Confindustria: un soggetto ancorato a uno sviluppo superato

Luigi Casanova risponde alle dichiarazioni della presidente di Confindustria Belluno Lorrain Berton in merito alla cultura ambientalista definita con non poca superficialità “cultura del NO”.

Luigi Casanova

Ormai da anni l’ambientalismo delle Alpi e quello delle Dolomiti, per chi ha voluto ascoltarci e confrontarsi con noi con rispetto, sa che l’ambientalismo è una cultura vasta: i sociologi ci descrivono come ambientalisti sociali, perché capaci di vedute ampie e di lungo periodo. Mentre si mantiene attenzione alla difesa dei beni pubblici e naturali si hanno sempre presenti le necessità, reali, delle comunità, necessità collettive ovviamente, non quelle che investono in interessi rivolti a piccoli orti. Sa anche che siamo dotati di pazienza e ascoltiamo le opinioni diverse, sa che non siamo il partito del NO altrimenti non avremmo lavorato, sempre come volontariato assoluto, con tanta profondità con la Fondazione Dolomiti UNESCO, in altre sedi, dagli Appennini con il progetto sulle Buone pratiche fino alla difesa delle aree protette, sui temi della mobilità come su quelli della qualità del vivere nelle montagne. Montagne, un bene di tutti, non nostre.


La spesso e non casualmente disattenta signora Berton non ha voluto cogliere il valore del nostro costante impegno nel chiedere alla Regione Veneto, da oltre 10 anni, un investimento progettuale serio teso a elaborare i dovuti investimenti nella mobilità del bellunese: mobilità non significa “Austostrada intelligente” come ormai viene ironicamente definita negli ambiti di EUSALP la continuazione della A27. Mobilità in Dolomiti è qualcosa di molto più serio: trasporti privati e pubblici, ferrovie, ciclabili, limitazione di accessi in aree delicate.
La signora Berton non ricorda ai cortesi lettori che presso ANEF è depositato un nostro documento nel quale chiediamo alla associazione degli imprenditori funiviari l’apertura di un dialogo, certo impegnativo, per vedere di recuperare non una visione condivisa di certo turismo, ma almeno investire, da subito e insieme nei valori autentici delle nostre montagne, valori che hanno sempre una solida base dalla quale partire, il limite e la difesa delle biodiversità, anche paesaggistiche.

Lorraine Berton presidente di Confindustria


E’ utile soffermarsi un momento sul linguaggio usato dalla signora nelle sue dichiarazioni: “-noi andiamo avanti per la nostra strada…con il nostro lavoro, le nostre scelte, i nostri lavoratori-“. Afferma anche di non accettare “-lezioni di responsabilità sociale… da chi dice solo no-“. Se ne deduce che qualunque tema affrontato da Confindustria sia proprietà loro: territorio, lavoro, beni comuni, manodopera e perfino famiglie coinvolte. E che chi dissente da tale lettura, comunque e sempre, faccia parte di un fantomatico e indistinto partito del NO. Le associazioni che hanno portato il loro contributo a villa Pat lavorano nel bellunese, per le Dolomiti tutte, anche chi chiede la parola essendo residente a Roma: sono persone che investono la loro vita in obiettivi sociali di alto profilo etico, in alti progetti, come sottolinea Papa Francesco nella enciclica Laudato Sì. Invece con questi soggetti Confindustria non apre confronti, va avanti per la sua strada (sempre proprietà assoluta).
Le dichiarazioni sulla stampa dei rappresentanti del tavolo infrastrutturale sono una litania di offese nei nostri confronti. E cosa propongono questi soggetti che sembrano temere tanto il Medioevo? Il Medioevo dello sviluppo: strade, viadotti, gallerie, folli collegamenti sciistici in quota e in ambienti intonsi. Mentre la tecnologia, tanto invocata anche dai sindacati, avanza a velocità straordinaria, quasi travolgendoci, questi soggetti imprenditoriali sembrano ancora legati alla predazione dei territori e dei beni comuni. Investono solo dove sentono profumo di contributi pubblici: sulle strade invece che sulle ferrovie o metropolitane di superficie, vanno a incidere i più sperduti rivoli d’acqua, propongono collegamenti sciistici a basse quote mentre i cambiamenti climatici ci travolgono con una sequenza sempre più ravvicinata di eventi catastrofici e ci indicano ben altre emergenze dello sviluppo. Noi le proposte, una incredibile sequenza di SI, le abbiamo fatte nel corso di ben 5 convegni che abbiamo tenuto in Cadore: certa imprenditoria investa in un minimo di umiltà e almeno legga le nostre chiare proposte alternative. Proposte tutte indirizzate al recupero del lavoro giovanile, tanti SI che ricercano anche lavoro intellettuale per la montagna dolomitica.

Alta Via Dolomiti 1 30039 Averau e Pelmo. Foto: Sergio Ruzzenenti


Una parte dell’imprenditoria dice di rappresentare il mondo del fare. Una attenzione senza dubbio lodevole, che condividiamo. Ma noi rappresentiamo anche il partito del vivere, vivere con dignità, con qualità. Per le Dolomiti, come si è sempre discusso nei tavoli partecipati di Dolomiti UNESCO, significa anche investire in servizi di trasporto pubblici, nel potenziamento della sanità, della assistenza agli anziani, nel recupero degli ambienti naturali devastati dalla tempesta Vaia e dagli errori del recente passato, una agricoltura da riconvertire: chiediamo formazione diffusa e stretti collegamenti fra i centri dei saperi universitari della pianura con i nostri giovani delle vallate. Ovviamente le nostre proposte portano attenzioni rivolte a ricadute di ampio respiro, di lunga durata, non sono settoriali, non sono legate all’apnea di una industria automobilistica ormai superata o di una attività dello sci che oggi va solo limitata agli ambiti dove realmente produttiva.
Cosa hanno dimostrato Confindustria e Tavolo delle infrastrutture in occasione dei mondiali di sci alpino e delle olimpiadi? Di essere ancorati al passato proponendo autostrade e collegamenti sciistici sempre più fantasiosi e impattanti. Di come viva la gente di montagna a questi soggetti sembra interessi ben poco, di una progettazione strutturata nel lungo periodo, basata sulla lotta ai cambiamenti climatici e ai temi della sicurezza della montagna, o dei servizi da offrire a chi la abita e la coltiva non si raccoglie una parola. Proprio come facevano i feudatari nel Medioevo nei confronti dei (loro) servi della gleba.