Il riscaldamento della montagna

Il numero di Marzo 2019 di Dislivelli affronta il tema dell’impatto del riscaldamento globale sulla vita in montagna. Riportiamo di seguito l’articolo di Vanda Bonardo.

Gli ultimi anni 2015, 2016, 2017 e 2018, sono stati confermati come i quattro anni più caldi mai registrati sul Pianeta terra e, secondo il Met Office (il servizio meteorologico britannico), il 2019 si preannuncia ancora più caldo del 2018. Ma c’è di più, perché il cambiamento climatico risulta più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato nelle terre emerse infatti corrisponde a un +2° sulle Alpi. Il Politecnico di Zurigo ipotizza per la Svizzera un aumento da 2,5° a 4,5° C entro la metà del secolo, e tutto lascia pensare che lo stesso possa accadere nel resto dell’arco alpino. Infine, sempre restando in Europa, l’Osservatorio pirenaico sui cambiamenti climatici (Opcc) dichiara che qualora la velocità di aumento della temperatura dovesse restare costante, nei Pirenei si potrebbero raggiungere +7.1°C in media per fine secolo.

Aletshgletsher. Foto: Sergio Ruzzenenti

Spostandosi poi verso la regione himalaiana, nel recente studio “The Hindu Kush Himalaya Assessment”, realizzato da oltre 200 scienziati internazionali, vengono descritte con dovizia di particolari le conseguenze del riscaldamento globale sul tetto del mondo, mettendo in evidenza i pericoli per milioni di persone residenti in quell’area. Gli scienziati del “The Hindu Kush Himalaya Assessment” sostengono che, anche rispettando gli obiettivi di Parigi, quelli contenuti nell’Accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima mondiale adottato da 195 paesi alla conferenza sul clima di Parigi (COP21) del dicembre 2015, entro la fine del secolo spariranno un terzo dei ghiacciai della regione. Ma in caso di mancato raggiungimento di tali obiettivi, e quindi senza attuare radicali cambiamenti rispetto alla situazione attuale, l’Himalaya potrebbe perdere addirittura i due terzi dei suoi ghiacciai entro il 2100, riscaldandosi di 4,4° C entro la fine del secolo, e causando gravi insufficienze di cibo e acqua nella popolazione residente, con la conseguenza inevitabile di enormi migrazioni di massa.

Cosa ne sarà quindi di ghiacciai e manti nevosi montani in un immediato futuro? Gli scienziati sottolineano come la diminuzione delle precipitazioni nevose e l’aumento delle quote nivali sia un fenomeno globale, registrato in tutto il mondo. Tanto che si prevede che i volumi dei ghiacciai potrebbero addirittura diminuire fino al 90 % entro il secolo corrente. Guardando in casa nostra, in Europa, si registra una diminuzione netta, a volte di più della metà, dell’estensione originaria dei ghiacciai alpini. E anche il manto nevoso si riduce in estensione, altezza e densità. Secondo i ricercatori dell’Istituto elvetico per lo studio della neve e delle valanghe SLF, se i paesi non riusciranno a ridurre le emissioni, alla fine del secolo il manto nevoso naturale potrebbe assottigliarsi anche del 70%, con grossi problemi per il turismo invernale: con un aumento di temperatura superiore ai 2°C, nei prossimi anni il 40% delle stazioni sciistiche alpine sarà pressoché senza neve naturale, e si teme che entro il 2100 scompaia almeno il 70% della copertura nevosa dei comprensori sciistici attuali. In queste condizioni le stazioni di sport invernali al di sotto dei 1500 metri sono inesorabilmente condannate alla chiusura, a meno che non trovino altre offerte turistiche alternative allo sci da discesa. Secondo il glaciologo Jerome Chappellaz, dell’università di Grenoble, nei prossimi anni saranno a rischio chiusura addirittura quelle sotto i 1800 metri. Sempre più in alto quindi, per soddisfare le esigenze degli amanti della neve sulle Alpi? Sembra proprio di sì, perché se gli impianti sciistici a bassa quota smetteranno di funzionare, quelli a quote più elevate verranno probabilmente potenziati, con la possibilità di un aumento della pressione sugli ambienti più delicati di alta montagna. E questo è un tema sul quale la programmazione dell’offerta turistica montana dei prossimi anni dovrà assolutamente interrogarsi.

Dicembre 2015, San martino di Castrozza Foto: Giovanni Baccolo

Abbandonando il discorso legato al turismo montano, torniamo sulle conseguenze ambientali immediate della repentina riduzione di ghiacciai e quote nivali: nei prossimi anni gli scienziati segnalano che aumenteranno crolli di pietre e rocce, formazione di laghi glaciali effimeri con successive piene di rottura e maggiori colate di detriti. Il global warming insomma favorisce l’intensificarsi di eventi estremi, comprese le tempeste di vento e le precipitazioni intense e concentrate in periodi di tempo limitati.
Ma al di là degli eventi estremi, meno neve vorrà dire allora meno rischio valanghe? Purtroppo no, perché anche qui gli studi degli ultimi anni sull’incidenza degli eventi valanghivi evidenziano quanto il rischio valanghe permanga, o addirittura aumenti con i cambiamenti climatici. Forti nevicate su brevi periodi e successivi repentini rialzi di temperatura aumenteranno il rischio di distacchi, come successo nel caso emblematico di Rigopiano nel 2017. E sono inoltre in crescita anche le cosiddette “valanghe bagnate”, dove il principale fattore scatenante diventa la presenza di acqua allo stato liquido all’interno del manto nevoso, una volta tipiche del periodo estivo e oggi presenti anche nel periodo invernale. A causa del repentino scioglimento del permafrost, ovvero il suolo in profondità perennemente gelato dei climi freddi, aumenteranno fenomeni come frane e smottamenti.
Insomma, l’aumento di frane e flussi torrenziali, sommati alla caduta di rocce e valanghe, metterà a dura prova gli insediamenti e le infrastrutture esistenti, soprattutto laddove le aree edificate si sono espanse a dismisura. Inoltre i cambiamenti del regime delle precipitazioni molto probabilmente prosciugheranno corsi e sorgenti d’acqua, anche quelle da sempre considerate sicure, mettendo a rischio siccità intere aree alpine, mentre nelle valli a fianco causeranno disastrose inondazioni, con danni consistenti agli ambienti naturali e ai servizi ecosistemici. L’imprevedibilità di tali deflussi determinerà anche pesanti effetti sulla produzione di energia elettrica e sull’irrigazione dei terreni coltivati di pianura, tanto da richiedere forti cambiamenti nell’uso della risorsa idrica.
Per concludere, i resoconti pressoché unanimi degli scienziati costituiscono un grido di allarme inimmaginabile fino a pochi anni fa, che purtroppo non corrisponde a una presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica e dei governanti della gravità del momento storico che tutti noi stiamo vivendo. Perché oggi si impone un cambio di passo così repentino e globale come mai è accaduto nella storia dell’umanità.
Vanda Bonardo