Oggi Ulisse resterebbe nella sua isola

Fruttero & Lucentini, da “La prevalenza del cretino”, 1985, Arnoldo Mondadori Editore

«Cartacce e rifiuti a quota 8000», diceva un tragico titolo apparso tempo fa su questo giornale. Il trafiletto riferiva che la cima dell’Everest, visitata da innumerevoli comitive di scalatori, è ormai cosparsa d’immondizie e rottemi d’ogni specie, tende, scatolame, macchinette e arnesi vari, piatti, tazze, posate, bombole vuote, senza contare i «borsini» di plastica, simbolo onnipresente della nostra civiltà.
Ma tutta la immane catena – a quanto risulta da una «Conferenza per l’Himalaya» tenuta in questi giorni a Monaco di Baviera – è nelle stesse condizioni. Non diversa, immaginiamo, sarà la situazione sulle Ande. E lo stesso accadrà sulla Luna, su Marte, non appena ci si potrà andare con un’agenzia di viaggi.
Anche chi non ha la passione della montagna ed è indifferente all’astronautica non può non provare una gelida stretta al cuore. E’ troppo poco farne una questione di educazione, auspicare corsi di buone maniere alpinistiche, metter su un sistema di divieti, controlli, ammende salate, risarcimenti. Una fila di escursionisti compunti come collegiali, un campo-base tenuto come una caserma prussiana, una meticolosa raccolta di spazzatura mediante netturbelicotteri delle nevi, non toglierebbero purtroppo nulla all’intrinseco orrore della faccenda. Sì, si potranno limitare i danni; ma il danno essenziale, il danno metafisico e irreparabile, sta nel fatto che su quelle vette favolose ci sia un cartello che avverte: «I trasgressori saranno puniti aisensi dell’art. 261».

Coda sull’Everest


Già più di mezzo secolo fa Paul Valéry, a chi gli chiedeva che cosa distinguesse l’epoca moderna da tutte le altre, rispondeva: la scomparsa di terre ignote. E, prima di lui, Apollinaire invocava l’arrivo di un Colombo che «disiscoprisse» l’America, per ridare un po’ di spazio a questo pianeta ormai totalmente esplorato, cartografato, conquistato, e quindi miseramente ristretto come un guanto di lana lavato in acqua bollente.
Soprattutto il sedentario profittava di quei territori sconfinati e misteriosi, di quelle cime vergini, di quei poli inaccessibili; soprattutto il timido profittava di quelle avventure, di quelle sfide di piccoli uomini alle forze ancora titaniche della natura, venti e ghiacci, cascate e foreste, sabbie e oceani.
Ma quale esultanza, quale esaltazione possiamo condividere dalle nostre poltrone con un indomito imbecille che, oggi, attraversa l’Atlantico in sandolino? Con altra brava gente, che si toglie la soddisfazione di rischiare (moderatamente) la vita nel Sahara, nel Congo, sull’Himalaya? Sono coraggi turistici, temerarietà sfiziose, vane emulazioni, fatue, pubblicitarie scimmiottature, che contribuiscono a creare attorno al globo la più inquinante delle atmosfere, quella dell’inautenticità.
Viene il sospetto che un uomo autentico, un duro, un degno erede di Ulisse, sia oggi colui che, disdegnando le imprese di seconda e terza mano, resistendo alle avventure col borsino e alle sirene del «tutto compreso», resta a casa sua, accanitamente, eroicamente immobile.