I boschi fragili

L’intervento di Paola Favero sulla gestione naturalistica dei boschi è stato pubblicato sulla rivista Simbiosi. Una rivista che condivide l’impegno di Mountain Wilderness nella difesa delle montagne, una rivista che collabora attivamente con la nostra associazione. Ringraziamo la redazione di Simbiosi per averci permesso queste riflessioni, condivise, sulla corretta gestione delle foreste italiane. Introduzione di Luigi Casanova.

Introduzione

Ci si attendeva che la tempesta Vaia del 29 ottobre 2018 portasse il mondo politico e quello della scienza forestale a riflettere con maggiore attenzione sul valore delle foreste e dei boschi. Non è accaduto, l’Italia tutta ha perso una opportunità storica per investire nuovamente nel lavoro forestale, sia manuale, ma specialmente nella ricerca. Dopo Vaia ci si comporta come prima, anche peggio, potenziando la rete della viabilità forestale, incentivando tagli incredibili (sia nei cedui che nelle fustaie) per fornire legname al dilagare della diffusione degli impianti di teleriscaldamento a biomasse. Nel breve volgere di pochi anni i boschi italiani saranno ancora più poveri, ma specialmente saranno stati privati di biodiversità. La riflessione di Paola ci aiuterà a riflettere, e quindi ad agire: senza dubbio un intervento molto tecnico, ma svolto con un linguaggio accessibile a noi tutti meno preparati nel settore. (Luigi Casanova)

Il messaggio degli alberi

Mentre scendo in auto dal passo Falzarego verso i paesi dell’alto Agordino, nel cuore delle Dolomiti Bellunesi,  guardo ancora una volta i pendii coperti da migliaia di alberi spaccati, schiantati, divelti, tutti ammassati in modo caotico in un disordine totale, ancora più impressionanti ora che il colore verde delle chiome è stato sostituito da toni che vanno dal marron al grigio. Dopo due anni dalla tempesta Vaia solo alcune aree sono state ripulite: i tronchi ed i rami sono stati recuperati, spesso con operazioni che hanno comportato rischio e fatica, considerata la pendenza e l’orografia dei versanti, e sono rimaste solo delle distese di ceppaie, mute testimoni della distruzione.  E mi chiedo ancora una volta come possiamo restare indifferenti, inermi, rassegnati o, ancor peggio, assuefatti ai disturbi e non disposti a cambiare, incapaci di cogliere l’estremo e inderogabile messaggio degli alberi.

Le foreste sintesi del clima

Le foreste rappresentano l’ecosistema più evoluto, complesso, resiliente presente sulla Terra; in ogni angolo del pianeta si sono evoluti in milioni di anni ecosistemi forestali capaci di raggiungere il massimo equilibrio con l’ambiente fisico e climatico attorno in modo da ottenere la massima produttività, biodiversità e resilienza, cioè capacità di assorbire i disturbi. Ed è proprio da qui che voglio partire: le diverse fitocenosi forestali rappresentano la sintesi dei fattori stazionali,- dalle rocce al terreno al clima- di un  dato luogo, così che molto spesso per individuare velocemente una certa area climatica delle nostre montagne parliamo di Castanetum,  Fagetum, Picetum, Laricetum, rifacendoci ancora alle fasce fitoclimatiche individuate dal Pavari, e poi differenziate in modo molto più specifico da monti altri studiosi tra cui Pignatti. Queste diverse fitocenosi forestali, che individuiamo qui riferendoci all’albero simbolo di ogni fascia, hanno impiegato centinaia di migliaia di anni per raggiungere l’optimum, realizzando boschi di composizione, dimensione,  struttura, densità più idonee per sfruttare al massimo le potenzialità stazionali e per resistere alle perturbazioni esterne, comprese quelle del clima. Vedere improvvisamente milioni di alberi cadere come è accaduto il 29 ottobre 2018 con la tempesta Vaia, su estensioni mai viste prima, almeno per gli ultimi 2000 anni della nostra storia, ci fa comprendere come qualcuno dei fattori ambientali stia rapidamente cambiando, superando la capacità di resistenza e resilienza dell’ecosistema forestale. Venti di 150 km orari con raffiche di 217, provenienti da direzioni inconsuete per le nostre piante e riguardanti superfici così estese, non si erano mai verificati prima nelle nostre montagne, ed  anche se rilievi metereologici specifici sono disponibili solo per gli ultimi 50 anni, possiamo risalire indietro nei secoli attraverso  i nostri stessi boschi, che non portano il segno di eventi simili accaduti in passato, e ancor di più attraverso la documentazione storica, poiché nessuna mappa o resoconto antico- anche quando il bosco costituiva un patrimonio importante come nel caso della Repubblica di Venezia- ne porta testimonianza. Certo superfici interessate da schianti, provocati da violenti venti localizzati o da piccole trombe d’aria, ci sono sempre stati, come trovo conferma in una mappa veneziana della foresta del Cansiglio risalente al 1627, dove vengono accuratamente riportate due “fratte da vento” verificatesi nel 1623 ampie alcune decine di ettari. Ma superfici vaste come quella colpita da Vaia nel 2018 non sono mai state mappate, e nessun documento antico descrive un simile incredibile evento, in tempi in cui il bosco aveva un valore molto maggiore e tutto veniva accuratamente rendicontato. Così mi viene da pensare che alle precedenti fasce climatiche se ne debba oggi aggiungere un’altra: i boschi fragili, colpiti in modo massiccio da tempeste di vento, incendi di proporzione mai vista, infestazioni di insetti, conseguenze di rapidissimi cambiamenti climatici a cui i nostri popolamenti forestali non hanno tempo di adattarsi. Alla base di tutto il riscaldamento globale che oltre all’innalzamento della temperatura provoca un diverso regime delle piogge, con lunghi periodi di siccità alternati spesso a devastanti bombe d’acqua, ed eventi estremi come Vaia causati dall’enorme quantità di energia presente nell’atmosfera, e dal divario sempre più accentuato tra le masse di aria fredda che accompagnano le perturbazioni e le temperature sempre più calde dei mari e delle terre dove poi vanno a impattare.

