E’ possibile evitare la Tempesta perfetta?

Di Maurizio Fermeglia, Ingegnere, accademico del CAAI e già rettore dell’Università di Trieste.

Il 26 novembre a Pieve di Cadore il prof. Maurizio Fermeglia, accompagnato dalla dott.ssa Paola Favero, ha tenuto una conferenza sulla possibile imminente Tempesta perfetta (2030?) e come agire per scongiurarla, agendo da subito. 

Introduzione

Il recente rapporto dell’Intergovernamental Panel on Climate Change – IPCC parla chiaro: l’uomo è responsabile dei cambiamenti climatici. Le ragioni principali del riscaldamento globale sono la deforestazione, l’uso del suolo e l’utilizzo di combustibili fossili tutte ragioni ascrivibili all’attività umana. Alla presentazione del rapporto, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, rilancia l’allarme globale sulle conseguenze dei cambiamenti climatici, sottolinea l’attuale impreparazione a fronteggiare le minacce alla biosfera e alla nostra civiltà e raccomanda alle autorità politiche di tutto il mondo di intervenire per cercare di evitare che gli effetti del riscaldamento globale diventino più devastanti: “Dobbiamo agire subito per limitare i danni, abbiamo i mezzi per farlo”. Uno degli ambienti più sensibili nel quale gli effetti dei cambiamenti climatici risultano più evidenti è proprio l’ambiente alpino.

L’elemento di partenza delle analisi che gli scienziati hanno fatto e stanno facendo è legato alle prospettive di crescita della popolazione mondiale e delle relative migliori condizioni di vita che si estenderanno plausibilmente a strati sempre più ampi di popolazione. La popolazione mondiale cresce, particolarmente nel sud del mondo nei paesi meno sviluppati industrialmente ed anche più poveri.

Le fonti di energia

Il consumo di energia in particolare è aumentato notevolmente negli ultimi decenni. Nel 1912 per accendere il pianeta era sufficiente 1 TW di potenza. Le previsioni, ottimistiche, per il 2030 sono di 23 TW e per il 2050 di 30 TW. Il quadro energetico a livello mondiale mostra chiaramente come la maggior parte delle fonti di energia siano fonti fossili, sia nei dati storici che nelle previsioni al 2025 ed al 2040. Da qui al 2040 il fabbisogno energetico mondiale aumenterà e tale incremento si registrerà principalmente nei paesi emergenti e nei paesi in via di sviluppo quale conseguenza dell’incremento demografico, dell’impulso economico, dell’aumento di industrializzazione, di urbanizzazione e quindi del benessere.

Purtroppo l’utilizzo dei combustibili fossili non sembra voler diminuire. Il petrolio ed il gas naturale continueranno, comunque, a essere la fonte energetica principale in tutto il mondo. Stime recenti, pur nella loro incertezza, indicano che l’impiego di petrolio, gas naturale tendenzialmente aumenteranno nel 2040, così come aumenteranno tutte le fonti ad eccezione del carbone. Sembra quindi che il mondo sia destinato ad utilizzare combustibili fossili nei prossimi anni e, anche se le energie alternative, escluse energia idroelettrica e biomassa, aumenteranno in maniera consistente, purtroppo nel 2040 rappresenteranno solo una modesta percentuale del quadro energetico mondiale.

Era il 2009 quando John Beddington, consulente scientifico del governo inglese, per primo parlò della ‘tempesta perfetta di eventi globali’ posizionando questo evento temporalmente nel 2030. Beddington disse che “Se non affrontiamo questo concatenarsi di cause ci possiamo aspettare grandi destabilizzazioni, con un aumento di disordini e potenziali notevoli ondate migratorie a livello internazionale, in fuga per evitare le carenze di cibo e di acqua”. Il punto di partenza del ragionamento di John Beddington è l’aumento della popolazione mondiale (previsti 8.3 miliardi nel 2030) che inevitabilmente si rifletterà in una maggiore richiesta di cibo (aumento del 50% rispetto all’attuale), ma non supportata da una adeguata produzione. Analogamente la richiesta di energia si prevede aumenterà, nel 2030, del 60% ancora con una produzione non adeguata, mentre la domanda globale di acqua potabile aumenterà del 30% (50% in paesi in via di sviluppo e 20% nei paesi sviluppati). A causa del cambiamento climatico, entro il 2030, quasi la metà della popolazione mondiale vivrà in aree ad alto stress idrico, tra cui l’Africa che conterà tra 75 e 250 milioni di persone sottoposte a tale pressione. Purtroppo negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno avuto un incredibile accelerazione e non reggono i ragionamenti dei negazionisti che ascrivono i cambiamenti climatici ad eventi naturali e ricorrenti negli anni.

