Limiti e testimonianze

LA MONTAGNA: uno scrigno da non perdere. Questo il titolo dell’iniziativa organizzata nell’ambito degli “Incontri Tra/Montani”; da trent’anni, all’inizio dell’autunno, un gruppo culturale organizza nella propria valle un convegno su un tema che viene scelto dal gruppo stesso.
Sono appuntamenti itineranti, si è passati dal Piemonte alla Lombardia, dalla Svizzera all’Austria, dal Trentino al Sudtirolo, dal Veneto al Friuli, con un paio di puntate sull’Appennino. Comune denominatore: la necessità di incontrarsi e di confrontarsi, di parlare di sé e di ascoltare gli altri, perché le montagne uniscono.
Quest’anno ci si è riuniti a Pieve di Bono-Prezzo, valle del Chiese, Trentino. Un paese da cercare sulle carte per chi non lo conosce, ma non privo di storia e di cultura come hanno dimostrato le visite guidate organizzate per i partecipanti al convegno. C’era anche Mountain Wilderness, invitata a parlare per portare la propria esperienza e testimonianza di chi si occupa della montagna per studio, per lavoro, per scelta di vita. Ma andiamo con ordine.

Serata di venerdì 2 ottobre, tavola rotonda: “La montagna dopo Vaia: cosa fare e non fare?”, dibattito con interventi dell’antropologo ed ex presidente del CAI Annibale Salsa e Michele Nardelli, autore (con Diego Cason) del recente ed interessantissimo libro “Il monito della ninfea. Vaia, la montagna, il limite”, Bertelli Editori.
Intanto alcune curiosità su Vaia: lo sapete perché è stata chiamata così? Dal 1950 l’Istituto Meteo dell’Università di Berlino vende i nomi delle aree di alta e bassa pressione per finanziarsi. In questo caso Vaia Jakobs, una signora tedesca, ha ricevuto come “regalo” il certificato che attestava come una bassa pressione che doveva attraversare l’Europa nel 2018 avrebbe portato il suo nome.
Fin qui un aneddoto divertente, ma poi le note dolenti: 45.525 ettari di bosco spazzati via in una notte, venti fino a 192 km/h e una quantità d’acqua corrispondente all’alluvione del 1966. L’hanno chiamata tempesta, ma si è trattato di un vero e proprio uragano. 5 regioni diverse investite: Lombardia, Trentino, Sudtirolo, Veneto e Friuli. Un territorio disomogeneo con leggi diverse, assetti proprietari diversi, storia e geografia diverse; diverse sono state anche le capacità di reazione sui territori, nel bellunese e in Carnia -le zone più colpite a livello idrogeologico- la risposta è stata più difficile. A distanza di due anni dall’evento, queste regioni non hanno ancora trovato un’occasione per coordinarsi; tanto per fare un esempio, le amministrazioni più capaci di autogovernarsi hanno spuntato prezzi sul legname fino a quattro volte superiori alle altre, ma non si tratta solo di autonomia amministrativa -il Friuli è regione autonoma- quanto di organizzazione e strumenti a disposizione.

Foreste devastate da Vaia

Vaia è un evidenziatore, una cartina di tornasole per le problematiche della montagna combattuta tra utilizzo e sfruttamento, ed è qui che si evoca una prima volta il concetto di limite. Nelle società pretecnologiche le attrezzature in dotazione non avevano la capacità di degradare il paesaggio, oggi invece la tecnologia fornisce macchinari con un potente effetto moltiplicatore; mentre prima il limite era imposto in modo oggettivo da ciò che si aveva a disposizione, ora il limite è divenuto soggettivo e dobbiamo imporcelo noi stessi. L’Italia consuma 2,7 volte le risorse del proprio territorio, a livello mondiale consumiamo 1,7 pianeti all’anno. I limiti sono dunque ampiamente superati, manca l’equilibrio tra la popolazione esistente e le risorse disponibili.
Quando si parla di boschi si pensa alla montagna, ma la montagna negli ultimi decenni si è già rimboschita a discapito del governo del territorio, sempre più abbandonato; mancano invece i boschi di pianura, perfino le città dovrebbero essere rimboschite, ma la gestione economica della pianura non lo permette. Vaia insegnerà qualcosa?

