Dalla conquista della notte alla sconfitta del giorno
Pubblichiamo di seguito una provocatoria riflessione di Carlo Alberto Pinelli sulla funzione e sull’estetica dei Rifugi alpini.
Horace Benedict de Saussure nel Voyages dans les Alpes scrive che i suoi primi tentativi di raggiungere la vetta del Monte Bianco avrebbero avuto un esito migliore se le guide reclutate a Chamonix non avessero sempre preteso di risolvere l’ascensione nell’arco di una sola giornata: dalle prime luci dell’alba al tramonto. “ La gente del posto” annota lo scienziato
ginevrino “ non crede che sia possibile tentare di trascorrere una notte intera sui ghiacci, allo scoperto, senza gravissime conseguenze.”
Quando cerchiamo di immaginare quali fossero le difficoltà, i timori, i blocchi psicologici che limitavano gli exploits dei padri fondatori del turismo verticale, spesso tendiamo a prendere in considerazione i materiali e il vestiario inadeguati, la paura dell’ignoto, le troppo elementari conoscenze delle tecniche alpinistiche necessarie per superare i ripidi pendii ghiacciati o i ponti di neve sui crepacci e così via. E sottovalutiamo quello che probabilmente rappresentò per lungo tempo uno dei più seri ostacoli con cui quei nostri predecessori dovettero fare i conti. Per calpestare vittoriosamente una vetta non bastava soltanto dimostrarsi all’altezza delle difficoltà tecniche e delle incognite che l’itinerario prescelto presentava. Era necessario anche affrontare una o più notti all’addiaccio, a quote e in luoghi inospitali, dove nessun uomo di buon senso fino ad allora aveva mai pensato di poter cadere addormentato senza risvegliarsi automaticamente nell’Aldilà. In altre parole: il successo dell’alpinismo dei primordi dipese in buona misura anche dalla conquista della notte. Una conquista che – al pari di molte altre – nascondeva in sé i germi di molte gravi future contraddizioni e degenerazioni.
E’ probabile che già in epoche precedenti a de Saussure alcuni ostinati cercatori di cristalli e cacciatori di stambecchi e camosci, sorpresi in quota dal maltempo o dalla nebbia, siano stati costretti a bivaccare sotto un sasso aggettante senza per questo lasciarci la pelle o impazzire. La storia però ha dimenticato le loro disavventure e ha assegnato il merito di aver infranto il
tabù per primo al giovane e stravagante cacciatore Jaques Balmat di Chamonix.
Costui, durante uno dei tentativi compiuti dalle guide della valle verso la vetta del Bianco, fu abbandonato dai compagni, smarrì la via del ritorno e venne arrestato all’ imbrunire da un enorme crepaccio. In conclusione dovette trascorrere una interminabile nottataccia nella bufera.
Un’esperienza di certo non piacevole, ma a quanto pare non abbastanza traumatica da indurlo ad abbandonare la “corsa alla vetta”. Anzi. Come è noto fu proprio lui, l’anno successivo e dopo un altro bivacco, a raggiungere per primo il culmine del Monte Bianco, insieme all’intrepido dottor Michel Paccard, quel fatidico 8 agosto del 1786 che oggi
consideriamo – forse a torto – come la data ufficiale della nascita dell’alpinismo . Benedict de Saussure che aveva, come diremmo noi ora, “sponsorizzato” l’impresa, raggiunse anche lui la vetta, l’anno successivo, accompagnato da diciotto guide, da un domestico personale e da una cassa di bottiglie di Champagne. Per rendere meno disagevole l’avventura egli fece costruire in precedenza lungo il percorso due rudimentali ricoveri di pietra. Il secondo, posto sulle rocce dei Grands Mulets, resistette pochi inverni e nessuno ne conosce più l’esatta ubicazione. Esso tuttavia può essere considerato a ragione come il prototipo di tutti i rifugi d’alta quota
delle Alpi.
Ma i tempi, per quel genere di manufatti non erano ancora maturi. Fu solo nel 1853, quando ormai l’ascensione al Monte Bianco era diventata quasi di moda tra i turisti più avventurosi, che le guide di Chamonix decisero di edificare di nuovo ai Grands Mulets una vera a propria capanna di legno e pietra. Si trattava, come è facile immaginare, di un tugurio puzzolente e privo di qualsivoglia sospetto di comfort. Niente cuccette e niente tavolato: i visitatori dovevano coricarsi alla meglio su mucchi di paglia ridotti a strame fetido. Anche se a noi oggi la cosa può sembrare inverosimile, abituati come siamo a ben altri scempi, quel primo modestissimo tentativo di antropizzazione della wilderness alpina causò notevoli dissensi e fu denunciato come una autentica profanazione.