Sir John Rex Beddington. Credit: Wikipedia

Ma John Beddington non è stato l’unico a segnalarci il problema. Ben prima di lui il Nobel per la chimica, Richard Smalley disse che nel mondo abbiamo a che fare con 4 emergenze a livello globale; la scarsità di acqua, di cibo, di energia e la tutela dall’ambiente. Ci disse anche che è impensabile affrontare e risolvere uno di questi problemi indipendentemente dagli altri in quanto essi sono fortemente correlati.

L’effetto serra

Utilizzare fonti fossili per produrre energia significa emettere in atmosfera CO2, principale gas serra. Le emissioni di CO2 aumentano di circa il 4% all’anno ed i maggiori responsabili di tali emissioni sono le fonti fossili di energia: combustibili liquidi e solidi per il 76.7%, quelli gassosi per 19.2%. Al terzo posto la fabbricazione del cemento con il 3.8%. Questa è purtroppo l’impronta dell’era industriale, il cosiddetto Antropocene.

Le emissioni di CO2 ed altri gas producono il cosiddetto effetto serra. L’atmosfera si comporta come i vetri di una serra: come questi vetri, i gas lasciano passare le radiazioni luminose solari che vengono parzialmente assorbite e parzialmente riflesse dalla terra. Questo calore viene di nuovo riflesso, dal vetro nel caso della serra, dall’anidride carbonica nel caso dell’atmosfera. In sostanza l’effetto serra altro non è che una coperta che ci protegge e ci riscalda. Un aumento della concentrazione di CO2 ha l’effetto di rendere la coperta più spessa, quindi non ci sorprende che sotto alla coperta faccia più caldo. L’effetto serra, il suo funzionamento, ma anche la sua precarietà ed il suo equilibrio sono noti sin dal 1896, quando Arrhenius lo definì. Che cosa accade se questa coperta diventa più spessa? La risposta la troviamo ancora una volta nei report dell’IPCC. Al momento attuale si sta cercando disperatamente di contenere l’aumento della temperatura del pianeta a 1.5 anziché a 2° C: quel mezzo grado in meno, se raggiunto, potrebbe comportare notevoli differenze in positivo: sulla salute, sulla biodiversità delle piante e degli animali, sulle barriere coralline tropicali, sugli oceani e sulle possibilità di adattamento.

Scioglimento dei ghiacciai, intensificazione del ciclo idrologico e sconvolgimento delle precipitazioni, aumento del livello del mare, modifica della produttività delle piante, sconvolgimento della distribuzione delle specie vegetali ed animali sono tutti fenomeni ascrivibili all’aumento di temperatura dell’atmosfera e quindi all’utilizzo di fonti fossili per la produzione di energia. Stiamo parlando di aumenti di temperatura che a prima vista potrebbero sembrare irrilevanti: non lo sono purtroppo.

I cambiamenti climatici

Le prime osservazioni dell’aumento della concentrazione dei gas serra sono state fatte da Charles David Keeling all’arcipelago delle Hawaii, all’osservatorio di Mauna Loa nel 1958. Ma analisi delle carote estratte dai ghiacci dell’Artide e dell’Antartide mostrano chiaramente come le concentrazioni dei gas serra sono rimaste per centinaia di migliaia di anni costanti e solo nell’ultimo periodo sono crescite notevolmente. Come dettagliatamente documentato dall’IPCC nel suo rapporto sullo stato dell’ambiente, esiste una diretta correlazione tra l’aumento della temperatura media del pianeta con l’aumento della concentrazione dei gas serra e quindi con le attività umane.