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La tempesta Vaia

Anche all’origine di Vaia c’è stata la discesa di una bassa pressione dalle aree del nord Europa verso il Mediterraneo, tipica dei mesi autunnali, depressione che anzichè allontanarsi poi verso est si è trovata bloccata sul Mar Mediterraneo, schiacciata tra due aree di alta pressione sui Balcani e sulla penisola Iberica. La depressione ha così iniziato a girare su se stessa, creando un vortice sopra il mare, che aveva però una temperatura di ben due gradi superiore alla media stagionale. Una vera bomba di energia! Mentre sulla terra, a fine ottobre, si registravano temperature di 28-29°. Questa situazione anomala ha provocato prima correnti umide da libeccio con precipitazioni intense dalla Liguria alla Carnia, e poi grazie al rinforzo di venti da sud est ha scatenato violentissimi venti di scirocco, che hanno risalito l’Adriatico colpendo Venezia e proseguendo quindi verso le montagne, dove si sono ulteriormente rafforzati infilandosi nelle strette vallate e subendo uno schiacciamento verso il basso a causa di masse di aria calda che li sovrastavano. Venti mai registrati prima hanno causato la distruzione di 15 milioni di mc di legname, ed almeno 30 milioni di alberi, su una superficie di circa 42.000 ettari, dalla Lombardia al Friuli Venezia Giulia, solo considerando i boschi completamente devastati. Ma eventi simili, fino a quel giorno sconosciuti all’Italia, si verificano già dal 1980 a nord delle Alpi, dove uragani extraoceanici di inusuale violenza hanno provocato la distruzione di estese superfici forestali in Francia, Germania, Svizzera e in tutti i paesi del centro e nord Europa. L’uragano Lothar, nel 1999, toccò Francia, Belgio, Germania, provocò 140 morti, e distrusse 246 milioni di mc di legname, molto più di Vaia, con venti fino a 250 km/h. Vivian nel 1990 interessò il centro Europa con venti da 200 a 280km/h e atterrò 120 milioni di mc. Gudrun nel 2005 passò per Irlanda Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia, Svezia e Russia, distruggendo 75 milioni di mc di legname mentre Klaus nel 2009 attraversò Francia e Spagna atterrando 45 milioni di mc….solo per citarne alcuni. Eppure in Italia non se ne parlava e non ci si preoccupava, convinti che le nostre foreste a nord fossero protette dalle Alpi e rassicurati dal fatto di trovarci sul Mar Mediterraneo, da sempre mite, e non su un grande irrequieto oceano capace di generare venti ben più forti. Nessuno si poteva aspettare che invece il nostro mare, più caldo di 2 gradi, potesse diventare addirittura un creatore di cicloni, chiamati Medicane. Oggi rischiamo però di compiere lo stesso errore quando pensiamo che Vaia sia un evento unico, con tempi di ritorno che vanno oltre il secolo, senza comprendere che si tratta invece solo del primo di una serie di episodi che potranno colpire in futuro i nostri territori e i nostri boschi.

