La cordata dei presidenti “ad honorem”

Pubblichiamo il racconto della salita della Parete Nord dell’Aguille du Triolet (inizio anni ’70) da parte di Carlo Alberto Pinelli e Kurt Diemberger, entrambi presidenti onorari di Mountain Wildereness International.

“ … poi sorse l’alba. Solo in quel momento mi resi conto con un crampo allo stomaco dove ci stavamo davvero trovando. Lo scivolo di ghiaccio verdastro si spalancava sotto i miei scarponi e precipitava verso il fondo valle, ancora buio, con una verticalità quasi surreale. Non poteva essere vero! Eravamo realmente noi due – voglio dire proprio noi due, in carne e ossa – gli equilibristi che si innalzavano a turno lungo quella lastra levigata e implacabile, dura quasi come il marmo? Eravamo proprio noi quei due insetti che danzavano cautamente sul vuoto, avendo come unici ancoraggi le punte estreme dei ramponi, l’ultimo centimetro della becca orizzontale della piccozza, tenuta all’altezza del petto con la mano destra e la ridicola lama di un antiquato chiodo da ghiaccio chiusa nel pugno sinistro? Quante probabilità c’erano che quella sfida alle leggi della gravità avesse successo per quasi mille metri di dislivello?
Sono esattamente queste le sensazioni che ho provato durante l’ascensione della parete nord dell’ Aiguille du Triolet, nel gruppo del Monte Bianco, affrontata in una estate ormai lontanissima che però non riesco a collocare con esattezza nel tempo.

Aguille de Triolet, parete Nord

Lo stesso accade anche a Kurt che ho consultato. L’anno di quell’avventura sfugge a entrambi. Forse saremmo nel giusto se indicassimo l’inizio degli anni settanta. Una cosa è certa: in quelle settimane la parete si presentava come un ininterrotto scivolo di ghiaccio vivo, dalla terminale al colletto che precede la vetta. Condizioni quasi estreme per chi, come noi, non sapeva ancora nulla della moderna tecnica del “piolet traction” che avrebbe facilitato molto l’impresa. Proprio da questo ricordo, particolarmente intenso, desidero iniziare il racconto della lunga amicizia che mi ha unito a Kurt Diemberger.

Kurt Diemberger foto MW.org 2017

Non solo perché quella fu l’unica volta in cui ci siamo legati alla stessa corda, ma anche, anzi forse soprattutto, perché fu durante quell’avventura che ho compreso fino in fondo la grande generosità del mio compagno. La sera prima, nel rifugio Argentiere, avevamo concordato che sarebbe stato Kurt a tirare da primo l’intero percorso. Era lui, dopo tutto, il ghiacciatore che aveva vinto la mitica “meringa” del Gran Zebrù! Però poi finimmo con l’ alternarci al comando per allentare una tensione che, un tiro dopo l’altro, in quelle condizioni precarie, diventava sempre meno gestibile.

Carlo Alberto Pinelli

Attaccammo al buio, con le lampade frontali, e uscimmo da quell’abisso che era di nuovo quasi notte. Bisognava bivaccare. Solo allora mi accorsi di aver dimenticato al rifugio la pesante giacca del piumino. Il freddo cominciava a essere intenso. Kurt, come se la cosa non avesse importanza, mi passò il proprio “duvet” e trascorse la lunga, gelida notte, praticamente in maniche di camicia o poco più. Gliene sarò grato per sempre. Mi sorprese che Kurt la mattina successiva non sembrasse per nulla provato. Durante l’interminabile discesa lungo le rocce del versante italiano, trovò più volte il tempo e la voglia di fermarsi a cercare cristalli, tra le mie divertite proteste.
Ci eravamo conosciuti vari anni prima, durante un convegno sulle montagne dell’Hindu Kush, organizzato a Innsbruck da suo padre. Io ero stato invitato a prendervi parte perché nel 1959 avevo raggiunto la vetta inviolata del monte Saraghrar, di oltre settemila metri, quarto monte per altezza di tutto l’Hindu Kush. Kurt allora era già un alpinista famoso ma non destava la minima soggezione. Rallegrò gli intervalli del convegno con la chitarra, che suonava benissimo, e mi confidò i suoi progetti cinematografici. Lo ricambiai con la stessa moneta, dato che proprio in quegli anni mi stavo affacciando alla professione di documentarista. In seguito ci capitò di incontrarci più di una volta nelle alte vallate del Pakistan settentrionale, diretti verso mete diverse, o – come si è visto – nel massiccio del Monte Bianco. Ricordo in particolare la bellissima ascensione alla ovest del Monte Bianco che ci vide alla testa di due cordate diverse. Giunti ai Rochers de la Tournette, a pochi passi dalla vetta, venimmo colti dal cattivo tempo. Inutile proseguire. Poco più in basso, nei pressi della capanna Vallot, incontrammo varie cordate di alpinisti incapaci di orientarsi nella fitta nebbia e frastornati dalla tormenta. Kurt a quel punto estrasse carta e bussola e iniziò a navigare “ scientificamente” verso il rifugio Gouter. A lui si aggregarono molti dei dispersi, in fila indiana. Sembrava un quadro di Brugel. Io invece optai per un sistema più artigianale: iniziai a scendere individuando, una dopo l’altra, le chiazze gialle delle urine, particolarmente visibili nella nebbia e prodotte dalle numerosissime cordate che erano salite quella mattina verso la vetta. Ne scorgevo una ogni poche decine di passi …Un tantino volgare ma efficace come filo di Arianna! Anche alle mie spalle si formò una fila di alpinisti. I due percorsi a volte scendevano in parallelo, a volte divergevano. L’incerto profilo del “trenino” guidato da Kurt per qualche breve istante compariva alla mia destra, per poi dissolversi come un fantasma. Comunque giungemmo tutti, quasi contemporaneamente, allo snodo della crestina che porta al rifugio.

