Ancora sulla ferrata Bepi Zac
Riceviamo e pubblichiamo questa lettera di Giovanni Widmann, professore di filosofia e storia presso il Liceo Russel di Cles
Sulle tracce della Guerra bianca, ogni anno, d’estate, scelgo almeno una meta escursionistica che abbia anche interesse storico. Così nel 2018 decisi di percorrere l’alta via ferrata Bepi Zac, (dal nome dell’alpinista Bepi Pellegrin, detto “Zac”, cultore di storia locale) oggi al centro di polemiche innescate dopo la costruzione di blocchi antiestetici di cemento armato per consolidare alcuni torrioni rocciosi lungo l’itinerario, che si snoda sulla cresta di Costabella, con partenza dal passo S. Pellegrino. Questa via ferrata non è interessante soltanto dal punto di vista naturalistico ed escursionistico,(vista grandiosa sui maggiori gruppi dolomitici della val di Fassa) ma anche storico: si sviluppa infatti su antico tracciato militare austriaco della Grande Guerra, permettendo all’escursionista di ripercorrere camminamenti, scale e trincee; in quello che fu un osservatorio militare scavato nella roccia è stato addirittura approntato un piccolo museo fotografico.
La progettazione dell’intervento, che a quanto si è potuto leggere sui quotidiani, in origine doveva essere limitato alla sola manutenzione e messa in sicurezza di componenti deteriorati della via ferrata, ma poi ha comportato anche ben più pesanti ed impattanti interventi di consolidamento delle pareti rocciose, è stata affidata a due professionisti, secondo quanto ha riferito il sindaco di Moena Alberto Kostner. Il primo cittadino pare abbia anche affermato che se è stata scelta quella soluzione tecnica, significa che non c’erano alternative per garantire la sicurezza, pena la chiusura definitiva del percorso attrezzato. Sembra comunque che siano previste delle opere di camuffamento delle strutture di cemento, che saranno rivestite con pietre, risolvendo il problema dell’impatto visivo. Insomma il sindaco si rimette alle decisioni dei tecnici, ricordando che in caso di infortunio, egli è chiamato a rispondere in sede giudiziaria. Tira in ballo anche la Sat, che a suo dire era a conoscenza del progetto, essendo il geologo incaricato membro dello stesso sodalizio. Se davvero fosse così sarebbe oltremodo grave, aggiungo io, data la missione della Sat, che è quella di conservare, tutelare e valorizzare la montagna trentina, nonché promuovere la cultura della montagna.
Ora, gli argomenti addotti dal sindaco pongono due questioni: 1) la necessità di mettere in sicurezza sentieri e vie ferrate molto frequentate dagli escursionisti, in località ad alta densità turistica, anche al fine di evitare che il primo cittadino e il comune sotto cui cade la giurisdizione e dunque la responsabilità della manutenzione del percorso attrezzato siano chiamati a rispondere di negligenza e incuria in sede civile e/o penale per eventuali danni a persone o cose. 2) La cultura della sicurezza e la conoscenza dei rischi che l’andare in montagna comporta, specie quando si percorrono alte vie ferrate, come in questo caso. La consapevolezza che in montagna il rischio zero non esiste e che l’evento che può comportare un infortunio o addirittura un esito fatale, indipendentemente dalla preparazione, dalla conoscenza dei luoghi e dall’esperienza dell’alpinista e/o escursionista, anche su percorsi apparentemente sicuri, è sempre possibile.
Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ammettere che una duplice tendenza attualmente diffusa tra i politici a tutti i livelli è quella di giustificare le decisioni politiche prese senza assumersi direttamente le proprie responsabilità ma parandosi dietro presunte scelte tecniche obbligate, come tali ritenute indubitabili ed indiscutibili. Invece si tratta proprio di discutere: il decisore politico evidentemente si affida alla competenza del tecnico a supporto delle sue decisioni; anzi dovrebbe vagliare più progetti tecnici e poi scegliere, in ragione di valutazioni di ordine economico-finanziario (costi dell’opera) e soprattutto, come in questo caso, di ordine ecologico (impatto ambientale dell’opera, al fine di salvaguardare l’ambiente naturale, il paesaggio, la storia e la memoria di cui un luogo è testimone). In altri casi simili le scelte dei tecnici sono state diverse e sono stati adottati criteri e soluzioni progettuali meno impattanti e più rispettose del contesto ambientale in cui sono stati inserite. I tecnici possono avere sensibilità e orientamenti diversi ed è doveroso che prima di approvare e rendere esecutivo un progetto si valutino le alternative, non solo in ordine ai costi ma anche e soprattutto alle soluzioni tecniche prospettate, che non possono mai essere disgiunte da considerazioni di ordine culturale.