Una comunicazione lontana dalla natura

Il giorno dopo la tempesta sentivo le affermazioni più assurde correre sui media: “I boschi sono caduti perché gli alberi sono tutti uguali” ,- peccato che oltre ai rimboschimenti artificiali di abete rosso dell’Altopiano di Asiago siano caduti splendidi larici-cembreti in val d’Ega o un bellissimo bosco misto in comune di Claut. “I boschi sono caduti perché non vengono gestiti e non vengono più tagliati”, -di certo chi parlava non sapeva che tra i boschi caduti c’erano le famose peccete della Val di Fiemme o i grandi boschi della Val Visdende, da sempre gestiti, curati, tagliati con estrema attenzione-.
Fino all’idiozia più grande” non preoccupatevi: ora ripuliamo, piantiamo nuovi alberi e tutto tornerà in pochi anni come prima!” senza rendersi conto che non stiamo parlando di edifici che possono essere ricostruiti, ma di interi ecosistemi dove oltre agli alberi erano stati distrutti gli habitat di cespugli fiori insetti animali funghi…miliardi di organismi che all’ombra della foresta trovavano dimora, e che richiedono cicli di secoli per poter tornare, senza considerare che lo stesso cambiamento climatico in atto sta modificando radicalmente i caratteri stazionali dei luoghi. Affermazioni come queste ci fanno comprendere quanto siamo superficiali, ignoranti, lontani dalla estrema complessità che caratterizza le foreste e tutti gli ecosistemi, ma anche lontani dal comprendere come siano diversi i tempi della natura, a cui vogliamo imprimere una velocità che non le è propria. Il tempo degli alberi è un tempo di lentezza, ben diverso da quello frenetico dell’uomo, che è andato progressivamente staccandosi dal bosco e dai sui ritmi, a cui per migliaia di anni era stato legato. Le foreste sono invece ecosistemi estremamente complessi, che noi tentiamo di semplificare per renderle più comprensibili e gestibili, per poterle classificare, organizzare, schematizzare al fine di conoscerle meglio ma anche di utilizzarle per le nostre necessità. Lo stesso temine foresta, che deriva dal latino fores stare, indicava un tempo tutto quello che stava fuori dalle mura delle città, che non si conosceva, che metteva paura, che poteva essere pericoloso. Oggi anche se non vi è un modo univoco di utilizzare il termine bosco e foresta risulta abbastanza immediato associare la parola foresta al concetto di foresta vergine o primaria, non alterata dall’azione dell’uomo, o di usare questo termine per indicare le grandi foreste rimaste, come la foresta di Somadida o la foresta del Cansiglio. Si parla invece di boschi quando i popolamenti sono stati utilizzati o comunque modificati dall’azione antropica, così che non sentiremo mai dire il bosco dell’Amazzonia, né la foresta cedua degli Appennini. Ma al di là del termine gli studi e le conoscenze che si sono approfondite negli anni ci hanno fatto sempre più comprendere l’estrema biodiversità,- peraltro in gran parte ancora sconosciuta-, complessità imprevedibilità degli ecosistemi forestali, che si scontra con un informazione inadeguata e fuorviante, che tende a semplificare e omologare tutto.

Che bosco è? Quanto resiste?

Ma tornando ora alla tempesta Vaia, all’interno di questi boschi divenuti improvvisamente fragili dobbiamo però fare delle differenze, riconoscendo che esistono comunque delle specie arboree più o meno resistenti allo sradicamento e allo schianto, e delle comunità forestali più o meno resilienti ai nuovi eventi estremi che le colpiscono.
Tutti sappiamo che l’abete rosso è la specie meno resistente allo sradicamento per il suo apparato radicale estremamente superficiale, mentre il larice, il pino silvestre, il faggio ed in genere tutte le latifoglie sono molto più resistenti, così che dove il vento ha raggiunto velocità di 100-120 km orari queste ultime hanno resistito, mentre sopra i 150 km orari qualsiasi specie è caduta. Ma oltre alle singole specie è molto importante valutare gli effetti della tempesta Vaia sui diversi tipi di strutture forestali, per vedere quali siano più in grado di fronteggiare gli eventi estremi. Vedremo allora che i danni maggiori si sono avuti laddove avevamo popolamenti artificiali monospecifici, come sull’Altopiano di Asiago, dove dopo la Prima Guerra Mondiale sono stati piantati milioni di abeti rossi, o dove si applica un tipo di gestione del bosco con tagli raso a strisce, che hanno reso più debole il bosco attraverso l’apertura di corridoi che rinforzano l’azione del vento, come nella zona di Paneveggio. I popolamenti forestali che ci circondano sono stati tutti più o meno alterati dall’azione dell’uomo, che ha sviluppato nei secoli diversi modelli di assestamento e selvicoltura per la loro gestione, ed ha cercato di stabilire alcuni parametri che ci permettono di classificare le varie tipologie di bosco ai fini della sua utilizzazione, ma anche di interpretarlo riguardo la sua funzionalità, equilibrio, resistenza e resilienza. Riassumo in modo estremamente sintetico i principali:
l’origine del bosco: naturale o artificiale
le specie che lo compongono, e se un popolamento è monospecifico o polispecifico, ciò composto da una o più specie arboree. In natura le foreste sono sempre composte da più specie, e popolamenti monospecifici esistono solo in zone estreme, come ai limiti della vegetazione. E’ intuitivo capire che la presenza di più specie permette alle piante di sfruttare meglio le risorse del terreno e lo spazio a disposizione e rende un bosco più resiliente e forte anche di fronte a infestazioni di parassiti o altre calamità.

