Eolico sì, ma non a tutti i costi: la montagna ha già pagato troppo
Serve una pianificazione nazionale elaborata da tecnici competenti, che determini quanto possiamo produrre, dove gli impianti si possono realizzare e dove no. Di Fabio Valentini.
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Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: l’energia eolica è naturale e pulita, su questo siamo tutti d’accordo, ha molte caratteristiche positive e rappresenta una valida alternativa alle fonti fossili se non parliamo di produttività. Perché uno dei problemi è questo: quanto eolico ci serve? Iniziamo con i numeri partendo dalla storia.
Nel 1750 c’erano da 6.000 a 8.000 mulini a vento in Olanda, nel 1850 ce n’erano 9.000. Nel Regno Unito c’erano da 5.000 a 10.000 mulini a vento nel 1820. La Francia aveva 8.700 mulini nel 1847. La Germania aveva 18.242 mulini a vento nel 1895 e la Finlandia aveva 20.000 mulini a vento nel 1900. Anche Portogallo, Spagna, diverse isole del Mediterraneo e molti paesi dell’Europa orientale e paesi scandinavi avevano numerosi mulini a vento. L’importo totale dei mulini a vento in Europa è stato stimato a circa 200.000 al suo apice. E in Italia?
Antichi mulini a vento a sei pale, conservati o restaurati, sono ancora utilizzati nelle saline di Trapani per la macinazione del sale o per il pompaggio dell’acqua marina da una vasca all’altra della salina. Toscana e Sicilia sono state le più propense allo sfruttamento del vento e in Toscana solo due zone hanno visto la presenza di qualche mulino a vento, senza peraltro che ne sia nata una tradizione o una cultura: la costa tirrenica e la val di Sieve. Gli autori del libro “Mulini a vento in Toscana. ‘Machine artificiose’ poco diffuse in Italia” sono giunti alla conclusione che “manca il vento, ossia non c’è con quella forza, quella misura, quella continuità che sono necessarie per avere una fonte energetica sulla quale contare al momento del bisogno”.
Se i nostri antenati ne erano già a conoscenza, oggi basta consultare un qualsiasi atlante eolico interattivo per rendersi conto che a livello europeo l’Italia è una delle aree più sfavorite per lo sfruttamento dell’energia del vento: questo perché in generale i luoghi migliori e più adatti per installare un impianto eolico sono quelli aperti e ampi, senza catene montuose o altri ostacoli nelle vicinanze. Non per niente in Europa il Paese a più alta generazione eolica è la Danimarca, dove l’elevazione montuosa più alta non raggiunge i 200 m di quota; il nostro territorio nazionale è invece costituito per il 35,2% da montagne e per il 41,6 % da colline (dati Istat). Sempre guardando l’atlante eolico si evidenzia che le zone più adatte per l’eolico in Italia si trovano sulla fascia costiera meridionale che va dall’Abruzzo alla Puglia fino alla Calabria, le isole (Sicilia, Sardegna, Pantelleria) e l’area al largo della Toscana, oltre ad alcune aree interne del centrosud.
Se le Alpi sono risparmiate dalla rincorsa all’eolico, non solo per mancanza di vento ma anche per le complicazioni realizzative legate all’orografia del territorio, purtroppo non è così per l’Appennino; progetti su progetti sono stati presentati lungo tutta la dorsale, a macchia di leopardo, senza alcuna forma di pianificazione territoriale complessiva. Le montagne si chiedono: se il vento è più sfruttabile lungo le coste, perché accanirsi qui? Probabilmente perché sono aree meno abitate e quindi con ostacoli sociali inferiori, più povere e quindi più suscettibili alle offerte economiche anche modeste.
Si dice che la realizzazione di un impianto eolico è a basso impatto ambientale, qualche ambientalista illuminato ha perfino definito le pale eoliche come “le nuove cattedrali”. Sarà vero? Occorre tener presente che oltre ai lavori di scavo per la realizzazione degli impianti (opere civili) si rendono indispensabili altri interventi (opere elettriche, trasporto) che incidono per circa il 40% sul costo complessivo dell’opera. Le pale potrebbero anche essere trasportate sul luogo in elicottero, ma le torri devono essere trasportate con i camion: per questo occorre una strada che sia sufficientemente larga, e che abbia raggi di curvatura adatti a garantire le manovre di questi automezzi per i trasporti eccezionali. Se questa strada esiste – e sui crinali spesso non esiste – la si deve comunque adeguare; chi conosce l’Appennino sa bene come le caratteristiche geomorfologiche dei terreni, tristemente collegate al dissesto idrogeologico, rendano complicate e pericolose queste pesanti infrastrutturazioni. Inoltre l’energia prodotta deve essere convogliata e trasportata: per fare questo si deve scegliere tra la soluzione dei cavi aerei e quella dei cavi interrati. Se si scelgono i cavi aerei occorrerà realizzare un elettrodotto, e si dovrà disboscare la zona di passaggio dei cavi ad alta tensione; se si interrano occorrerà comunque liberare il terreno adibito a scavo.
Ciò che noi auspichiamo in fondo non è impossibile: una pianificazione nazionale elaborata da tecnici competenti, che nell’interesse generale e a ragion veduta ci dica quanto possiamo produrre, dove gli impianti si possono realizzare e dove no, dove conviene e dove non conviene. Quella del vento è un’energia discontinua e intermittente, la sua produzione purtroppo non è programmabile; sicuramente la tecnologia e la ricerca stanno facendo e faranno passi in avanti, vedi il caso dell’eolico d’alta quota, e magari si punterà maggiormente sull’off-shore e sulla produzione fotovoltaica che – anche a causa dei cambiamenti climatici – offre in prospettiva una maggiore continuità di rendimento nel nostro Paese. Su questo lasciamo la parola agli esperti, noi siamo favorevoli alle energie rinnovabili ma non a qualunque costo: resteremo dalla parte della montagna che in termini di idroelettrico ha già dato e sta dando tanto, altro ancora potrà forse dare ma deve essere difesa da un saccheggio privo di valide giustificazioni, tutelando la propria stessa esistenza e identità.