Gli impatti ambientali dell’industria dello sci
Quali sono le motivazioni della lotta ambientalista contro il proliferare dell’industria dello sci e dell’industria turistica in quota. Di Luigi Casanova
Proverò a spiegare le motivazioni della radicalità della lotta ambientalista contro il proliferare dell’industria dello sci e dell’industria turistica in quota. Dove si interviene in un territorio ancora libero il destino è segnato: Si inizia con una strada forestale? con una nuova pista? con un laghetto turistico? con l’ampliamento di una baita – ristorante? con una malga trasformata in agriturismo? L’intervento in quanto tale potrebbe sembrare riduttivo. Stiamo pur certi che ovunque, una volta potenziata una qualsiasi struttura, o una volta violata un’area libera risulterà impossibile impedire il proliferare di altre opere sul territorio. Lo dimostrano i fatti, lo dimostra la storia delle Alpi. E’ venuto il momento di impedire, ovunque, l’ulteriore consumo di suolo. Anche di un solo metro quadrato. Anche le prossime generazioni hanno il diritto di poter ritrovare spazi di serenità, di silenzio, di pace ed equilibrio con la natura. Noi abbiamo il dovere di garantire questo diritto. Ai ragazzi d’oggi come a quelli che nasceranno.
I luoghi comuni sull’industria dello sci
Chi scrive non è contrario all’industria dello sci: molte valli delle montagne italiane hanno potuto mantenere una certa vivibilità solo grazie allo sviluppo dello sci alpino. Nemmeno è contrario all’utilizzo degli impianti come mobilità alternativa all’auto, ma solo in situazioni specifiche, dove risulta efficace l’alternativa, cioè in situazioni molto rare. Non esiste quindi una politica ambientale luddista contro gli impiantisti. Ma ormai da tempo i gestori di questa industria sono diventati invasivi, arroganti, impositivi. Pur di affermare i loro desiderata sono disposti a tutto, anche ad invadere le aree naturalistiche e paesaggistiche più delicate delle montagne. Quanto si sta verificando sulle montagne italiane, specie sulle Alpi, ha assunto i contorni di un vero e proprio assalto, che nulla risparmia. A questo attacco è necessario rispondere.
Molta gente, anche abitanti delle montagne ripetono questo ritornello: “- ma cosa vuoi che sia una nuova cabinovia e accanto una pista da sci: quando non servirà più la cabinovia sarà rimossa e in quella traccia ricresceranno le piante, come del resto sulla pista -”. E poi ancora, dicono gli impiantisti: “- l’industria dello sci occupa solo lo 0,14% del territorio alpino –“.
Il ritornello, ossessivo, cieco, un falso, è ormai diffuso: amministratori pubblici, impiantisti, albergatori, perfino agricoltori e quanti in montagna non vivono di economia turistica lo sostengono. La conclusione che tutte queste persone traggono è altrettanto comune: “ – e poi sarà l’ultimo passaggio, non ci sarà più alcun potenziamento dell’area sciabile, non vi saranno più collegamenti e nuove piste -“
A fine secolo scorso, 1998 – 2001, mentre in Trentino si sviluppava la grande lotta (l’ultima) contro la conquista da parte degli impiantisti di Val Jumela (Pozza di Fassa) queste frasi erano vangelo, un assoluto, specie l’ultima riportata. Come lo sono state quando, ripetendole ossessivamente, un decennio dopo, nella sede del parco naturale dell’Adamello – Brenta l’allora presidente della Provincia Lorenzo Dellai (una provocazione inaudita, ben studiata) impose il collegamento Pinzolo – Campiglio sbancando la Val Brenta. Ancora un decennio e Campiglio voleva ampliare il suo già devastante demanio sciabile verso i laghi di Serodoli. Nel frattempo veniva invasa la Val della Mite in Adamello e in Paganella si distruggevano cavità storiche (il Bus del Giàz). Oggi si vogliono violare le Cime Bianche in Piemonte – Val d’Aosta, imporre la nuova area dell’Alpe di Devero, abbiamo assistito alla invadenza della nuova cabinovia, (pubblica Regione Valle d’Aosta) di Punta Helbronner con la Skywai. Ancora oggi si pretendono il collegamento Sesto Pusteria – Comelico (26 milioni di euro pubblici) per arrivare poi in Austria, il nuovo impianto Larici – Val Formica ad Asiago, le piste di Piancavallo nella foresta del Cansiglio. In Appennino si vorrebbe ampliare l’area sciabile al Corno alle Scale, o quella del Terminillo esposta a sud, o sul Monte Acuto nel gruppo del Catria, l’inconcepibile collegamento previsto da Ovindoli con parallela richiesta di riduzione del parco regionale del Sirente – Velino. Nel nome delle Olimpiadi invernali del 2026 si propone la profanazione del tessuto geologico e paesaggistico più intimo delle Dolomiti con i collegamenti Cortina – passo Falzarego – Arabba – Marmolada (violando i terreni percorsi dal sangue dei soldati italiani e austriaci nella Grande Guerra, decine di migliaia di morti) e l’altra oscenità Cortina – Monte Civetta.