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la modalità riproduttiva del bosco: un bosco naturale si riproduce principalmente attraverso i semi, ma in seguito all’azione dell’uomo abbiamo oggi sia boschi da seme o fustaie, sia boschi cedui (dal latino caedere = tagliare), dove in seguito al taglio periodico le ceppaie delle latifoglie ributtano dei fusti secondari chiamati polloni e il bosco si rinnova principalmente per via agamica.
la struttura del popolamento forestale: i boschi possono essere coetanei, cioè formati da piante che hanno per la maggior parte la stessa età, o disetanei, dove sono rappresentate le varie classi di età. Anche in questo caso appare evidente che in natura la maggior parte delle foreste sono disetanee e che questa situazione favorisce una miglior distribuzione dello spazio, presenza di luce e ossigeno, ricchezza di biodiversità, garanzia di una rinnovazione naturale, trasmissione di informazioni tra gli alberi, ecc…Le strutture coetaneiformi sono state create dall’uomo solo per maggior comodità di utilizzazione e di conseguenza maggior ritorno economico. Anche in questo caso di fronte all’evento Vaia questi popolamenti hanno dimostrato la loro maggior vulnerabilità.
il tipo di gestione che viene applicato: il tipo di taglio che viene effettuato all’interno di un bosco è fondamentale. Mentre il taglio raso, peraltro vietato in Italia, azzera completamente tutto e prevede spesso un successivo impianto artificiale, il taglio saltuario per piede d’albero, quello che si avvicina di più a quanto accadrebbe in natura, permette di asportare delle piante mature ma di lasciare nel contempo il bosco il più possibile integro, aprendo delle piccole buche solo in corrispondenza della pianta tagliata. In queste radure potranno poi insediarsi nuove piantine grazie ai semi caduti dalle piante attorno, ricreando il dinamismo che avrebbe generato una caduta naturale dell’albero asportato. Naturalmente tra questi due estremi -taglio raso o taglio saltuario- vi sono altre tipologie di interventi, come i tagli raso a strisce o a buche, e fondamentale è anche l’intensità dei diversi interventi e la scelta delle piante da tagliare, oltre che i tempi di ritorno in un dato popolamento. Tipica della nostra selvicoltura nelle fustaie era in estrema sintesi la successione: diradamenti, taglio di preparazione o sementazione, taglio di sgombro. In questa fase tutte le piante rimaste, mature o stramature, dovevano essere tolte per lasciare spazio alla rinnovazione. Una moderna selvicoltura attenta alla biodiversità non può più prevedere questo, ma deve considerare che è fondamentale lasciare alcune piante pur se molto vecchie, per il loro valore intrinseco nella comunità e per garantire la dimensione stessa dell’ecosistema e la biodiversità presente: se taglio tutti gli alberi superiori a 30 m di altezza e lascio le piantine pur rigogliose alte al massimo 10 m ho ridotto lo spazio di quell’ecosistema del settanta per cento e ho distrutto migliaia di habitat e di organismi prima presenti. (Facendo un paragone con la società umana è come se decidessimo di eliminare tutte le persone più anziane, che se da un lato producono meno dall’altro sono quelle che trasmettono conoscenza e saperi).