Dei tecnici ci si deve certamente fidare, ma questo non esime il politico dalla propria responsabilità, che è quella di tutelare, come in questo caso, il proprio patrimonio ambientale, architettonico, storico e archeologico – ciò che caratterizza una comunità e le dà un’identità definita -, dall’insidia della tecnica, che non conosce il tempo e la storia e non conserva memoria, mirando alla massima efficacia e operando secondo criteri ispirati alla razionalizzazione strumentale, ovvero alla massimizzazione dei benefici, ma proprio per questo disconosce o non riconosce il valore di ciò che non risponde a criteri funzionali e/o utilitari in quanto è per sua natura non calcolabile e misurabile, essendo incalcolabile la sua importanza: stiamo parlando del valore dell’armonia e della bellezza. Perché la bellezza di un ambiente naturale non ama l’artificio e il camuffamento, si dà anche nella sua ruvida e aspra spigolosità, nella sua fragilità e difettosità, nella sua severa e perfino repellente terribilità. Ora, magari quei blocchi di cemento potranno anche prevenire futuri smottamenti e frane, ma anche se camuffati con pietre locali saranno sempre una ferita inferta al corpo naturale di quei bastioni rocciosi, un corpo estraneo artificiale che si pretende debba saldarsi con la naturalità di un luogo che è gravido di storia, dove i sassi parlano e sono muti testimoni di un tempo; essi raccontano di uomini, di sangue versato e di dolori, non sono solo materia inerte da mettere in sicurezza.
Circa la seconda questione, chi frequenta la montagna sa che all’attacco di alcuni sentieri attrezzati, come l’alta via Bepi Zac, un cartello segnala che essi sono sentieri alpinistici per “escursionisti esperti”, che in alcuni casi devono essere provvisti di idonea attrezzatura. Memore di alcuni episodi occorsimi personalmente, ho sempre pensato che nessuno può essere tanto esperto da prevedere l’evento casuale, come il cedimento di un appiglio o la caduta di un sasso (causata magari dal passaggio di un camoscio); che casomai su certi passaggi un simile evento può essere ritenuto altamente probabile, ma non calcolato. In certi ambienti severi ed estremi non ci si può muovere con mentalità pianificatrice: certamente si deve essere prudenti e previdenti e agire con raziocinio, consapevoli dei propri mezzi, delle proprie risorse e dei propri limiti, nella considerazione dell’ambiente che si attraversa o della salita che si intraprende, ma con la coscienza che tutto non si può controllare e che l’imponderabile (il caso? il destino?) è supremo artefice delle nostre azioni.
Ora, siamo sicuri che bastino alcune colate di cemento armato per considerare stabilizzata una balza rocciosa in ambiente dolomitico? La roccia dolomia per sua natura è friabile e soggetta a frammentazioni, distacchi e sfaldamenti anche importanti, come è avvenuto anche di recente in diversi contesti. Se in accordo col geologo si è optato per la scelta di costruire dei bastioni di cemento evidentemente si pensa che possano essere funzionali allo scopo. Io pongo soltanto la questione. Credo però che in un ambiente naturale alpino agiscano molte variabili e fattori che solo parzialmente un calcolo ingegneristico condotto sulla base di modelli e simulazioni o una perizia idrogeologica possono prevedere, soprattutto in un periodo come questo caratterizzato dagli effetti dei cambiamenti climatici. Nessun sentiero si può considerare assolutamente sicuro; l’importante è rendere comunque consapevole l’escursionista che sta per intraprendere un percorso non banale che nessuna misura di prevenzione e messa in sicurezza può rendere più facile ed esente da rischi. Così come si dovrebbero evitare i pericoli connessi ad un superficiale e banale approccio a questi percorsi, che ne sottovaluta le difficoltà e le capacità richieste, allo stesso modo si dovrebbero evitare gli eccessi e la presunzione di poter raggiungere un controllo totale di una certa cultura securitaria che guarda alla prevenzione e alla sicurezza o in un’ottica legale di autotutela (contro denunce) o con l’obiettivo non solo di ridurre i rischi, ma di azzerarli. Invece si dovrebbe promuovere una giusta cultura della sicurezza, che bada alla responsabilizzazione dell’escursionista attraverso un’opera di informazione e formazione – prima, durante e dopo l’escursione -, evitando l’approssimazione e la sottovalutazione dei rischi e considerando che la montagna non si affronta solo con le gambe e con le braccia ma anche con la testa e con lo spirito giusto, ovvero con la consapevolezza di frequentare ambienti che hanno una vita e una storia. Mi si permetta di dire, col rischio di apparire retorico, che in montagna ci si va anche con il cuore: si deve amare la durezza inesorabile della montagna per comprenderla profondamente; essa non può essere fatta oggetto di fuggevoli sensazioni adrenaliniche, di prestazioni atletiche; essa non deve diventare pittoresco scenario per immortalare se stessi. Vi è qualcosa di epico e immortale nella fatica della salita.
Giovanni Widmann insegna filosofia e storia presso il liceo Russell di Cles