Il montanaro: un soggetto estinto

Prendo spunto dal conflitto sorto fra la SAT del Primiero e la sede centrale in materia di gestione dell’ambiente naturale e della montagna per riflettere su cosa rimane dei montanari e della loro cultura. Di Luigi Casanova.

Luigi Casanova

I Fatti

Le dimissioni del presidente della SAT del Primiero, in dissenso con il consiglio direttivo centrale, si inseriscono in un filone storico alquanto coerente in quel sodalizio: il sostegno indiscriminato ad ogni via ferrata sulle Pale, l’arrendevolezza alle decisioni dei grandi potentati dei rappresentanti SAT nel comitato di gestione del Parco naturale di Paneveggio Pale di San Martino e per ultimi il sostegno al raduno dei fuoripista a San Martino di Castrozza e alla strada forestale che avrebbe distrutto una strategica arena di canto del gallo cedrone. Questo modo di intendere la gestione della montagna affianca altre due significative realtà, simili, nella loro diversità, con la cultura espressa dal gruppo dirigente della SAT del Primiero. In Comelico (BL), territorio in procinto di essere banalizzato con un collegamento sciistico gestito dalla società pusterese Drei Zinnen, reso economicamente sostenibile solo per l’arrivo di 26 milioni di euro dei fondi di confine, imposto in territorio protetto e patrimonio naturale UNESCO, il CAI locale sostiene il collegamento in conflitto con il CAI regionale. A Falcade (BL) il CAI dell’agordino sostiene l’annuale raduno dei quad in conflitto con il CAI regionale del Veneto: quest’ultima associazione ha collaborato con altro volontariato del Triveneto, Mountain Wilderness compresa, nel proporre alla Fondazione Dolomiti UNESCO delle linee guida sugli eventi con mezzi a motore in montagna.

Centro contro Periferia?


Le associazioni di periferia, che si autodefiniscono referenti dei montanari autentici, sostengono identica insofferenza verso quanti si espongono nella difesa degli ambienti naturali. E’ una ostilità carica di rancore verso l’ambientalismo, ritenuto espressione delle città. A casa nostra decidiamo noi viene urlato, sottolineando un concetto di proprietà perlomeno discutibile. Per arrivare a una visione storica della gestione del territorio declinata con superficialità e banalità: “ – se voi cittadini, ambientalisti, venite da noi è solo perché noi siamo stati i conservatori attenti della integrità naturalistica dei luoghi”. Differenziano le situazioni venete da quella trentina solo un passaggio: il bellunese, o la Carnia, o la Valtellina, leggono nelle vicine autonomie ricchezza e sperpero, oppure presenza di opportunità a loro negate. In Comelico come nell’agordino si ha invidia del turismo obeso, affamato, privo di solidarietà, sponsor del partito della ruspa dei cugini dolomitici. Anche loro vogliono poter affogare nello stesso grasso piatto.
In tutti gli ambiti territoriali citati rimangono invece assenti i temi oggi strategici per la montagna italiana e non solo: i cambiamenti climatici in atto e le loro conseguenze sulla montagna, la difesa della biodiversità, il valore dei paesaggi, la proposta di un modello di turismo più dolce, rispettoso della natura, capace di offrire molteplici opportunità di lavoro, la storia e le identità locali. Nelle nostre vallate di montagna, un po’ ovunque, trionfa un quadro culturale a dir poco deprimente.

Sviluppo o progresso?