Le ricette fuorvianti

Tener conto di tutti questi aspetti può aiutarci a seguire in futuro una selvicoltura più idonea a fronteggiare questi nuovi assetti climatici, a cui le piante sembrano rispondere per esempio con una risalita delle specie verso l’alto ma anche con la sofferenza di piante che sono già nelle fasce altimetriche superiori, come ad esempio il larice, ma dobbiamo sempre tener presente che questo potrà servire solo a sopportare meglio i venti forti fino a 150 km orari mentre sopra questo limite qualsiasi bosco purtroppo cadrà. Per questo è indispensabile una nostra azione ben più radicale, indirizzata a contenere il cambiamento climatico e l’innalzamento della temperatura, o tutti i nostri sforzi saranno vani. Pensare che sia sufficiente non piantare più abete rosso per risolvere il problema, o immaginare interventi assistiti alla naturale rinnovazione delle piante può distogliere l’attenzione dal vero problema, mentre è addirittura fuorviante sostenere che bisogna ringiovanire i boschi perché così resistono di più, dimenticando che è proprio il bosco più maturo ed evoluto quello più resistente e resiliente, e scordando che la tutela della biodiversità è ormai una assoluta priorità e ringiovanendo i boschi si va invece a distruggerla. Come insistere sulla necessità di tagliare di più i boschi continuando a ripetere che la superficie forestale in Italia è molto aumentata, ma scordando di dire che i boschi si sono espansi soprattutto in aree abbandonate e poco accessibili, mentre quelli che si andrebbero a tagliare saranno purtroppo quelli più comodi, redditizi e serviti da strade, andando così a depauperare ancora una volta i popolamenti più importanti, in un momento in cui i boschi vanno soprattutto protetti per la serie di servizi ecosistemici che ci forniscono.

Crisi ecologica e crisi culturale

I ghiacciai ci danno una prova costante del cambiamento climatico, misurabile anno per anno, così come l’innalzamento dell’acqua degli oceani; i boschi e le foreste invece tracollano di colpo, e i fattori che le stanno decimando, oltre alla deforestazione che ancora continua, sono incendi, tempeste da vento ed infestazioni di insetti. In Italia nel 2017 sono bruciati 145.000 ha di boschi, mentre nel 2019 incendi mai visti hanno distrutto 4 milioni di ha di boschi in Siberia – pensiamo all’immensità di una tale devastazione confrontata con i 42.600 ha di Vaia – , senza poi parlare delle immense superfici che stanno bruciando in Amazzonia, Australia e California. Le tempeste di vento hanno colpito il centro e nord Europa per una media di 38 milioni di mc di schianti all’anno, a cui sono seguite spesso infestazioni di scolitidi che hanno distrutto ancora ettari ed ettari di bosco. Ma alla crisi ecologica che accompagna il nostro tempo si affianca una profonda crisi culturale che ci vede sempre più lontani dalla natura e dal bosco, estranei ad un mondo con il quale siamo invece intimamente legati. Gli uomini hanno costruito sul legno degli alberi la loro civiltà: dall’uso del fuoco per cucinare e scaldarsi, al produrre energia ed estrarre medicine, al costruire le loro dimore, le armi per cacciare e gli attrezzi agricoli, i mezzi di trasporto, la carta su cui scrivere, le opere d’arte e gli strumenti musicali. Sono le foreste le responsabili di un’atmosfera più ricca di ossigeno e adatta alla nostra vita, e ancor oggi, seppur inconsapevolmente, il benessere di cui godiamo è legato ai molti servizi ecosistemici che ci fornisce il bosco. Ma mentre un tempo ogni singolo albero aveva un suo valore e una sua storia, e ogni bosco veniva seguito e attentamente gestito, oggi gli alberi sono spesso una massa indistinta di materia, diventati ormai solo un mero prodotto industriale. Dimenticando che intere civiltà sono scomparse dalla faccia della Terra perché hanno distrutto i boschi che circondavano i loro villaggi, causando il cambiamento del clima di quella zona e l’impossibilità di avere acqua e cibo. La storia ci racconta degli errori del passato, mentre la scienza ci fornisce tutti i dati e le conoscenze per comprendere la gravità della crisi ambientale che stiamo vivendo, ma con un estremo atto di resilienza a cambiare il nostro modello consumistico fingiamo ancora di non capire. Spero allora che la devastazione provocata da Vaia possa almeno servire a prendere coscienza di come sta accelerando la nostra corsa verso la distruzione, e di quanto sia urgente il nostro cambiamento: un estremo messaggio degli alberi che da sempre ci hanno accompagnato.

Paola Favero è stata colonello del Corpo dei Carabinieri forestali. Ha dedicato la vita alla attenzione ai boschi e alla loro naturalità, cercando sempre di potenziare la biodiversità del sistema forestale. E’ alpinista e scialpinista, scrittrice, decine le sue pubblicazioni, con una attenzione particolare rivolta al mondo dei ragazzi. Di notevole valenza scientifica il sui libro “C’era una volta il bosco”, ed. UTET. E’ socia di Mountain Wilderness e ideatrice della associazione INSILVA.