La temperatura della terra è aumentata di circa 0.85° negli ultimi 100 anni. Questo significa che per rimanere all’interno dei 2° C rimane un margine molto ridotto. Per contenere l’aumento a soli 1.5° è necessario che le emissioni siano ridotte del 45% prima del 2030 e che le rinnovabili forniscano 70-80% dell’energia entro il 2050.

Ghiacciaio dell’Argentière. Foto: Luigi Ranzani

Anche la temperatura degli oceani sta crescendo e non deve trarre in inganno il fatto che l’aumento sia contenuto: la terra ha un equilibrio climatico molto delicato e garantito dalle enormi masse oceaniche, ma basta un piccolo cambiamento di temperatura di queste masse fluide per generare effetti devastanti. Le previsioni al 2100 che nello scenario peggiore prevede un aumento della temperatura degli oceani di 1 grado sarebbe devastante ed assolutamente irreversibile, a causa della capacità termica degli oceani nell’immagazzinare una quantità enorme di calore e della loro grande inerzia nel rilasciarlo.

Ghiaccio di Verra e Castore. Foto: Luigi Ranzani

L’intensificazione del ciclo idrologico è una delle conseguenze del riscaldamento globale. Sono sotto gli occhi di tutti alcuni effetti evidenti: piove meno frequentemente ma più intensamente ed aumentano i periodi di siccità e di ondate di calore.

Uno degli effetti più importanti e globalmente presenti sul pianeta sarà l’innalzamento del livello del mare, dovuto ai cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento globale. Intere isole spariranno e zone costiere subiranno allagamenti sempre più frequenti a causa dell’innalzamento del livello del mare combinato con il fenomeno delle maree. Nel 2100 saranno sott’acqua interi tratti di costa italiana. Secondo un recente studio dell’Enea, 5.500 km quadrati saranno sommersi a causa dell’innalzamento del livello del mare. A rischio il Nord Adriatico, il Golfo di Taranto, il Golfo di Oristano e quello di Cagliari.

A causa della siccità, desertificazione e inondazioni, le regioni ad alte latitudini necessariamente dovranno diventare centri chiave per la produzione alimentare. Altre nazioni più tradizionalmente legate all’allevamento dovranno spostare la propria produzione alimentare e sviluppare avanzati pesticidi o coltivare specie più ardite per incrementare le rese.

La situazione in montagna

La montagna è un ambiente debole, in cui il rispetto degli equilibri climatici è fondamentale. Le montagne sono tanto IMPORTANTI quanto VULNERABILI. Le regioni fredde sono le più sensibili perché rispondono in maniera amplificata all’aumento di temperatura: In montagna la temperatura è aumentata con un tasso circa doppio rispetto alla media su tutto il globo. Gli indicatori naturali dello stato di salute del pianeta sono evidenti: ritiro dei ghiacciai, degradazione del permafrost, diminuzione della durata, estensione e spessore della neve al suolo, biodiversità in declino, cambiamenti negli ecosistemi (spostamenti verso l’alto di flora e fauna, sfasamenti ecosistemi).

In montagna la situazione è più critica che in pianura. Il riscaldamento globale, oltre alla fusione dei ghiacci terrestri ha come conseguenza la diminuzione dell’albedo e l’aumento della radiazione solare assorbita (i ghiacci riflettono la radiazione solare, il terreno la assorbe). Come conseguenza il suolo si riscalda e questo amplifica ancora il riscaldamento. Ma ci sono anche altri fenomeni che amplificano il fenomeno in montagna quali la presenza di vapore acqueo, il ruolo delle nubi, la presenza di aerosol nella bassa troposfera montana e la sua deposizione sulle superfici innevate e ghiacciate.

