La montagna che scompare

di Franco Perlotto
(pubblicato sul Supplemento D di La Repubblica, rubrica Ambiente, 21 aprile 2018, con il titolo originale La montagna scomparsa)

L’immagine delle montagne sventrate dalle voragini delle cave, spesso per ricavarne materiale poco pregiato, ci insegue ovunque ma non fa notizia. Disastri ambientali che ci siamo abituati a vedere, passandoci a piedi o in macchina. Un po’ perché quella delle cave è una pratica millenaria, quindi non la viviamo come un’eccezione, un po’ perché fanno comodo (dalle concessioni estrattive traggono beneficio Regioni e Comuni). Così le montagne perdono il loro profilo o addirittura scompaiono, rase al suolo da anni e anni di escavazioni. I comitati spontanei di cittadini, spesso indicati come “i soliti ambientalisti”, non vengono ascoltati più di tanto. Gli amministratori locali tacciono. E l’elenco di montagne sfregiate sta diventando lunghissimo: i 1241 m del Cornizzolo tra Lecco e Como, il Linzone in provincia di Bergamo, e il Costa vicino a Lucca, a ridosso delle altrettanto martoriate Alpi Apuane.

Cava sul Cornizzolo

Il comitato locale Monte Costa ha inviato l’ennesima lettera al sindaco del paese di Seravezza: “Siamo preoccupati: dite che 35 autocarri al giorno non avranno un impatto così importante quando, per vostra stessa ammissione, non avete la minima idea del numero dei mezzi pesanti che già attraversano il paese. Per dare qualche dato: nell’inverno appena passato, in via Marconi in dodici ore ne transitavano circa 260, e non meno di 100 come credevate. Fate in modo di non passare alla storia come l’amministrazione che ha strangolato Seravezza con polveri, traffico e rumori, ma come quella che ha cercato di rendere il paese più vivibile. Avremmo la fortuna di vivere in una zona magnifica a ridosso delle splendide Apuane, a due passi dal tranquillo Tirreno, ma per colpa di imprenditori senza scrupoli e politici ciechi questo ex-paradiso terrestre è diventato una fabbrica di terribili patologie”.

Le cave non portano solo un danno paesaggistico, ma un impoverimento della qualità della vita di chi ci abita vicino. Forse è per questo, perché lo sdegno è limitato alle piccole comunità di montagna toccate dal problema, che l’allarme non viene ascoltato. Ma se appena si presta attenzione, lo scempio è quasi insostenibile: forse il più noto è quello delle Alpi Apuane, tra le province di La Spezia, Massa-Carrara e Lucca. Nel bacino marmifero di Carrara ci sono 190 cave, un centinaio delle quali attive: quasi tutte, nel grande anfiteatro naturale che comprende il Monte Uccelliera, il Monte Borla, il Monte Sagro, la Cima di Gioia e il Brugiana.

E, assieme alle escavazioni, ci sono le discariche di residui di marmo che imbiancano le valli a volte ben visibili perfino dal mare.

Il Picco Falcovaia, Apuane 

Le prime notizie sull’estrazione del marmo dalle Apuane risalgono all’Impero Romano, I secolo a.C. (e alla fine del XIX secolo Carrara divenne la culla dei movimenti anarchici proprio tra i cavatori, compresi gli intagliatori di pietra: furono i primi a distinguersi per le posizioni politiche radicali). La distruzione di queste bellissime montagne ha dunque origini antiche, ma continuano a essere sfruttate e demolite, oggi più di un tempo, con mezzi sempre più efficaci e aggressivi.

Oltre alle Apuane, ogni angolo delle montagne italiane subisce una propria devastazione. Notissime anche le cave di Botticino a Brescia o gli scempi di Camposilvano a Velo Veronese, uno dei 13 comuni cimbri sulla via del Concilio di Trento. Perfino sulle zone della Grande Guerra, al Passo di Monte Croce Carnico, a 1360 metri nel comune di Paluzza in provincia di Udine, sono nate cave di marmo, e da qualche anno si parla addirittura di ampliamento.