Sabato 3 ottobre, sessione mattutina dedicata al convegno. Non ce ne vogliano gli altri relatori, ma il vero intervento centrale della mattinata è stato quello di Lina Maria Calandra, docente di geografia e ricercatrice presso l’Università dell’Aquila, un intervento pacato ma al tempo stesso durissimo per raccontare la cosiddetta “mafia dei pascoli” (https://www.virtuquotidiane.it/cronaca/la-ricerca-delluniversita-dellaquila-che-scoperchia-lomerta-sulla-mafia-dei-pascoli.html). Con la riforma del 2003 è entrato in vigore il sistema dei titoli Pac (Politica agricola comune), se prima di allora i contributi europei venivano concessi in base alla produzione, da quel momento vengono calcolati sulla media dei contributi ricevuti prima di allora diviso per il numero di ettari; chi coltivava in modo intensivo ha avuto titoli molto alti, ecco che si è scatenata la corsa agli ettari che moltiplicano i finanziamenti. Dove si sono andati a cercare gli ettari di terreno? Certo non nelle aree densamente antropizzate, ma nei pascoli di montagna. Dal 2013 poi l’Italia è l’unico Stato membro ad aver lasciato il paese come un’unica regione, quindi chiunque può spalmare i propri titoli ovunque in lungo e in largo per la penisola. Si dice “in fondo si tratta di fondi europei”, come a sollevarsi da responsabilità, ma a parte il fatto che l’Europa viene sovvenzionata dagli stati e cioè da noi stessi, le conseguenze sono pesanti per l’economia di territori già in difficoltà. Gli allevatori abruzzesi avevano titoli bassi rispetto ai grandi allevatori di altre regioni, quindi sono stati tagliati fuori. Chi alleva animali non ha più terreno per il pascolo, e chi invece ha intrallazzato a scopo speculativo guadagna soldi senza fare nulla; è tutto perfettamente legale, ma non è giusto. Ecco che si evidenzia un altro limite: quello fra legalità e legittimità, due concetti che dovrebbero andare di pari passo ma che a volte si contrappongono con effetti devastanti. E diversi allevatori “di casa”, residenti nella valle del Chiese, sono intervenuti per dire che sì, certe cose si verificano anche qui, la condivisione delle esperienze può dare buoni frutti.

Il pomeriggio di sabato è aperto ai contributi di gruppi, studiosi o semplici testimoni; la sessione viene divisa in due aule separate, perché dieci relatori in poco più di tre ore sono davvero troppi per chiunque! In questo ambito si svolge la relazione del presidente di MW Franco Tessadri, che nel poco tempo a disposizione riassume brevemente la storia dell’associazione e focalizza un tema principale tra i tanti dei quali ci occupiamo: l’esperienza della nostra presenza all’interno della Fondazione Dolomiti UNESCO, con il legame alle problematiche sulla mobilità alpina e la motorizzazione in montagna. In generale, tutti gli interventi del pomeriggio hanno ripreso in qualche modo i temi della tavola rotonda della sera precedente e del convegno della mattinata, contestualizzandoli in ambiti diversi e più locali ma partecipando al dibattito complessivo ed offrendo diverse visuali ed argomentazioni. Chi resta, chi torna, chi arriva; diversi modi di vivere in montagna, di vivere la montagna.

Insomma, lo “scrigno da non perdere” alla fine deve essere aperto, non deve nascondere le gioie contenute al proprio interno ma mostrarsi in tutta la sua brillantezza con l’orgoglio tipico della gente di montagna. Noi abbiamo dato il nostro piccolo contributo, ed abbiamo raccolto testimonianze di grande livello che porteremo con noi nel bagaglio che ci accompagna lungo il percorso delle nostre esperienze. La cultura del limite potrà rappresentare non la preclusione di obiettivi al di là dello sguardo, ma costituire essa stessa un nuovo orizzonte. Riprendendo l’intervista ad Alessandro Gogna pubblicata nei giorni scorsi, se oggi coltiviamo l’illusione che il riappropriarci della natura, quindi “averla”, possa sostituire l’esigenza di “esserla”, dovremo cercare di tornare ad essere natura. Con tutti i suoi limiti.

Fabio Valentini