Vado a scomodare Pier Paolo Pasolini, quando, negli ultimi anni della sua intensa vita, denunciava come sviluppo e progresso venissero utilizzati dai diversi soggetti imprenditoriali e dalla politica come sinonimi, scollegati sempre più dal tema della cultura e dalla conoscenza. Messaggi chiari quelli di Pasolini da riportare a quanto avviene oggi in montagna, come quando con sensibilità e lungimiranza identificava i beni naturali con i beni culturali, non li separava con le argomentazioni superficiali oggi diffuse. Certo, Pasolini si riferiva alla campagna (i luoghi da lui conosciuti) allora divenuta succube delle mode cittadine. Noi ambientalisti di montagna (e delle città fortunatamente) vediamo come analogo processo di degradazione antropologica e culturale abbia investito, ormai da tempo, e a mio avviso avvolto in una rete aggrovigliata ormai impossibile da sciogliere, la cultura del montanaro. In montagna il montanaro è soggetto antropologico estinto. E’ preoccupante la velocità dell’avanzare dell’omologazione culturale della montagna a quella che ritroviamo nelle grandi metropoli: il prevalere della tecnologia, l’abbandono diffuso della conoscenza e della pratica del territorio, l’aggressività con la quale si negano, si offendono beni comuni quali quelli naturali, i paesaggi, la biodiversità, le zone tutelate. Si stanno imponendo ovunque “valorizzazioni”, ovviamente sostenibili quando non etichettate green, tese a offrire risposta solo a presunte necessità economiche, sempre a scapito di aree umide e pregiate, di pascoli, sempre consumando suoli e paesaggi liberi. Nel dopoguerra i montanari hanno permesso, allora probabilmente in modo inconsapevole, che le speculazioni si imponessero con le seconde case consumando suoli pregiati e rendendo i fondovalle e gli ambiti fluviali diffusi parcheggi: oggi l’attenzione speculativa si sposta in alta quota, negli ultimi spazi del silenzio, fino sulle rocce. Rifugi che raddoppiano le volumetrie, funivie che riversano masse urlanti che pretendono la riproposizione e l’offerta di quanto trovano nelle arene cittadine: musica sparata, raduni motoristici, apericene dove vi si arriva con motoslitte o quad, malghe trasformate in bar – ristoranti, strade e baite forestali sempre più aperte ad ogni uso e abuso. Tutto questo avviene, e non potrebbe essere altrimenti, con il sostegno delle popolazioni delle vallate. Le sacche di resistenza alla massificazione e alla banalizzazione della montagna sono sempre più residuali, ridotte quasi a testimonianze individuali, facili da tacere: quando non è sufficiente l’isolamento si arriva, sempre più spesso, alle offese e alle minacce. E guarda caso si toglie il diritto di parola a chi ancora nelle valli tiene alti i valori della cultura.
Da questa analisi ritorno alle sedi periferiche di SAT e CAI, situazioni di volontariato alle quali riconosco sempre grande impegno e spessore sociale, laboratori dove è ancora possibile un ritorno di orgoglio, di approfondimento e rinascita dei valori autentici della montagna. In queste sedi non si ritiene sia venuto il momento di fermarsi a riflettere e di ritornare ad appropriarsi di una visione dello sviluppo di lungo termine? Ad avere rispetto, sempre, delle normative nazionali ed europee o dei documenti di alto profilo che con lungimiranza il CAI ha elaborato in questi anni? E prima di proseguire con ulteriori mortificazioni della montagna, affrontare, anche grazie a coraggiose riflessioni autocritiche, gli errori del recente passato e attuali? Partendo proprio dalle nostre terre, dalle periferie, visto che l’associazionismo alpinistico, quando rimane lontano da pressioni economiche locali, questi valori riesce a mantenerli e a diffonderli. Solo attraverso scelte coraggiose, sul breve periodo anche impopolari, affrontate con urgenza e condivise, avremo ancora la forza di difendere e rafforzare le autonomie che le popolazioni delle montagne hanno conquistato nei secoli scorsi e in tempi più recenti. Lo ricordiamo, autonomie istituite per difendere le popolazioni delle vallate dalle pretese dei grandi potentati dei secoli scorsi, o più recentemente da un eccesso di centralismo degli stati. Riflettano su questi temi certi antropologi troppo sollecitati da poteri politici interessati al consumo dei beni naturali invece di scatenarsi in battaglie contro i grandi predatori carnivori o nella difesa acritica di certo modo di essere agricoltori di montagna, o ancora contro l’espandersi delle superfici forestali.

La scomparsa del montanaro

Fenomeni questi, fra loro uniti, che stanno a dimostrare la scomparsa del montanaro che ha cura della sua montagna. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che proseguendo e intensificando lo scenario e le prospettive di certo sviluppo imposto alla montagna, in poco tempo la stessa montagna sarà privata di significato, diventerà una riproposizione circense, solo folcloristica: pantaloni in pelle di vacca e qualche bandiera di minoranze linguistiche da sfilare nelle processioni per poi ricadere in luoghi comuni a sostenere le scelte di uno sviluppo che ha portato alla invivibilità delle città. Solo che in montagna, luogo del limite, luogo della sobrietà, certi percorsi non sono sostenibili, e, in tempi anche brevi, pretendono il ritorno di una cambiale salata.

Luigi Casanova