Intervista ad Alessandro Gogna

Alessandro Gogna (Genova, 29 luglio 1946) è alpinista di fama internazionale, storico dell’alpinismo, guida alpina e opinion maker sulla problematica turistico-ambientale della montagna. Partito dalle pareti delle Alpi Liguri e delle Dolomiti, passando per le montagne di tutto il mondo e scalando in tutti gli ambienti, è autore di numerose prime ascensioni nelle Alpi e negli Appennini. È stato uno dei fondatori di Mountain Wilderness, di cui è tra i garanti. Ha ricoperto la carica di Segretario di Mountain Wilderness Italia fino al 1994, ha lavorato ad importanti iniziative ambientali come Marmolada Pulita, Free K2, Proteggi il Bianco, Aquila Verde, Save the Glaciers.

Agosto 1988, Punta Helbronner: da sinistra Carlo Alberto Pinelli, Ornella Antonioli Gogna e Alessandro Gogna

Pubblichiamo di seguito un’intervista pubblicata sull’Eco di Biella del 31 ottobre 2016, per gentile concessione del Gognablog.

Intervista ad Alessandro Gogna
di Veronica Balocco
(pubblicata su L’Eco di Biella del 31 ottobre 2016)

Le lacrime di quel pomeriggio del maggio 1976 sono l’ultimo tatuaggio. L’ultimo ricordo rimasto impresso nella memoria, il più dolce e affettuoso di sempre. Guido Machetto e Alessandro Gogna, biellese l’uno, genovese l’altro, storici amici e compagni di cordata, sono lontani da tempo. Insieme conservano la memoria delle mille avventure condivise, la grande stagione dell’alpinismo invernale scritta a quattro mani, dall’integrale di Peuterey alla Sud delle Grandes Jorasses.

Ma da quel lontano 1973, quando la spedizione all’Annapurna ha spezzato la vita di Miller Rava e Leo Cerruti, qualcosa si è rotto. Anche Guido e Alessandro erano là, membri di una spedizione che il destino non ha voluto fortunata, e proprio là la loro amicizia si è incrinata. Restare, non restare. Dopo la tragedia gli animi si accendono, e Gogna, scegliendo con cinque compagni di tornare a casa, la vede diversamente dal compagno di sempre.

Poi, nel maggio 1976, quasi che la vita voglia dire qualcosa per loro ancora incomprensibile, Gogna e Machetto si ritrovano. «Io non facevo certo il prezioso, ma fu comunque lui a cercarmi – racconta Gogna – in fondo io e Guido eravamo stati una coppia affiatata. Avevamo condiviso tante giornate sul campo, ma anche tanti momenti passati a fantasticare sulle imprese da intraprendere. Quel giorno ci ritrovammo dopo il lungo silenzio e i dissapori nati sull’Annapurna. E fu un momento particolare. Parlammo per un pomeriggio intero, a casa mia. Poi ci mettemmo a piangere. Fu chiaro a tutti e due, in quell’istante, che avevamo perso due anni e mezzo per semplice stupidità». Sarà l’ultimo incontro, l’ultimo abbraccio.

Quasi che il cielo voglia inviare un segno. Poco più di un mese dopo Guido Machetto, consacrato poi dal tempo, ma immeritatamente non abbastanza dall’opinione pubblica, come una delle perle di diamante dell’alpinismo italiano di tutti i tempi, morirà a 39 anni sulla Tour Ronde, al Monte Bianco. E ad Alessandro, amico di sempre, antagonista dialettico, compagno lontano e vicino, non resterà altro che «una grande disperazione». E il ricordo di un indimenticabile uomo, «per nulla fievole, di forte personalità, spigoloso, difficile e non discreto. Un amico con il quale ogni attimo diventava produttivo, per idee, sogni e stimoli che sapeva regalare».

Gogna, lei dice qualcosa che si potrebbe riproporre per innumerevoli casi. I grandi alpinisti dalla difficile personalità sono una sorta di leit motiv, quasi che montagna e caratteracci debbano finire per andare costantemente di pari passo. Perché?
«In fondo questo è un concetto applicabile a molti campi umani. Pensi all’arte, alle personalità degli artisti».

Facciamoci rientrare anche l’alpinismo. Forma d’arte sui generis. Che mi dice ora?
«Ci sto. E le dico che questo binomio non si verifica solo in presenza di personalità particolarmente brave o lungimiranti, ma emerge per lo più in base all’attitudine al comando della persona in questione. Nell’alpinismo un certo carattere è sintomo della caratteristica, appartenente a molte persone, di voler assumere la leadership della situazione, disputandosela con qualcuno».

Se dovesse pensare alle caratteristiche umane che fanno di un uomo un grande alpinista, a cosa penserebbe?
«Creatività e bravura. Per essere in presenza di un campione dell’alpinismo, devono essere presenti entrambe. E lasciare il segno nel lungo periodo».

Mi faccia qualche nome.
«Nomi che possono aspirare a essere considerati i massimi fuoriclasse ce ne sono parecchi. La gente si ferma a Bonatti e Messner, ma in realtà ci sono alpinisti di altissimo livello ormai in tutto il mondo, più e meno giovani.
Vuole qualche nome? Spulci gli elenchi dei vincitori dei Piolet d’or. Da lì è possibile pescare a piene mani».