Questo elenco è incompleto, ma dimostra come l’industria dello sci, dalle Dolomiti alle Alpi Occidentali, dall’Appennino settentrionale fino nel cuore dei parchi dell’Italia centrale, non sia mai sazia, di territorio, di natura intonsa e di soldi pubblici ai quali attingere per poter sostenere finanziariamente queste vere e proprie speculazioni. E per socializzare i debiti che si accumulano.
L’impegno che mi sono assunto è quello di smontare le semplificazioni mediatiche, culturali e sociali diffuse dagli impiantisti e i loro, tanti interessati sostenitori. Una delle loro frasi più ricorrenti -“Sarà l’ultimo sacrificio”- è stata demolita. Con pochi passaggi abbiamo dimostrato la presenza di una imprenditoria insaziabile, già definita come “predatrice” dei beni comuni.
Lo sci occupa lo 0,14% della superficie montana.
Passiamo ad una seconda affermazione: quella che sostiene che un impianto, o una nuova pista, rappresentino un danno marginale, facilmente recuperabile dalla forza della natura. E che i demani sciabili occupino uno spazio minimo dell’intera superficie naturale della montagna italiana.
Partiamo dal dato statistico, reale. I numeri vanno sempre letti all’interno di una complessità, specie quando si tratta di violare ambienti naturali o beni comuni (distruggo piazza San Marco a Venezia? Nessun problema direbbero gli impiantisti, rimane intatta ancora una laguna immensa…). Ritornando a noi dal calcolo dell’intera superficie alpina si deve togliere il territorio non praticabile dallo sci: gli spazi definiti improduttivi (cioè né pascolo, né bosco), gli ambiti rocciosi, le verticalità delle montagne. Stiamo parlando del 70% e più dell’intero territorio alpino. Territorio difficilmente utilizzabile per la sopravvivenza anche dalla fauna selvatica, a parte stambecchi, gracchi alpini, aquile e pernici. In questi ambiti non è comunque possibile sviluppare l’industria dello sci.
Inoltre, laddove si scia l’utente ormai non utilizza più solo la pista: ricerca il fuoripista. Bisogna uscire in bosco, bisogna intaccare neve non tracciata, non segnata per poter poi raccontare, socializzare, anche attraverso video, la straordinaria avventura. Ovunque ci si rechi a sciare si prenderà atto che i confini dell’area sciabile non corrispondono a quelli definiti dalla pianificazione e dai progetti, ma sono dilatati: il disturbo viene portato sicuramente nei due lati delle piste oltre i cento metri, generalmente molto di più. Quindi quella percentuale diffusa dagli impiantisti di 0,14% del territorio occupato dalla loro industria già è fuorviante perché trascura la gran parte del territorio non idoneo, impraticabile. E poi si dimostra nei fatti come la superficie intaccata vada moltiplicata per tre, quattro volte. Proviamo a pensare quanto disturbo arrechi alla fauna selvatica una qualunque pista da sci; proviamo a pensare (facilmente documentabile il dato), ai danni che vengono inferti alla vegetazione di alta quota, alla rinnovazione naturale già in sofferenza per molti aspetti naturali (quota, aridità dei suoli, valanghe, cambiamenti climatici in atto). Lo sci alpino, laddove si impone, dilata i suoi effetti su superfici ben più ampie di quelle ufficiali definite in cartografia o in progetto e quindi nelle statistiche.
I servizi diffusi in quota
Ora proviamo a smontare la possibilità e le potenzialità di recupero della natura.
- La natura recupera. Laddove si costruisce un nuovo impianto e si devono tagliare importanti fasce boschive il taglio delle piante non segue alcuna normativa selvicolturale. Dove si deve passare si taglia, anche se si sacrificano associazioni forestali storiche come il bosco vetusto, il bosco a totale naturalità, il bosco di protezione, singole piante di grande valore o naturalistico o emotivo – sentimentale. In tante situazioni si sono sacrificate piante secolari, o che offrivano particolari suggestioni per le loro specificità, o perché pregiate (pini cirmoli secolari).