Carlo Alberto Pinelli e Lodovico Sella. Foto: Roberto Serafin / Mountcity


Ma al dilà dell’alpinismo Kurt ed io mettemmo in comune almeno un paio di volte la nostra passione professionale per il documentarismo d’avventura. Negli anni ‘70 Folco Quilici ed io avevamo avuto l’incarico dalla Metro Goldwin Meyer di realizzare a quattro mani un lungometraggio ispirato liberamente alla crisi del modello del progresso capitalistico annunciata dagli studi profetici del MIT di Boston. Il film fu realizzato, andò nelle sale, ma non ebbe un particolare successo. Si chiamava “ Il Dio Sotto la Pelle”. Resta, malgrado i molti difetti, il primo documentario ecologico della storia del cinema. Un lungo episodio doveva essere filmato tra gli Yanomami dell’alto Orinoco, in Amazzonia. In quell’occasione chiesi l’aiuto di Kurt offrendogli la realizzazione della colonna sonora in presa diretta. Fu un’ esperienza affascinante, ricca di imprevisti, di disagi, di particolari umoristici e di colpi di scena. Dovevamo anche girare alcune sequenze di docu-fiction e in una di queste riuscii a convincere Kurt a vestire i panni di un missionario francescano. Se la cavò benissimo, tra gli applausi di tutta la troupe.
Passarono gli anni; solo dopo la tragedia del 1986 al K2 i nostri legami ripresero vigore, anche se per la verità non si erano mai interrotti. Impossibile dimenticare la profonda angoscia che mi trasmise il racconto di quella catastrofe, costellata da tanti errori e da tanti morti, che mi fece Kurt appena giunto a Roma, con la mano destra ancora fasciata, priva di varie falangi e la voce rotta.

Al di là del dolore atroce per la perdita della compagna, avrebbe ancora potuto, così menomato, riprendere l’attività di film maker? Negli anni immediatamente seguenti la nostra amicizia venne rinsaldata dal condiviso e appassionato impegno ambientalistico. Impegno che portò alla nascita dell’associazione Mountain Wilderness di cui già dall’inizio entrambi venimmo eletti Garanti a livello internazionale. I consigli di Kurt mi aiutarono moltissimo nell’organizzazione della spedizione FREE K2 ( 1990).

Free k2 è la prima vera avventura in difesa delle grandi montagne del mondo, la missione che ha aperto le porte dell’ambientalismo in Himalaya. Una missione di MW!

All’inizio del terzo millennio lui fu nominato presidente onorario della nostra associazione, in sostituzione di Chris Bonington. Solo nel 2018 l’assemblea internazionale ha voluto onorarmi con lo stesso titolo. Ora Mountain Wilderness ha due presidenti onorari. Una cosa un po’ singolare, che però lo Statuto permette. Così, mentre si avvicina il tramonto delle nostre vite di alpinisti, la vecchia cordata del Triolet è stata simbolicamente ricostituita. Pensarlo riscalda il cuore!

Betto Pinelli.