La montagna è l’antidoto? Dipende
Pubblichiamo l’editoriale di Enrico Camanni dell’ultimo numero di Dislivelli
Che cosa ci insegna l’epidemia da Coronavirus se la guardiamo con gli occhiali da montagna? Il primo insegnamento è che montagna e città si toccano, non esistono comparti geografici stagni; il mondo è uno, più piccolo di una scatola di cioccolatini; il malpensare e il malagire locali provocano danni di portata vasta, il progetto e la buona pratica nati in un piccolo luogo sono perle per il mondo intero. Il primo insegnamento è dunque la perturbazione globale del Covid-19, perché il virus ha messo in ginocchio un’economia planetaria che credevamo invincibile. Come ha scritto Erri De Luca «ecco che un’epidemia di polmoniti interrompe l’intensità dell’attività umana. I governi stabiliscono restrizioni e rallentamenti. L’effetto pausa produce segnali di rianimazione dell’ambiente, dai cieli alle acque. Un intervallo relativamente breve mostra che la minore pressione produttiva fa riprendere colore alla sbiadita faccia degli elementi. La micidiale polmonite che soffoca il respiro, sta a specchio dell’espansione umana che soffoca l’ambiente».
Tuttavia localmente il virus ha mostrato effetti diversi. La città è apparsa ancora una volta il focolaio delle patologie di massa, proprio come ai vecchi tempi, mentre la montagna si ergeva nell’immaginario a baluardo della salubrità pubblica. I cittadini scappavano in alto per sfuggire al virus e i montanari li ricacciavano a valle come untori. Era la riprova della contraddizione alpina, di quello strano pensare e fare che da un lato beneficia ancora di un tessuto di villaggio capace di solidarietà nei momenti di crisi e dall’altro dipende a filo doppio dal mercato per via del turismo e delle seconde case.
La globalizzazione turistica è emersa con evidenza all’inizio della crisi, quando gli alberghi a quattro stelle hanno perso le ricche prenotazioni straniere su cui punta l’attuale settimana bianca. In pochi giorni gli hotel erano vuoti. Vanificatosi il mercato internazionale, che pare l’unico, ormai, a sostenere l’industria e l’indotto dello sci, restava solo lo sciatore di prossimità che non dorme in quota (se non ha la seconda casa), non mangia nei ristoranti di lusso e non compra quasi niente, salvo il pass per le piste. Mentre l’Italia si difendeva chiudendo le scuole, i negozi, i pub e altri luoghi di ritrovo, davanti agli impianti di sci si ammassavano folle senza cervello, sotto gli occhi di gestori impreparati e complici. Finché arrivava l’ordine – «Lo sci è vietato come gli altri sport» – e immediatamente i portatori di denaro diventavano portatori di malattia, da rimpatriare con urgenza nelle città malsane.
Mi pare che la lezione sia più chiara e pesante che mai, e ancora una volta valga la regola del pensare globalmente e agire localmente, purché non ci si faccia abbagliare dal globale (lontano è bello) né soffocare dal provincialismo (a casa mia comando io e chiudo i recinti). Le Alpi sono un patrimonio mondiale di cui tutti hanno il diritto di godere, non c’è dubbio, però non esiste bellezza al mondo che si salvi se non è amata, frequentata e curata da chi vive appresso. L’illusione di “vendere” le Alpi prima di tutto a chi viene da molto lontano, solo perché ha il portafoglio molto gonfio, cozza con il bisogno, anzi l’urgenza, di una frequentazione intima e consapevole, una cura non soggetta a gusti e mode indotte dal mercato, profondamente inserita nel milieu territoriale, culturale e sentimentale. Il coronavirus ci insegna che se il turismo di massa è fragile, volubile e vulnerabile ai contagi di massa, vivere i luoghi con sguardo partecipe e delicato può essere l’antidoto a molti virus.
Enrico Camanni