Come un sentiero tracciato mi ha portato alla Wilderness

Ogni anno faccio una gita in montagna con un amico. Non una delle tante gite, ma una specie di tradizione. Ogni anno andiamo nello stesso posto, credo siano 15 anni che lo facciamo. Raggiungiamo una confortevolissima “capanna” e saliamo la vicina vetta a 3.300 metri. Scegliamo, per il nostro “rituale”, i giorni infrasettimanali per essere certi di non incontrare la moltitudine che si muove nel week end e, da qualche anno, preferiamo arrivare al bivacco attraverso un itinerario, diciamo, indiretto. Puntiamo ad un passo molto più a est nella valle e, raggiunto l’affaccio di una forcella, seguiamo la linea di cresta, poi con vari saliscendi lungo un ampio anfiteatro, raggiungiamo la nostra meta.
Procediamo fuori sentiero in ambiente selvaggio e grandioso, a volte azzecchiamo una linea più efficace a volte un salto di roccia o uno sbarramento ci costringono a perdere o riprendere quota. Un itinerario di diverse ore, per nulla banale, che abbiamo vissuto con stati d’animo sempre diversi, in qualche caso anche con qualche leggera apprensione o per la stanchezza o per il meteo o per i troppi “errori” e conseguenti saliscendi ma che ci ha sempre regalato un grandissimo piacere e rafforzato quel legame speciale tra compagni di montagna.


Considero questo giro un gioiello prezioso, un rarissimo angolo non antropizzato, ti permette di raggiungere un luogo confortevole senza sentiero, senza traccia, senza quella pesantissima mano che piega tutto alla propria comodità, che se da un lato rende accessibili le montagne dall’altro elimina ogni gusto “dell’avventura”. Per me l’ultimo scampolo di wilderness a portata di mano.
Il fine settembre scorso ci ha regalato delle giornate di aria fresca e cielo tersissimo e le “nostre” montagne erano bellissime, ma purtroppo c’era anche una novità: il nostro itinerario era segnato! Enormi, sgargianti, invadenti triangoloni bianchi e rossi, verniciati di fresco che gridavano la loro presenza. La via rimane un fuori traccia e la segnatura non è certo delle più puntuali, ma il risultato è lo stesso. Non sei più solo e ospite nel regno delle pietre, della roccia e degli stambecchi, sei, al solito, a casa dell’uomo.
Alla fine, anzichè cercare i riferimenti naturali nelle cime, nei nevai, nella conformazione del suolo, per orientarci andavamo a caccia di triangoli bianco rossi, il sentiero non è marcato, spesso si cammina sul ripido, su traversi d’erba, su roccette che salgono alle creste e resta quindi un percorso selvaggio, non battuto e appagante, ma la presenza di quei bolli bianchi e rossi così rassicuranti e così invadenti, mi hanno tolto qualcosa. Mi hanno tolto il bisogno di dovermi confrontare col mio compare, il piacere di essere con una persona di fiducia, il gusto di prestare attenzione all’ambiente e ai dettagli, al nostro stato mentale e fisico, di essere veramente dentro alla natura, insomma mi hanno tolto emozioni.


Mi interrogo spesso sulla mia idea di natura o di montagna e sul bisogno che sento di avere qualche occasione in cui potermi avvicinare ad una esperienza non troppo mediata dall’eccessiva umanizzazione, e sono sempre più convinto che sia necessario preservare qualche metro di roccia senza una funivia, senza una traccia, senza un cartello, senza una croce di ferro, qualche metro di natura, ed è per questo che avevo guardato con interesse all’associazione Mountain Wilderness.
Rientrato da quel giro, dopo aver metabolizzato l’esperienza dei triangoloni bianco rossi, ho deciso che ho bisogno di sapere che c’è qualcun’altro che sente qualcosa di simile a me e ho bisogno di appartenere ad una comunità con questa sensibilità e di sostenerla. Mi sono allora associato a Mountain Wilderness.
E anche se resto dell’idea che siamo in troppi in questo pianeta, troppo arroganti e troppo antropocentrici, e non ho molta speranza, mi conforta sapere che qualcuno usa queste parole per descrivere quello che intende difendere:
“Per Wilderness montana, si intendono quegli ambienti incontaminati di quota dove chiunque ne senta veramente il bisogno interiore può ancora sperimentare un incontro diretto con i grandi spazi e viverne in libertà la solitudine, i silenzi, i ritmi, le dimensioni, le leggi naturali, i pericoli.”
Parole che assieme ad un passo di un libricino sulla spiritualità dei Nativi americani mi aiuta a descrivere la sensazione di crescita che ogni esperienza nella wilderness montana comporta:
“La comunicazione solitaria con l’Invisibile è la più alta espressione della vita religiosa dell’indiano, ed è parzialmente racchiusa nella parola hambeday letteralmente “sensazione misteriosa”. Il primo ritiro segnava nella vita un momento fondamentale. Dopo essersi preparato allontanandosi il più possibile d tutti gli influssi umani, il giovane saliva tra le montagne e sceglieva un’altura che dominasse la valle. Nell’ora solenne dell’alba e del tramonto si metteva al suo posto a rimirare le glorie della terra di fronte al “Grande Mistero”. La rimaneva per due o più giorni esposto agli elementi e alle forze di cui Egli era armato. Da questo l’indiano attingeva la sua più alta felicità e la forza motrice dell’esistenza. Ritornato rimaneva in disparte fino a che fosse stato nuovamente pronto al rapporto con i propri simili.”
(C.A Eastman “Ohiesa” – L’anima dell’Indiano)
E’ necessario difendere gli scampoli rimasti di wilderness e sostenere le persone che caparbiamente e altruisticamente cercano un modo sostenibile per vivere la montagna e gli spazi aperti. E’ necessario preservare qualche riserva di natura per il nostro benessere, per il nostro equilibrio.
Tutti ne abbiamo bisogno più di quanto ce ne rendiamo conto, facciamolo. Coltiviamo una mentalità ecologica, facciamo attenzione alle nostre abitudini quotidiane, sosteniamo materialmente associazioni come Mountain Wilderness, che sia con l’iscrizione, o il 5×1000, una donazione o anche solo con l’adesione ad una iniziativa, non lasciamo soli quanti hanno deciso di dedicarsi a questa lotta impari contro l’antropizzazione totale, è per il bene di tutti noi.

Alessandro Lavarra