I ghiacciai si riducono: la perdita di massa dei ghiacciai è un fenomeno generale nelle Alpi ma non solo: nella Ande, in Asia, in Alaska, in Patagonia avviene lo stesso ed il fenomeno è irreversibile. Sul ghiacciaio Athabasca, uno delle principali lingue di ghiaccio del ghiacciaio Columbia, delle montagne rocciose canadesi qualcuno ho già messo delle targhe ricordo. Il ghiacciaio si sta riducendo ad una velocità di circa 5 metri all’anno. E’ arretrato di oltre 1.5 chilometri ed ha perso oltre la metà del suo volume. La riduzione di massa dei ghiacciai avviene a tutte le latitudini e longitudini: avviene vicino all’equatore ed ai poli.

Un fenomeno collegato alla riduzione dei ghiacci in montagna, ma non per questo meno devastante è la fusione delle calotte ghiacciate in Artide ed Antartide. Fenomeno che porta ad un sensibile aumento del livello del mare, soprattutto per quel ghiaccio che giace su terreno come ad esempio in Groenlandia ed Alaska. Questo aggravamento è dovuto al fatto che lo scioglimento di una massa di ghiaccio galleggiante compensa l’innalzamento del livello del mare a causa dal maggiore afflusso di acqua con una riduzione del volume del ghiaccio immerso nel mare.

Ma lo scioglimento del ghiaccio che giace su terreno ha anche come effetto lo scongelamento del permafrost che ricopre una buona parte delle terre artiche. Il permafrost è ghiaccio intrappolato nel terreno che si è mantenuto tale a causa della rigida temperatura esterna. Questo ghiaccio, quando fonde, libera non solo CO2 ma anche metano, gas che, se liberato in atmosfera, contribuisce all’aumento dell’effetto serra 25 volte di più rispetto alla CO2, e materiale organico che è rimasto intrappolato in esso per migliaia di anni. Lo scongelamento del permafrost avviene anche in roccia ed è il maggiore responsabile di crolli, distacchi di roccia anche di dimensioni notevoli. In figura la distribuzione potenziale del permafrost sul Cervino.

A proposito di equilibri delicate in montagna un altro elemento fondamentale è la quantità di acqua presente in ambiente: se ce n’è troppo poca, per carenza di risorse idriche, gli effetti sono siccità, carestie, rischio incendi. Se ne arriva troppa in poco tempo a causa di precipitazioni intense porta ad alluvioni con rischi per instabilità dei versanti, frane, ed altri rischi geo-idrologici.

Un ulteriore effetto del riscaldamento globale è la perdita di biodiversità. La riduzione dei ghiacciai e dei periodi di innevamento sta minacciando molte specie alpine sulle montagne di tutto il mondo. Si tratta di popolazioni animali e vegetali spesso piccole e isolate, specie altamente specializzate a vivere in condizioni estreme di bassa temperatura, con limitata capacità di dispersione, poco adattate ai repentini cambiamenti che il clima sta subendo, e facilmente soggette ad estinzione.

La vita delle piante ad alta quota è limitata da vari fattori, ma due di questi sono i più importanti: la temperatura e la concentrazione di CO2. La temperatura limita molti processi fisiologici, primo fra tutti le divisioni cellulari necessarie per l’accrescimento, la riproduzione ecc… La CO2 è necessaria per la fotosintesi, e dal punto di vista delle piante i valori attuali in atmosfera sono relativamente bassi. In alta quota, la diminuzione della pressione parziale limita la disponibilità di CO2 per le piante (esattamente come limita per noi la disponibilità di O2). Quindi, l’attuale aumento di CO2 atmosferica e il progressivo aumento di temperatura stanno inevitabilmente producendo vari effetti sulla vegetazione delle ‘alte quote’.