- Le piste abbandonate ritornano bosco. …”Inoltre offrono superfici a pascolo per gli alpeggi”. Ed ancora, “ non sono impattanti in quanto rinverdite”. Frasi ricorrenti.
E’ vero che le piste abbandonate con il tempo ritornano bosco. Ma in assenza di naturalità, come conseguenza di un pesante intervento umano e successivo abbandono: si è violata l’unitarietà e la compattezza forestale di un versante, sono stati costruiti corridoi che facilitano la penetrazione dei venti, sono state imposte modifiche microclimatiche locali a volte uniche e irrecuperabili, i margini così ritagliati spesso hanno favorito la diffusione di parassiti, tipo gli scolitidi e non solo, si sono invase aree umide e torbiere non rilevate, i terreni sono stati sconvolti dai lavori eseguiti.
La superficie per il pascolo è delicata, è superficie che l’uomo ha strappato al bosco, che è stata lavorata e adattata a quell’utilizzo specifico. Mentre le sementi utilizzate per i rinverdimenti generalmente non sono autoctone, il terreno smosso dai grandi macchinari (anche con continuità annuale) non permette l’attecchimento di vegetazione erbacea locale. I fenomeni erosivi su pendenze prive di copertura vegetale sono importanti, con erba seminata artificialmente, solo con un minimo sovraccarico di pascolo si danneggia la cotica erbosa che faticosamente si è insediata. Non è quindi vero che siano superfici idonee al pascolo. Sono solo superfici rinverdite. La lettura di un paesaggio è soggettiva: sicuramente l’effetto cromatico verde di un inerbimento di una pista non è elemento sufficiente per definire un paesaggio bello o di qualità. Anzi, anche un osservatore disattento nota il prevalere degli aspetti negativi dovuti alle profonde incisioni forestali che le piste comportano.
- La logistica. Nei primi tre decenni dell’industria di massa dello sci gli impiantisti si accontentavano di avere come base di ristoro o un piccolo bar in quota o a valle. In questi ultimi decenni, con una accelerazione spaventosa negli ultimi anni, non ci si accontenta più del bar. In quota si sono imposti ristoranti di eccellenza, molte baite sono state trasformate in bar con terrazze sempre più ampie. Sono locali, bar, garnì, ristoranti che periodicamente vengono ampliati, anche con deroghe urbanistiche che raggiungono il 100% della volumetria originaria. Questi locali vengono ormai utilizzati anche per cene serali. Vengono così organizzati trasporti in motoslitta in inverno, viabilità che viene poi aperta al transito privato in estate. Interi versanti, fino alle quote più elevate, vengono così fortemente antropizzati, a tutte le ore. Alla fauna selvatica si impone un inquinamento acustico, luminoso e un disturbo antropico continuo. Nel periodo invernale questi disturbi risultano anche essere drammatici nelle conseguenze in quanto si costringono i selvatici ad abbandonare le zone migliori di pascolo, quelle storiche, di approvvigionamento alimentare, di quiete e trasferirsi in zone non idonee, o sotto il profilo alimentare o quello climatico, o dei rischi da valanghe. A tutto questo si somma l’inquinamento luminoso portato fino alle alte quote. Viene poi sottostimato l’effetto (ed i costi di gestione) dell’inquinamento dovuto alla gestione dei necessari servizi, come gli scarichi fognari. Nelle province autonome di Trento e Bolzano si è arrivati ad imporre ai rifugi i collettori, dalle alte quote fino al fondovalle, anche scavando rocce e modificando la morfologia dei terreni.
- L’inquinamento da rumore. Strettamente collegato a quanto sopra evidenziato è il tema dell’inquinamento da rumore. Musica sempre più assordante, sparata a volume incredibile, viene diffusa non solo alle partenze e arrivi degli impianti, ma lungo tutta la struttura di salita e ora anche lungo le piste. Anche i cannoni “sparaneve” sono rumorosi. Nelle ore notturne disturbano la fauna selvatica, vi sono zone dove le pernici hanno convissuto con gli sciatori fino ai primi anni ’90: dall’arrivo dei cannoni per neve artificiale questa fauna è scomparsa. Senza trascurare l’impatto che i mezzi battipista hanno su tutta la fauna selvatica visto che sono operativi nel periodo di quiete, durante la notte.