Una delle associazioni più attive a livello globale per la salvaguardia è Mountain Wilderness, un’organizzazione internazionale fondata a Biella nell’87 da alpinisti di ogni parte del mondo, riuniti su sollecitazione del Club Alpino Accademico Italiano e della Fondazione Sella per definire le strategie di contrasto alla progressiva degradazione delle montagne e degli ultimi grandi spazi deserti. Alessandro Gogna, tra i padri fondatori, è uno dei garanti. Alpinista tra i più forti in Italia, è conferenziere e autore di articoli e di una ventina di libri sul tema. Ha vinto il Premio Bancarella Sport. Ha lanciato importanti iniziative ambientali come Marmolada Pulita. Free K2, Proteggi il Bianco, Aquila Verde, Save the Glaciers, Bonifica CAI del Ghiacciaio del Baltoro. Gogna è una delle voci più autorevoli in Italia e nel mondo per la protezione dell’ambiente montano. «Il paesaggio di montagne rosicchiate dall’uomo e trasformate in cave mi fa venire in mente il rischio di estinzione, esattamente come per certi animali e per chissà quante specie vegetali. Il regno minerale ha, nella mia etica e in quella dei primitivi, la stessa dignità degli altri due. Chi pagherà davvero saranno i nostri figli e nipoti», dice Gogna. «Le questioni estetiche e la sostenibilità ambientale sono importantissime, ma quello che deve passare è il concetto che il bene-roccia è comune, e che non si può disporne a piacimento per gli usi più immediati. Come sta succedendo, in maniera più evidente, per l’acqua. La privatizzazione è da evitare, e le cave ne sono l’espressione selvaggia». Gogna prosegue la sua osservazione: «La catena più interessata in Italia è evidentemente quella delle Alpi Apuane.

Sono a rischio di estinzione perché a una tradizionale attività di estrazione se ne è sostituita in pochi anni una di tipo industriale, fatta in gran parte a macchina. Risultato: sono diminuiti i posti di lavoro, ma non l’indotto. Intere sezioni di montagna, dove non ci siano filoni marmiferi di prim’ordine, vengono fatti saltare in aria per produrre carbonato di calcio».

Questa è una sostanza che genera un eccesso di Pm10 (Particulate matter, quel materiale presente nell’atmosfera in forma di particelle microscopiche): un esempio tra tutti è Rezzato, vicino alle cave di marmo di Botticino, tra i centri più inquinati della Lombardia, con una concentrazione media del 28% di Pm10 sul totale delle polveri inquinanti disperse nell’aria a causa della cava.

Alessandro Gogna

L’introduzione dei macchinari ha aperto la possibilità di fare “sondaggi” ovunque, lasciando poi l’ambiente scoperchiato, distrutto, anche senza cavare un metro cubo di materiale.
Le alluvioni delle ultime decadi hanno costretto alla parziale asportazione dei coni di discarica e dell’invasione ghiaiosa di marmettola, il residuo di marmo finemente tritato che inquina gran parte dei corsi d’acqua delle Apuane.
Resta il fatto che la marmettola è responsabile di un grave impatto biologico: si deposita sul fondo, distrugge i microambienti e mette a repentaglio le specie animali. I “soliti ambientalisti”, più una piccola parte di popolazione, vorrebbero che le amministrazioni facessero passare modelli di economie alternative: che però non passano. E si continua così, arricchendo poche famiglie, tra l’altro in gran parte straniere.

Qualche piccolo risultato positivo si è visto solo negli ultimi anni. Un comitato spontaneo di cittadini di Valdagno e Recoaro Terme, in provincia di Vicenza, ha impedito nel 2008 l’apertura di una cava che avrebbe distrutto il Monte Civillina 962 m e portato un immane inquinamento da trasporto su gomma nell’intera vallata dell’Agno. In Valle d’Aosta c’è un progetto per la valorizzazione delle cave dismesse come musei geologici all’aperto. Molto nota è quella di Rubbio, una contrada divisa tra il comune di Bassano del Grappa e di Conco, sempre in provincia di Vicenza. L’artista bassanese Toni Zarpellon negli anni ’80 l’ha affrescata e resa famosa con il nome di Cava Dipinta. Ma purtroppo queste best practice non sono che piccole gocce nell’immensità di una devastazione che non vede limiti.

Franco Perlotto, scalatore e scrittore, ha una laurea honoris causa in Educazione ambientale. Nel 1978 ha scalato con Alessandro Gogna, in prima italiana, la via Salathé sulla parete di El Capitan, nella Yosemite Valley, California.