candidare i Sibillini e la fascia marchigiana dell’Appennino a Riserva della Biosfera del programma MAB dell’Unesco: proposta anch’essa interessante di cui però occorre attendere l’esito.
Dobbiamo comunque riflettere su questi progetti, incrociare queste esperienze, anche se, nel secondo caso, ancora allo stato di proposte, nella consapevolezza che il ruolo del Laboratorio Appennino è quello di offrire un servizio strategico: contribuire a dare ai progetti quella vitalità che si può ottenere solo se si coinvolgono le persone dal basso, partendo dalle esperienze concrete, dalla vita vissuta.
Si scopre qui la causa dell’assenza dell’idea di parco nel dibattito sul futuro del territorio colpito dal sisma che pure in gran parte è coperto da aree protette (ma analoghe considerazioni si possono fare per il futuro delle aree interne di tutta la catena appenninica): in questi anni le esperienze più vive e innovative che si sono avute nell’Appennino, quelle che provengono dalla base, sono state emarginate perché rompono equilibri consolidati sia sul piano psicologico sia soprattutto su quello degli interessi economici forti. Occorre allora dare a tali esperienze quella centralità che meritano: è questo il compito che quanti si riconoscono nei principi prima indicati devono affrontare.
Siamo tanti: tanti operatori, tanti che progettano, che riflettono sul futuro. Ma siamo monadi e invece dobbiamo diventare un esercito compatto perché solo così potremo coinvolgere le istituzioni (enti locali, enti parco, ecc.) che nella nostra democrazia restano i soggetti fondamentali con cui pertanto dobbiamo metterci in relazione per salvare l’Appennino.

Brevissima conclusione

In questa terra d’Abruzzo vi è una figura emblematica che dimostra inequivocabilmente la necessità di superare il concetto stesso di area e perciò di rompere i confini: è una specie animale, l’orso marsicano.
Concludo allora accogliendo una suggestione di Corrado Guacci: eleggere l’orso marsicano a simbolo del rapporto persona-natura per gli Appennini e perciò per il nostro Laboratorio.
Non però l’orso minacciato dalla presenza umana, ma l’orso simbolo di una convivenza pacifica e felice tra le persone e la natura.
Un augurio dunque e un invito a tutti a impegnarsi in questa grande avventura.