- Altri danni alla fauna selvatica. In più passaggi abbiamo già documentato quali siano i danni che l’industria dello sci riporta sulla fauna selvatica. Va messo in rilievo la quantità di tetraonidi che muoiono causa gli impatti sulle funi (galli cedroni e specialmente forcelli, ma anche i rapaci, tutte specie tutelate dalla direttiva europea Habitat). Gli impiantisti impediscono perfino ai loro dipendenti di diffondere i dati di questa diffusa moria di fauna pregiata. Più volte si è suggerito agli impiantisti di costruire impianti con dei visori specifici per questa fauna: le risposte ottenute, perfino all’interno delle aree protette, sono sempre state negative e vi è il rifiuto di dare informazioni nel merito anche agli enti pubblici.
- La montagna trasformata in luna park. Un po’ ovunque, con lo scopo di aumentare i passaggi, gli impianti sono stati attrezzati per il trasporto estivo delle bike, siano queste elettriche o meno. Un fenomeno sempre più diffuso l’uso della bicicletta in montagna. Infatti le alte quote si raggiungono senza fatica e diversi di questi “atleti” si lanciano in discese sempre più ardite che violano sentieri, pascoli e boschi. Non ci sono controlli o autodisciplina. Ormai ogni area viene dotata di piste di downhill, oppure di discese “mozzafiato” con bob su strutture portanti. Si sono costruiti fasulli parchi monotematici: fauna selvatica con sagome in plastica, parchi dei dinosauri, strutture acrobatiche imposte alle alberature, skyline, finti parchi acquatici dotati di palme in plastica, ponti tibetani (ovviamente in acciaio e cemento), vie ferrate che distruggono storiche vie normali o “pompierate”, scalinate di ferraglia sulle pareti: la fantasia non ha posto limiti a questa trasformazione circense della montagna. L’ospite deve ritrovarsi, sentirsi a suo agio, come accadrebbe in un qualunque parco pubblico della sua città, deve trovare servizi e offerte sempre più complesse, diversificate. Tutto questo insieme comporta un consumo di suolo (e di paesaggio) in zone ad alta fragilità ambientale e idrogeologica. Oltre alla cancellazione identitaria della montagna, della sua specificità, della cultura del limite.
- I grandi eventi. Non soddisfatti di tanta offerta l’industria della neve o degli impiantisti richiede sempre più spesso l’imposizione in quota di grandi eventi discutibili: concerti di massa (Plan de Corones o ghiacciaio del Senales, la Presena), raduni motoristici come quelli delle jepp nei parchi naturali (San Martino di Castrozza), di quad e di motoslitte, auto trasportate sulle vette con gli elicotteri, trasporti di persone (anche biciclette, sciatori) elituristici anche nei rifugi. Abbiamo potuto documentare come le amministrazioni locali non siano in grado di opporre resistenza a questa devastante volgarizzazione dell’uso della montagna, molte volte ne sono complici. E poi perfino incapaci di imporre il ripristino dei danni inferti al territorio.
- Offerte culturali. In alcune situazioni accanto agli impianti di sci sono stati creati dei veri e propri centri museali, strutture che nulla hanno a che vedere con i luoghi che le ospitano: Plan de Corones, Solda che altri si stanno progettando in questi giorni. Ma per diffondere “valorizzazione” si è saliti fin su montagne leggere, come il monte Rite, luoghi di riflessioni e di aperture paesaggistiche uniche.
- I Grandi eventi sportivi internazionali. Nel nostro paese avevamo già provato cosa lasciavano sul territorio i grandi appuntamenti sportivi internazionali: debiti e strutture non più utilizzabili perché troppo costose da gestire. Bormio 2005 ne è stato il primo esempio, seguito l’anno successivo dalle Olimpiadi di Torino, dove si è addirittura giunti a dover smantellare parte degli impianti costruiti in quanto le amministrazioni locali erano, e sono, incapaci di gestirli nel lungo periodo, anche e non solo perché tale gestione è eccessivamente costosa. I prossimi mondiali di sci alpino di Cortina 2021 hanno già lasciato intravvedere quali cicatrici sono state apportate ai versanti delle montagne cortinesi: enormi e diffusi piazzali, raddoppio della viabilità in quota, disboscamento, ulteriore innevamento artificiale, opere di sicurezza paravalanghe, manomissione della morfologia dei versanti e in quota anche con l’uso di esplosivo. Oltre ai danni reali, non più ripristinabili, questi grandi eventi diventano l’occasione per proporre speculazioni inaudite: pensiamo ai caroselli Cortina – Arabba e Cortina – Monte Civetta. Ai quali necessariamente seguiranno i collegamenti verso la Marmolada e verso il Monte Pelmo. Un passo alla volta e si arriva ovunque. La politica dello spezzatino è oltremodo utile per evitare o diminuire l’impatto complessivo delle Valutazioni di incidenza o ambientali. Quanto sta accadendo attorno ai due appuntamenti internazionali italiani dimostra la correttezza della analisi di CIPRA Internazionale: le Alpi non possono più ospitare simili impattanti eventi.
