Per un alpinismo neo umanista

Come dare forma al valore formativo dell’avventura in montagna? Di Nicola Pech

Un articolo, scritto da Gian Piero Motti nel 1976 e recentemente pubblicato sul GognaBlog con il titolo “Dove va l’alpinismo?”, si presta come spunto per alcune considerazioni in merito alle ipotesi di limitare gli accessi alle vie normali del Monte Bianco e del Cervino, prospettate dopo l’ennesima estate di incidenti, risse, rifugi sovraffollati e bivacchi diventati veri e propri immondezzai.

Foto: Sergio Ruzzenenti

Questi episodi, che ormai si ripetono ogni estate, sono la conseguenza della popolarità che sta vivendo l’alpinismo sulle più famose vie normali dei quattromila delle Alpi. Se non conoscessimo la data, l’articolo di Motti potrebbe sembrare un editoriale scritto per una qualsiasi rivista di alpinismo contemporanea: è un’analisi lucida e attuale della direzione in cui stava andando l’alpinismo 40 anni fa e non sembra molto distante da quello che vediamo oggi.

Gli ingredienti ci sono tutti e ricorrenti: le montagne più famose prese d’assalto, i rifugi zeppi, l’incremento dei mezzi tecnici e la regressione sul piano umano, l’illusione di poter aprire il territorio alpinistico a chiunque sotto la spinta commerciale delle aziende di materiale tecnico, dei gestori degli impianti a fune e degli uffici turistici.

È passato quasi mezzo secolo ma nulla sembra cambiato: cresce il livello tecnico dell’alpinismo ma la tecnica da mezzo diventa fine, si fa pensiero, determina il capovolgimento della qualità in quantità. La ricerca di se stessi, delle proprie capacità di osservare, ascoltare e decidere è spesso sostituita da obiettivi scelti solo per la gratificazione dell’ego, ma privi di sensibilità, di risonanza sensoriale e percettiva, di comprensione, di reale consonanza con il proprio sentire profondo.

Foto: Sergio Ruzzenenti

Il rischio stesso e la rinuncia, ineludibili in montagna e strettamente connessi all’assunzione di responsabilità personale, lasciano spazio a un’interpretazione “manageriale” dell’alpinismo che non accetta fallimenti. I tempi si fanno sempre più serrati, la programmazione è maniacale perché non è contemplata la rinuncia: non si può tornare a casa senza il trofeo.

La sicurezza è diventata un’ossessione ma è sempre delegata ad altri o ad altro: totalmente sbilanciata sulla tecnica, l’attrezzo, il protocollo. Poco o nessuno spazio alla creatività, alla libertà, anche di sbagliare. Il dibattito all’interno del mondo alpinistico non è di certo nuovo e molte voci, fin dalla seconda metà del secolo scorso, hanno denunciato la deriva che l’alpinismo stava prendendo. Molto è stato fatto, molto è stato scritto ma evidentemente, osservando la realtà, poco è cambiato.

È quindi necessario ribadire con forza che, oggi più che mai, è necessario guardare avanti per sostenere un alpinismo che abbia grande consapevolezza dell’ambiente in cui il gioco si svolge e piena coscienza di se stessi e del motivo che spinge ad andare in cima alle montagne.

Foto: Michele Comi

Oggi che tutto o quasi è stato conquistato, che il livello tecnico si è spinto così in là, se non si vuole che l’alpinismo sia “semplicemente” uno sport come tanti altri, non si può prescindere da una profonda ricerca interiore e del rapporto indissolubile con la natura, con il nostro corpo e con le nostre emozioni più profonde. La consapevolezza dell’estrema fragilità delle Alpi e delle logiche che per secoli ne hanno consentito la sopravvivenza non può mancare all’alpinista del XXI secolo.

La conoscenza della storia e delle motivazioni di chi prima di noi ha scalato le montagne deve essere ben nota a chi voglia elaborare una propria etica dell’alpinismo che, per avere uno sguardo al futuro, non può che avere radici profonde.

Se davvero crediamo “al valore formativo dell’avventura in montagna” (citando la Tesi di Biella), dobbiamo e possiamo trovare un senso all’alpinismo che vada al di là del grado, della performance. Ed è solo scavando dentro di noi, nelle nostre aspirazioni e nelle nostre paure, che saremo in grado di darci delle risposte.

La metafora di Yuval Noah Harari sul lavoro si applica bene anche all’alpinismo: “Abbiamo allevato docili mucche che producono notevoli quantità di latte, ma per il resto sono di gran lunga inferiori rispetto alle loro antenate selvatiche. Sono meno agili, meno curiose e meno intraprendenti. Stiamo creando esseri umani mansueti, che producono enormi quantità di dati e funzionano come chip molto efficienti in una gigantesca rete di calcolo, ma queste mucche-da-dati non sono capaci di coltivare il loro potenziale umano”.

Nicola Pech