“ Simili edifici” scrisse allora un alpinista inglese “grazie ai quali una curiosità banale può comodamente giungere ad ammirare scenari grandiosi, tradiscono il loro scopo. Sappiatelo! Se le comodità fanno due passi avanti verso il pittoresco, il pittoresco si ritira d’altrettanti passi!”
Basterebbe sostituire l’antiquato temine “pittoresco” con il più moderno “ paesaggio naturale” per ritrovate in questa breve frase una sorprendente modernità. Confesso che non mi dispiacerebbe poter stringere la mano a quell’inascoltato profeta. La sua sensibilità poteva e può apparire eccessiva; ma certo i suoi occhi interiori vedevano molto lontano.
Dalla metà del 1800 in poi i rifugi – sempre estremamente spartani – si moltiplicarono lungo l’arco delle Alpi. Al principio dal ventesimo secolo il solo Club Alpino Italiano ne possedeva già quasi cento. Quelle costruzioni, bisogna ricordarlo, erano ancora presenze discrete, rudimentali, spesso non prive di una sottile poesia. I loro profili, se da un lato inevitabilmente addolcivano un poco la selvaggia grandiosità degli ambienti che li circondavano, dall’altro lato contribuivano a donare a quella stessa grandiosità sovrumana un termine di paragone comprensibile; se preferiamo: ne permettevano per immediato contrasto una più intensa e
struggente chiave di lettura. A mio avviso nessuno ha saputo descrivere con maggiore delicatezza di Samivel questo prezioso servizio di intermediazione culturale ed emotiva offerto agli alpinisti dalle sperdute capanne degli anni eroici.
“…E tutta quella sterminata notte carica d’abissi ruotava intorno alla minuscola conchiglia di latta dove riposavano gli uomini. Là dentro c’era uno spazio addomesticato, ancora fremente di gesti umani, pieno di oggetti familiari, rassicuranti e ben delimitati: il profilo rustico di una panca, il rosseggiare delle ceneri nella stufetta, il rumore rasposo delle coperte sul tavolato. Nient’altro che cuori amici. Una specie di particolare tenerezza delle cose fatte per essere usate dall’uomo, fedeli come cani, uscite per una volta dal torpore interminabile in cui erano condannate a vegetare i nove decimi dell’anno e felici di servire finalmente a qualcosa, di giocare il loro gioco, di essere tavolo, panca, casseruola, coperta e non più oggetti incomprensibili sperduti nel caos delle pietre (…..) Perché la capanna navigava, come un’arca carica di tepore e di vita, tra le lunghe onde del silenzio e della morte.”
Se mettiamo a confronto il carattere della maggioranza dei rifugi attuali, trasformati in alberghetti tanto confortevoli quanto congestionati, con l’atmosfera magica descritta da Samivel, l’abisso appare impressionante.
La “fragile arca” è stata spazzata via quasi ovunque, per far posto a solidissimi “traslatlantici”, all’interno dei quali gli ospiti ritrovano fin troppe delle comodità lasciate in pianura; tra queste ovviamente l’affollamento eccessivo. Però addossare ogni colpa all’aumento vertiginoso dei frequentatori della montagna è una spiegazione che non basta a soddisfarci. Perché tende a trasformare quanto è avvenuto in una fatalità ineluttabile e cancella ogni responsabilità per le politiche di incentivazione indiscriminata delle attività alpinistiche praticate dai vari club alpini, pro loco, agenzie di viaggio, associazioni di guide, ecc..
Certamente non è possibile identificare il momento preciso in cui, nella pianificazione dei ricoveri alpini, la via del rispetto ambientale, della discrezione, dell’essenzialità fu abbandonata per scelte che hanno portato al trionfo delle attuali offerte. Se c’è un rifugio che ha riassunto in sé molti degli aspetti più discutibili della conquista della notte in alta quota, quel rifugio è senza dubbio la capanna Regina Margherita al Monte Rosa.
Intanto perché l’edificio fu innalzato, per la prima volta nella storia, proprio sulla vetta di una grande montagna; poi perché per costruirlo fu minata e spianata la stessa vetta; infine perché la faraonica, indecente ristrutturazione compiuta una trentina di anni fa, ha rappresentato una penosa testimonianza del ritardo culturale di ampi settori del Club Alpino Italiano.