- Bacini di innevamento. Le piste hanno sete di acqua (neve). I demani sciabili per risultare economicamente sostenibili devono rimanere attivi almeno 120 giornate in una stagione. Molti, troppi, lavorano sulla media inferiore ai 90 giorni: il destino è il fallimento. Le 120 giornate sono un obiettivo ormai da sogno anche per aree definite mature, causa i cambiamenti climatici in atto, quindi temperature elevate anche in alta quota, causa precipitazioni nevose sempre più scarse, causa una attività sciistica di massa e veloce che consuma giornalmente la neve caduta naturalmente o prodotta. Come mai accadeva nel passato. Eppure fare neve costa: gestire i bacini, i consumi elettrici necessari, il reperimento dell’acqua anche quando recuperata da fiumi o torrenti, o da dighe costruite per la produzione di energia elettrica, il battere le piste e spostare ingenti masse di neve, il personale altamente specializzato comporta costi sempre più impegnativi da sostenere. Produrre neve ha un costo variabile fra i 2 ed i 4 euro il metro cubo. I costi tanto variabili dipendono dalla qualità dell’impiantistica e dalle condizioni climatiche locali o stagionali, temperature, umidità dell’aria e altre specifiche situazioni locali. Preso atto che i giorni di reale freddo, anche in quota, sono in costante diminuzione, bisogna essere pronti, nel più breve tempo possibile, ad utilizzare quelle giornate in modo intensivo: in 36 – 72 ore l’intero demanio sciabile deve risultare innevato. Una sola notte di scirocco, o un’escursione termica protratta nel tempo, fenomeni sempre più frequenti, inibiscono il successo. Ecco allora diffondersi i bacini di raccolta acque, fatti passare come servizi antincendio, strutture turistiche di alleggerimento paesaggistico in quota, ben inseriti in paesaggi artificializzati. Questi nobili obiettivi sono utilizzati per attingere a fondi pubblici: nelle province autonome arrivano a coprire fino l’80% della spesa. Se un tempo erano bacini con capacità che si aggirava sui 30 – 40.000 metri cubi, oggi devono superare i 100 mila metri cubi di disponibilità. A volte vengono addirittura interrati, proviamo immaginare quali scavi e danni irreversibili comportino. Nel solo Trentino nel 2017 erano diffusi 29 bacini, quasi il 10% dei laghi naturali di tutta la Provincia che sono 309. Ora si sono aggiunti quello imponente di Mavignola a Campiglio, 170.000 mc, quello su Monte Feudo (Predazzo – 100.000 mc.): la sua costruzione ha comportato la distruzione di una rara morena glaciale in zona vulcanica e a ridosso dello famoso e primo sentiero geologico delle Dolomiti. E’ in costruzione il nuovo bacino di Pian dei Schiavanei sotto passo Pordoi, Trentino, 120.000 mc. con una muraglia alta 12 metri, mentre dal versante opposto del passo, nel bellunese, si è terminato un nuovo bacino di oltre 70.000 mc di capacità. Per non parlare di quanto sta avvenendo in Alto Adige e su tutte le montagne italiane: ogni area sciabile deve risultare innevata nel più breve tempo possibile.
