Non fate del male alla montagna
Di Paolo Cognetti. Copyright: La Repubblica
E’ avvilente, per chi ama e vive la montagna, assistere in questi giorni al dibattito sull’apertura natalizia delle piste da sci.
Gli impiantisti dicono: Noi teniamo in piedi l’economia di montagna, se a Natale non ci lasciate lavorare la montagna è morta!. Come se in montagna non ci fosse altro da fare che sciare. E il governo risponde: Rassegnatevi, non ripeteremo l’errore di Ferragosto, quest’anno niente Natale sulla neve. Come se la neve fosse solo quella (in buona parte artificiale) delle piste da sci.
Per cui è bene ripeterlo ancora una volta: le piste da sci stanno alla montagna come le spiagge a pagamento stanno al mare. Al mare si può nuotare, passeggiare, andare in barca, sedersi su uno scoglio a leggere un libro, trovarsi una spiaggia libera e fare tante altre cose che non siano affittare un ombrellone e una sdraio fino all’ora di andare al bar, e così in montagna. Si può camminare sulla neve o sui sentieri, vagabondare per i boschi o sedersi al sole, si può ciaspolare e perfino sciare dove non serve il biglietto e non c’è la funivia: strano a dirsi, ma lo sci non è nato sulle piste.
Ed è molto più bello praticarlo dove la montagna non è stata ridotta a un’autostrada. Bisogna ripetere anche questo, che una pista da sci è montagna disboscata, spianata e cementificata, è percorsa da mezzi a motore per tutto l’anno, e consuma troppe risorse per produrre neve artificiale e far girare gli impianti. In effetti, più che a una spiaggia assomiglia a un parco di divertimenti.
C’è parecchia arroganza nella convinzione, da parte di imprenditori e amministratori, che l’economia invernale della montagna dipenda dallo sci su pista, perché oggi non esiste la controprova. È vero che lo sci dà lavoro a tante persone, ma non è detto che quel lavoro non possa trasformarsi (in meglio). Un dato certo: nel 2020 abbiamo avuto, in quanto a turismo di montagna, l’estate migliore da molti anni a questa parte, grazie al coronavirus.
La pandemia ha dato un taglio ai viaggi all’estero e forse anche ai lussi superflui; il lungo confinamento ha messo in molti di noi la voglia di vita all’aria aperta, di tempo e spazio per sé, di andarsene in giro liberi e senza troppa gente intorno; l’obbligo o la facoltà di lavorare da casa hanno aperto una possibilità inaspettata, quella di trasferirsi con la propria famiglia da un appartamento di città verso luoghi più piacevoli e spaziosi. In montagna si è lavorato molto bene, la scorsa estate. Per la qualità oltre che la quantità di presenze. Alcuni sono perfino rimasti, hanno deciso di trasferirsi definitivamente (altro dato certo: nella mia valle, per la prima volta da anni, in settembre sono aumentate le iscrizioni all’asilo). A noi che la montagna la osserviamo, la studiamo, cerchiamo di immaginarla nel futuro, tutto questo ha dato molto da pensare: una crisi aveva generato nuove privazioni, ma anche nuovi bisogni e nuove possibilità; forse aveva amplificato, reso urgente un bisogno che veniva da più lontano; e in definitiva quella crisi non stava provocando una decadenza, ma piuttosto una rinascita.
Perché questo fenomeno non dovrebbe proseguire anche in inverno, con o senza le piste da sci? Perché ridurre il discorso intorno all’economia di montagna a un “lasciateci sciare a Natale”? Forse invece è l’occasione buona per scoprire se un’altra montagna è possibile – con un turismo che consumi meno, invada meno, passi meno di fretta, e si trasformi almeno in parte in un ripopolamento, portando alla montagna non solo clienti e denaro ma umanità e cultura. Quella montagna fuoripista per favore non chiudetela.
Paolo Cognetti