Curioso. Perché i vincitori dei Piolet d’or sono anche tra gli alpinisti meno noti al grande pubblico. Significa che i mezzi di comunicazione rispondono a criteri puramente commerciali e non divulgano qualità?
«Gli alpinisti di cui le parlo fanno cose da extraterrestri, che noi trent’anni fa non credevamo neppure possibili. E continuiamo a non capirle neppure adesso. Sono imprese che vanno oltre, novità assolute. Ovvio che vi sia uno scollamento: se gente come me non concepisce quel che questi grandi alpinisti fanno, fatica a spiegarlo e a immaginarlo, come crede possa capirlo un giornalista?».

Quanto è cambiato l’alpinismo dai tempi della sua gioventù?
«Tantissimo. Sia per la caduta dei tabù, sia per l’introduzione delle nuove tecniche, grazie soprattutto all’avvento dell’arrampicata sportiva. Tutto, soprattutto in termini di difficoltà e tempi, è cambiato».

E cosa non le piace di questo nuovo alpinismo?
«L’eccessiva mediaticità. Io non sono contrario ai nuovi mezzi, per carità: li trovo utili e spesso necessari. Ma si tratta di strumenti che spesso, forse abusandone, finiscono per diventare invasivi e artificiali. Un po’ come l’ossigeno in alta quota. Telefonare ogni sera per comunicare la propria posizione al grande pubblico alla fine può essere pericoloso. Rischia di compromettere l’autenticità dell’esperienza, che invece dovrebbe trovare nell’isolamento uno dei suoi punti di forza».

Che mi dice dello slancio ormai universale alla velocità?
«Non mi entusiasma. Snatura il senso dell’avvicinamento alla montagna: pensi ad esempio alla trasmissione “Monte Bianco”, un vero passo indietro che ha ridotto l’esperienza a una banale competizione basata sui tempi».

Lei è fortemente contrario anche all’eccessivo ricorso alle infrastrutture. All’artificialità. All’uso di impianti e strumenti non naturali nel rapporto con l’alta quota. Si sente un don Chisciotte?
«Decisamente. Certo non sono io a poter cambiare il mondo, ma spesso mi sento molto deluso del fatto che si continui a percorrere una strada tanto pacchiana. E non ho a cuore solo l’alpinismo d’élite, ma anche quello della gente normale».

Manifestazione di Mountain Wilderness a Forca Rossa, gruppo della Marmolada, Dolomiti Occidentali, 24.07.1988.

Ha preso di mira anche l’eliski. Perché?
«Perché l’uso dell’elicottero falsa totalmente l’esperienza.
Certo, so bene, come mi viene spesso controbattuto, che non si tratta del problema più importante del mondo. Ma credo sia nostro dovere pensarci. E non accetto chi mi dice che il vero pericolo è rappresentato dai Suv e dai tanti mezzi che inquinano il mondo, che “c’è ben altro” cui pensare. Il “benaltrismo” mi manda letteralmente in bestia».

Manifestazione dicembre 1996 contro eliski. Marmolada di Rocca

Ma l’eliski ha effetti anche positivi, in termini economici, sui territori in cui è praticato.
«Forse per le compagnie di elicotteri. E per le guide alpine, categoria nella quale rientro anche io. Ma la guida alpina detiene un ruolo anche morale: è toccata sì dalla questione economica, ma per definizione dovrebbe ergersi al di sopra di questa dimensione, diventando rappresentante della montagna e dei suoi valori. Se però un professionista di questo genere finisce per fare il taxista, trasportando clienti in elicottero, significa che è finita. Per lui e per la categoria».

Le foto di turisti sprovveduti, non equipaggiati, in tenuta marittima, che vagano sereni per i ghiacciai del Monte Bianco e del Rosa sono diventate un caso rimbalzato su tutti i social network. Le ha viste?
«Sì, sono le immagini che raccontano il dramma provocato da impianti come lo Skyway. Un tema sul quale sono già intervenuto in passato, cercando di non infierire ma spiegano che le opere faraoniche non fanno bene alla montagna. In fondo, dove sta scritto che mille persone al giorno debbano raggiungere Punta Helbronner?».

Eppure, inaspettatamente, la risposta del pubblico davanti ai dibattiti suscitati da quelle foto è stata di grande buon senso. I sondaggi dicono che la gente non vuole regole e divieti, ma maggior cultura. Come esaudire la richiesta?
«Io ci provo. Ci proviamo in tanti, ognuno con la propria visione delle cose. I grandi siti di informazione alpinistica, e ne ho in mente in particolare due, dovrebbero capire che, accanto alla notizia, è sempre più necessario fare anche approfondimento. Ecco da dove può nascere una certa cultura».

Entrare nelle scuole può servire?
«Io, e molti altri, lo abbiamo già fatto. È bello e appagante, ma non è sufficiente. La scuola è la famiglia oggi sono strette come in una stretta mortale dal discorso della sicurezza: un approccio gravissimo, con effetti nefasti sull’educazione dei piccoli, perché alla fine impedisce la maturazione, lo sviluppo della capacità di prendere decisioni autonome. Oggi, se succede qualcosa, qualcuno paga, l’assicurazione interviene, c’è sempre chi prende la colpa: un meccanismo infernale che compromette la possibilità di fare davvero cultura».