- La farsa del trasporto alternativo. Per superare la normativa europea che limita il finanziamento pubblico alle opere di carattere privatistico ormai da tempo il mondo degli impiantisti si è dipinto di verde, un verde marcio come vedremo. Ci dicono che i grandi collegamenti evitano il traffico sulla viabilità ordinaria. A loro dire lo sciatore si sposta in velocità da un’area sciabile all’altra rimanendo in quota, e così sarà anche in estate. Questa farsa dell’impiantista ecologista è nata con Val Jumela nel 1998: il collegamento fra Buffaure (Pozza) e Ciampac (Alba di Canazei) avrebbe tolto traffico dalla statale, si affermava. In valle di Fassa il traffico non ha fatto che moltiplicarsi. E’ poi proseguito con il collegamento Pinzolo – Campiglio, nel cuore del parco naturale dell’Adamello Brenta, la terra degli orsi. Un ulteriore fallimento, il traffico verso Campiglio è aumentato. Si sono poi proposti i collegamenti Alba – Marmolada, o San Martino di Castrozza – Passo Rolle (una cremagliera dal costo di 50 milioni di euro per 3800 metri di tragitto). Ed ora siamo alla follia già descritta dei due collegamenti olimpici, Cortina – Arabba e Cortina – Alleghe, più quello, sempre in funzione delle Olimpiadi 2026, che dal Passo dello Stelvio dovrebbe portare a Livigno. I primi casi descritti, quelli trentini, hanno permesso a società fortemente indebitate, grazie ai cospicui finanziamenti pubblici, di evitare il fallimento. In pratica la società privata raccoglie gli utili e passa al pubblico i deficit di gestione. Negli altri casi dolomitici l’eventuale sciatore che da Cortina volesse raggiungere l’area del Civetta impiegherebbe tutto il giorno. Rimane aperto il problema del suo ritorno. Autostop? Chissà, senza dubbio si tratta di una ghiotta occasione per infrastrutturare, come già descritto, le alte quote oggi ancora intonse. E per offrire appetibilità alla continua espansione dell’edilizia speculativa, le seconde case o gli alberghi trasformati in residence.
- I costi dello sci. L’attività dello sci da discesa per una famiglia italiana oggi ha costi insostenibili: skipass, trasporto, noleggio, soggiorno comportano un esborso economico sempre più forte. In questa situazione sociale è improbabile la possibilità che il parco degli sciatori aumenti, è evidente e dimostrato invece il suo declino. Ma anche la gestione delle aree sciabili sta diventando insostenibile: reggono con utili solo le zone più famose: Campiglio, Folgarida Marilleva, Dolomiti Superski, Livigno e si difendono poche altre zone, anche nelle Alpi occidentali. Le decine di altre, alcune le abbiamo citate di sfuggita, ogni anno accumulano debiti consistenti. Nelle Province e Regioni autonome questi debiti trovano ristoro grazie alle casse pubbliche: si tratta di vedere fino a che punto tale pacchia reggerà e quanto risulterà legittima.
- Aree protette. Per superare le dovute Valutazioni di Incidenza o approfondite Valutazioni d’impatto ambientale ormai diffusamente gli ampliamenti delle aree sciabili procedono con la politica dello spezzatino. Si realizza un pezzo alla volta, si invade un’area protetta con un impianto o il margine di una pista. Due o tre anni dopo, con motivazioni tese a sostenere la compatibilità economica di quanto finora costruito, si apre un’altra procedura, parziale, arriva un progetto che viene definito di completamento e viste le dimensioni lo si autorizza (by pass, alleggerimenti, razionalizzazioni). Pochi anni dopo un altro passo. In pratica, come facilmente dimostrabile, in pochi anni la società impiantistica realizza il suo intero sogno: il continuo potenziamento dell’area sciabile, impedendo di fatto valutazioni tecniche e paesaggistiche approfondite: ovviamente si sono seguiti tutti i criteri della legalità.
- Gli impianti dismessi. Una volta fallito l’impianto, o costruito uno nuovo con maggiori potenzialità di trasporto, non si opera il ripristino del territorio. Ovunque. Sul terreno rimangono i plinti di sostegno, i blocchi di cemento, a volte perfino i rifiuti delle baracche o di quanto danneggiato. Tutto questo avviene nella totale complicità degli enti preposti al controllo del territorio. Non siamo a conoscenza di un solo provvedimento di ripristino di un’area abbandonata imposto da enti pubblici, nemmeno sulle alte quote.
- La cultura e l’identità della montagna. Rimane aperto il capitolo su come l’economia turistica, ovunque, riesca a cancellare, omologare su un territorio ogni altra aspettativa, economica, sociale e culturale. Come si arrivi, in pochi anni, a cancellare la complessità del vivere in montagna. Ma qui si apre un altro capitolo. Sarebbe compito degli antropologi approfondirlo, ma a quanto pare eminenti figure di questa professione le troviamo legate al sostegno delle strutture di potere. Non sono di certo serene nell’affrontare in libertà e rigore scientifico questo strategico capitolo del futuro delle nostre montagne.
Luigi Casanova