Jeep Camp e l’ambiente ridotto a scenografia

Il prossimo raduno Jeep Camp 2019 nel Primiero, previsto per metà luglio e che in più giorni vedrà la partecipazione di oltre 600 veicoli a San Martino di Castrozza, per l’impatto ambientale che certamente avrà in una zona limitrofa al parco di Paneveggio, peraltro già colpita gravemente dalla tempesta dello scorso ottobre, dovrebbe preoccupare e indurre ad un ripensamento dell’offerta turistica e delle modalità promozionali del territorio alpino. Invece da coloro che a vario titolo sono portatori di interessi tale evento è accolto con toni entusiastici, addirittura come una benedizione che può risollevare un’economia turistica fiacca e generare un importante indotto economico, dato il notevole numero di presenze atteso e il respiro internazionale della manifestazione. Noi invece pensiamo che le rassicurazioni fornire dagli organizzatori siano insufficienti e che se anche quei fuoristrada percorreranno strade bianche in zone escluse dal parco, sarà comunque un evento impattante sotto l’aspetto ambientale.

Si tratta infatti di veicoli rumorosi e inquinanti (inquinamento da emissione di gas di scarico, ma anche acustico, per non parlare della polvere sollevata) e una più consapevole considerazione degli effetti devastanti dei cambiamenti climatici in atto dovrebbe indurre coloro che pure si fregiano quando conviene del marchio patrimonio Dolomiti Unesco ad una maggiore prudenza e lungimiranza, piuttosto che a miopi e utilitarie logiche di interesse. Di difendere un patrimonio si tratta, infatti, ma un patrimonio comune da preservare, se non altro nella considerazione che esso è la vera ricchezza di una zona turistica e che la sua compromissione sarebbe un danno irreversibile.

Così, anziché tutelare il territorio lo si sfrutta a scopo promozionale, lo si esibisce al fine di acquisire visibilità mediatica, trasformandolo in un circo fuori luogo (lo conferma il concomitante allestimento di una ruota panoramica nei pressi di una malga) per un approccio distratto e superficiale a luoghi d’incanto, in nome di una politica del turismo contraddistinta da un pesante impatto ambientale e da una scarsa aderenza alla storia e peculiarità dei luoghi interessati dalla manifestazione.

Camp Jeep foto dal sito internet Camp Jeep edizione 2018 in Austria – nel 2019 si svolgerà a San Martino di Castrozza

Insomma, una spettacolarizzazione dell’ambiente alpino. Lo scopo di questa iniziativa è infatti esclusivamente pubblicitario; un marchio automobilistico raccoglie i suoi fedeli estimatori e promuove una pubblicità alla macchina; l’Apt locale promuove la bellezza dei luoghi che fanno da scenario alla manifestazione. Ma la promozione ha una dimensione inevitabilmente legata alla logica del profitto, è per sua natura orientata a trarre un vantaggio economico, è utilitaristica. Si dice che così si rilancia una località dove in questi anni il comparto turistico ha conosciuto una crisi.

Siamo sicuri che la via per un rilancio sia la svendita dell’ambiente, unica risorsa veramente preziosa che abbiamo e condizione di ogni altro tipo di valore e di bene – da quello sociale e culturale a quello economico?

Speriamo che vi sia nel frattempo una resipiscenza da parte degli organismi a vario titolo preposti a decidere, anche se ne dubitiamo fortemente, visti i notevoli interessi economici in gioco e l’atteggiamento generalmente prono verso la lobby degli operatori turistici da parte degli amministratori pubblici, ai vari livelli. Perché riteniamo che se la manifestazione sciaguratamente avesse luogo non rappresenterebbe soltanto un danno ambientale per il territorio interessato dall’evento, ma sarebbe un ancor più grave e pericoloso indicatore di un decadimento valoriale e culturale in atto, di una riduzione della delicata e suggestiva complessità dell’ambiente alpino a coreografia esteriore per artificiali – e artificiose – manifestazioni, intese come esibizioni.

Messaggio culturalmente devastante è infatti proporre un’immagine dell’ambiente concepito come uno scenario-per, uno sfondo sensazionale per vivere sensazionali quanto fuggevoli emozioni.