Non sono oggi l’unico alpinista “romantico” che reputa che per i rifugi sia giunto il momento della resa dei conti e che urga affrontare un riesame globale dell’intero problema. La conquista della notte, proliferando sempre di più, in assenza di ogni regola, è sul punto di causare la sconfitta del giorno. Vale a dire la degradazione delle esperienze autentiche che l’alta montagna può ancora offrire a chi le si avvicina direttamente, rinunciando ad ogni protesi superflua.
A tale proposito le Tesi di Biella, elaborate nel 1987, al termine del Convegno dal quale è nata l’associazione Mountain Wilderness dicono: “ Il desiderio – teoricamente comprensibile – di convertire il maggior numero di persone alla pratica della montagna, facilitandone l’avvicinamento, ha innescato spesso processi di deleteria antropizzazione. Per fronteggiare la crescente domanda si è fatto ricorso all’apertura di nuovi rifugi, all’ampliamento progressivo di quelli esistenti, alla messa in opera di vie ferrate e di altri incentivi al consumo.
Ma questa politica contiene gravi errori di valutazione. Essa infatti trascura i valori della wilderness – e della solitudine che la caratterizza – come cardini irrinunciabili della qualità dell’alpinismo. Noi crediamo che la progettazione e la capienza dei rifugi non debbano inseguire la richiesta dei potenziali frequentatori, ma vadano calibrate sulla quantità
di presenze che gli ambienti naturali, resi più facilmente fruibili grazie a tali ricoveri, possono sopportare senza perdere di significato.”
Oggi stiamo assistendo a un ulteriore, insidioso passo in direzione del declassamento dell’esperienza interiore dell’ alta montagna. Insidioso proprio perché apparentemente positivo. Mi sono chiesto più di una volta cosa mi metta a disagio quando vedo le foto di rifugi e bivacchi ricostruiti su progetti all’avanguardia, firmati da veri e propri architetti. Sto pensando al nuovo rifugio Gonella al Miage, al bivacco “spaziale” dedicato a Gervasutti ai piedi della est delle Grandes Jorasses, al nuovissimo e scintillante “colosseo” del Gouter, sulla via normale francese al Monte Bianco.
In questi casi non sono solo le accresciute dimensioni a rendermi perplesso ( anche se continuo a restare fedele alla convinzione, utopica quanto si voglia, secondo la quale quando un rifugio si rivela insufficiente a ospitare il crescente flusso dei visitatori, la soluzione non dovrebbe essere quella di ampliarlo, ma semmai di chiuderlo, per salvaguardare la qualità dell’ambiente montano circostante ). Ciò che mi rende perplesso è anche la qualità dell’intervento architettonico. Quei rifugi, frutto di un design raffinato, mi disturbano perché li trovo “belli”. Belli però di una bellezza aggressiva e auto-compiaciuta, riflesso del gusto estetico di un preciso momento storico. Una bellezza “databile” che, in quanto tale – precisamente in quanto tale – stride con il fascino primordiale dell’ambiente selvaggio circostante. Non rinnego quanto ho appena scritto commentando il toccante paragrafo di Samivel. Ma le modeste e disadorne capanne di un tempo traevano il loro significato di “ponte” tra gli esseri umani, figli del loro tempo, e la grandiosità a-temporale dell’ alta montagna proprio dall’essere solo umili zattere di salvataggio, architettonicamente insignificanti: tane di emergenza, sprovviste di indizi visivi capaci di collocarne la costruzione in una fase stilistica precisa. Le soluzioni architettoniche che caratterizzano i rifugi e i bivacchi di cui sto parlando ci trasmettono invece un doppio messaggio, mistificatorio e arrogante ( anche se ancora fortunatamente marginale): primo, gli esseri umani sono in grado di “abbellire” la wilderness montana e, secondo, di conseguenza hanno il diritto di imporre su di essa la firma indelebile della propria storia, figlia del mondo della pianura. All’addomesticamento dello spazio, causato dalle eccessive dimensioni dei rifugi, si sovrappone così un parallelo e forse non meno deleterio addomesticamento dell’ultima superstite dimensione “fuori dal tempo” che avevamo la fortuna di poter sperimentare. E qui non sarebbe male se qualcuno si prendesse la briga di rileggere quanto scrisse, già nel 1911, il grande “socio-filosofo” tedesco Georg Simmel nel suo saggio “Le Alpi”.
Carlo Alberto Pinelli