Ghiacciao del Garstele. Foto: Luigi Ranzani

Un primo effetto è messo in evidenza da un’analisi delle variazioni di copertura forestale e limite degli alberi dal 1909 al 2009 nell’area di Davos (Svizzera), periodo in cui la temperatura media regionale nell’area è aumentata di 1.4 °C. Oltre a questo dato climatico, è cambiato radicalmente l’uso dei territori di alta quota, con un progressivo abbandono dei pascoli. Come conseguenza la copertura forestale è aumentata di circa il 60%, e il limite degli alberi si è innalzato mediamente di 83 metri. Il massimo aumento del limite della vegetazione arborea è stato osservato su versanti esposti a NW (+151 m), N (+103 m) e W (+87 m), cioè proprio le zone dove le basse temperature limitano l’insediamento delle giovani piante arboree, e ne rallentano poi l’accrescimento. L’aumento di temperatura ha giocato un ruolo importante nel fenomeno di innalzamento della linea degli alberi.

A questo andamento di lungo termine si possono sovrapporre eventi anomali (es. tempesta Vaia, estati molto aride del 2003, 2012 ecc…) che hanno prodotto effetti immediati sulle foreste delle Alpi, con abbattimento delle monocolture di abete o disseccamento di molti individui di specie poco resistenti alla siccità.

Un secondo effetto si riferisce alla vegetazione alpino-nivale, quindi al di sopra del limite degli alberi. Tra il 1994 e il 2014 sono state eseguiti rilievi della vegetazione in oltre 1000 stazioni permanenti (ciascuna di 1×1 m2) a diverse quote (da 2911 m a 3497 m) ed esposizioni (da SW a SE) del Monte Schrankogel (3497 m, Stubaier Alps, Tyrol, Austria). Nel periodo il numero totale di specie è aumentato (da 51 a 61), come conseguenza della colonizzazione di specie in arrivo da quote più basse, e caratteristiche di habitat più caldi e tendenzialmente più aridi. A questa colonizzazione si è affiancata la progressiva scomparsa delle specie più tipicamente alpino-nivali, con una velocità di estinzione locale aumentata nel corso degli ultimi 10 anni. Ma a dispetto dell’aumento del numero di specie, la copertura della vegetazione è mediamente diminuita, indicando che le specie che stanno colonizzando le alte quote e sostituendo le specie alpinonivali non riescono a garantire la stessa copertura delle specie sostituite.

In parole semplici, anche se l’aumento di temperatura sta aumentando il numero di specie ad alta quota, a questo non corrisponde un ‘inverdimento’ della regione alpino-nivale, ma semmai una perdita di copertura vegetale.

Anche nelle regioni Himalaiana, in particolare nella regione del Monte Everest si possono notare gli stessi effetti. Misurazioni e confronti da dati satellitari ottenuti dagli archivi della NASA dimostrano un notevole aumento della vegetazione tra i 4150 ed i 6000 metri di quota, con un picco massimo tra i 5000 ed i 5500 metri. Considerata la notevole estensione di queste aree, sempre più scoperte dalla neve e dal ghiaccio, è prevedibile un forte impatto sul ciclo dell’acqua, che sarebbe devastante per l’approvvigionamento idrico di oltre 1.4 miliardi di persone.

Conclusioni

Negli anni il tema del riscaldamento globale è stato sistematicamente sottovalutato e mal gestito Inizialmente la posizione era ‘non è reale, non esiste un riscaldamento globale’. Più di recente la posizione è cambiata in ‘d’accordo è reale, ma non è causato dagli esseri umani, è un fenomeno naturale’.  Adesso siamo purtroppo molto vicini alla catastrofe che sarà, tardivamente, preceduta da una presa di coscienza collettiva di consapevolezza del fenomeno. Speriamo che non sia troppo tardi.

Ernest Hemingway ci fornisce un grande insegnamento: “Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno, … ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi. E’ stato così tante volte.”

Cosa fare? Alla luce del filo rosso che collega la più lunga recessione economica della storia contemporanea e la “tempesta perfetta” che ci attende nel 2030 è urgente investire oggi in infrastrutture e tecnologie che possano evitare domani danni incalcolabili. In pratica, occorre una massiccia espansione delle energie rinnovabili, e una convinta azione educativa verso comportamenti sostenibili. Il tempo per agire è adesso, ed il compito di tutti noi amanti della montagna è creare consapevolezza su questo tema: specie nelle giovani generazioni.