Ma così esso è semplicemente banalizzato; non è esperito e vissuto nella sua stra-ordinarietà naturalistica, nelle sue asperità sociali ed esistenziali, nella sua alterità culturale rispetto alle terre basse, ma è semplicemente, superficialmente messo in vista, reso visibile senza essere autenticamente veduto, non soltanto venduto. Non si crea una relazione tra sé e il paesaggio circostante, non lo si vive in sé attraverso la considerazione della sua bellezza ma semplicemente lo si utilizza-per attraversarlo con dei mezzi a motore; in questo senso esso non è contemplato e non è pensato nella sua sublime distensione; non è previsto infatti fermarsi, soffermarsi presso di esso, ma esso diventa semplice oggetto ameno di consumo, è percorso e con ciò percosso e consumato. È poi contraddittorio l’atteggiamento di fondo dei promotori dell’iniziativa: da una parte si dice di voler dare valore alla bellezza dei luoghi, dall’altra si maltratta quella stessa bellezza paesaggistica che si vorrebbe esaltare e valorizzare, non le si dà valore e reale risalto aggredendola artificialmente, motorizzando un attraversamento senza sosta, senza raccoglimento. Non le si dà ascolto.

Infatti il messaggio che una tale iniziativa promozionale lancia è: la macchina – quel tipo di macchina artigliata – è fatta per aggredire l’ambiente, per vincerlo, per dominarlo superando la sua asprezza e severità naturale e la sua naturale propensione a re-spingere colui che non si sforza e con esso si misura.

La pubblicità di jeep – forze artificiali che arrancano nella fanghiglia con le potenti ruote motrici e il muso aggressivo -, questo vuol significare: non c’è limite naturale all’artificiale potere della macchina, l’ambiente non può opporre limiti; la macchina lo domina con la sua potenza, con la sua presa e perfetta aderenza al terreno. La macchina realizza la volontà di potenza del conducente, ma per ciò la potenza della macchina rende impotente l’uomo nel suo rapporto con la natura – che ora è mediato dall’uomo-macchina – e con ciò lo rende incapace di com-prenderla veramente – comprenderla nella sua essenza prendendola in sé, facendosene carico e non soltanto caricandola di significati e di rappresentazioni che dilatano il proprio ego. Ma così non c’è limite alla violenza che attraverso la macchina – macchinalmente – si fa all’ambiente. Sulla macchina, attraverso la macchina, superiamo quei limiti che l’ambiente altrimenti imporrebbe alla nostra volontà di controllo; ci esime dalla fatica di confrontarci con esso con le sole nostre forze. Non camminando ma veicolando – trasferendoci senza reale attraversamento, che, come tale, non può che implicare la dimensione dell’altrove, dell’altro da sè – si perde non solo il contatto più profondo con la natura ma anche ci si perde, non riconoscendosi più parte integrante di quel contesto ambientale, sociale e culturale, uniti da un destino di inter-dipendenza.

Così perdiamo noi stessi conquistando un effimero, edonistico entusiasmo infantile; giochiamo con la macchina dimenticando che lo scenario è reale. Solo che in questo modo il nostro rapporto con la natura e il paesaggio non è più educativo per noi, nel senso che non ci insegna a comprendere il senso del limite e i limiti imposti alla nostra brama di superare ogni limite da un ambiente severo e insieme fragile, precario; soprattutto, così non giungiamo a riconoscere i nostri limiti – biologici, psicologici, esistenziali – nel confronto con la natura stessa, non ci pone nelle condizioni di comprendere il confine esistente tra incessante volontà-di e realtà-che-esige, in ragione di un principio del piacere scatenato e liberato, ma che non libera. Non c’è libertà infatti senza disciplina e auto-limitazione, senza capacità di rinuncia. L’ambiente diventa così il teatro di uno spettacolo, un palcoscenico per esibire il nostro desiderio di esaltarci senza la fatica della relazione autentica, senza l’esercizio del rigore e l’attitudine al silenzio, senza interiore disposizione all’ascolto e alla visione autentica, che è solo quella che include il paesaggio nell’animo e che ci fa sentire parte di un destino comune, espressione di una bellezza esperita con la ragione e col sentimento. Perché oggi può che mai la nostra relazione con la natura bella e precaria non può che essere etica, oltre che estetica. Portare la natura nel proprio spirito, pur sapendola altra da sé.

Giovanni Widmann
insegnante di filosofia presso il liceo Russell di Cles – Trentino