Qual è il rapporto tra alpinismo e ambientalismo? Intervista a Carlo Alberto Pinelli

Intervista a Carlo Alberto Pinelli

Incontro Pinelli una mattina di buona ora nella sua casa di Roma, in una delle poche giornate fredde di questo dicembre anomalo, senza neve. È intento a ravvivare il fuoco del camino mentre in cucina bolle l’acqua per il tè. Carlo Albero Pinelli è uno dei padri fondatori di un alpinismo che ha fatto della tutela ambientale una ragione di vita. Accademico del CAAI, regista, scrittore, fine intellettuale, presidente di Mountain Wildereness Italia, con cui negli anni ha intrapreso progetti di tutela ambientale di grande respiro dal Monte Bianco all’Himalaya ricevendo importanti onorificenze.

Nessuno meglio di lui può soddisfare la mia curiosità di capire cosa hanno in comune la Wilderness di Thoreau e Leopold, conosciuti durante voraci letture giovanili, così legate all’esperienza di frontiera americana, con il retroterra culturale di un’associazione di alpinisti europei, nata negli anni ottanta del secolo scorso. Ci eravamo scritti qualche mail, mi aveva consigliato di leggere Arne Naess, alpinista e filosofo norvegese dell’ecosofia ma, per chiudere il cerchio, volevo fargli qualche domanda. Il fuoco del camino scalda la stanza e scioglie ben presto un po’ di imbarazzo iniziale. Pinelli è gioviale, ha voglia di raccontare.

1988.08 Entreves , Mountain Wilderness agosto 1988. Pinelli e Messner

 

Gli chiedo subito cosa hanno in comune alpinismo e ambientalismo, quali, secondo lui, i valori intrinsechi comuni.

È il grado di autenticità del rapporto con noi stessi, attraverso lo specchio della natura, a dare un senso non effimero, non superficiale, non mistificatorio all’avventura dell’alpinismo. Risulta quindi evidente che la scrupolosa conservazione di un così ricco serbatoio di natura dovrebbe assumere un’importanza di particolare rilievo per tutti gli alpinisti. L’incontro con la wilderness montana, proprio perché permette e favorisce esperienze decondizionanti e restituisce a ciascuno tutt’intera la responsabilità delle proprie azioni, delle proprie decisioni, delle proprie emozioni, può rappresentare un importante antidoto contro gli effetti malsani di un sistema che a causa della sua crescente complessità tende ad appiattire gli esseri umani, a circoscriverne gli ambiti di responsabilità, a rendere prevedibili e pilotabili comportamenti e bisogni, a negare qualsiasi dignità all’anarchia vitale del mondo interiore. Ne deriva che noi non dobbiamo avere nessun timore di connettere e sovrapporre nello stesso discorso valori ecologici-ambientali e valori etici e comportamentali. Proprio in tali connessioni si cela il senso dell’alpinismo come espressione di cultura: vale a dire in ultima analisi la sua qualità. Questo, almeno in teoria, in pratica tutto dipende dalla sensibilità dei singoli, siano essi semplici camminatori o avventurosi scalatori. Purtroppo l’esperienza insegna che a volte proprio gli alpinisti più noti rivelano nei loro comportamenti una visione riduttiva e al limite addirittura distorta dei significati dell’ ambiente naturale in cui svolgono le loro eclatanti imprese. Non cessa di stupire la constatazione che costoro, pur mettendo spesso a repentaglio la propria vita per sentirsi davvero “vivi”, non percepiscano l’imperativo morale di lottare con tutte le loro energie contro i tentativi di indebita antropizzazione e banalizzazione di quelle vette selvagge che hanno reso e rendono possibili i loro sogni. Forse ciò dipende dal fatto che essi tendono a porre tra se stessi e la montagna il filtro sterilizzante del proprio super-io e della propria ossessiva aspirazione all’eroismo spettacolare. Per “entrare” davvero nel cuore della montagna occorre invece umiltà.

Agosto 1988, Punta Helbronner: da sinistra Carlo Alberto Pinelli, Ornella Antonioli Gogna e Alessandro Gogna

 

Umiltà dunque, rispetto della natura in sé e per sé, indipendentemente da un approccio utilitaristico e dall’ambizione personale. Chi sono, secondo te, gli alpinisti che hanno incarnato questi valori?

Senza timore di contraddire quanto ho detto rispondendo alla prima domanda, confesso che resta invece difficile isolare due o tre nomi di grandi alpinisti capaci di essere al contempo sinceri e intransigenti ambientalisti, in grado, se occorre, di anteporre la tutela delle montagne ai propri individuali progetti. Perché di costoro ce ne sono e ce ne sono stati tanti. Certo Messner fa parte del gruppo di testa, anche se ultimamente le sue iniziative architettoniche hanno destato forti perplessità. Nessun dubbio invece su Kurt Diemberger, su Fausto De Stefani, su Patrik Gabarrou, su Sandro Gogna, sulla compianta Wanda Rutkievicz, su Chris Bonington, su Francois Labande, su Michel Piola, su Bernard Ami. E potrei continuare per un pezzo! Un ricordo a parte merita il vecchio Renzo Videsott, che si cimentava su vie anche estreme in Dolomiti senza lasciarne la descrizione o “targarle” col proprio nome. Pura gioia dell’arrampicata, libera da ogni personale vanità. Videsott, non è un caso, divenne in seguito il presidente del parco nazionale del Gran Paradiso.

Quali sono le motivazioni che hanno portato alla nascita di Mountain Wilderness nel 1988, durante il convegno internazionale del CAAI a Biella, dove vennero elaborate le “Tesi di Biella” documento fondante dell’Associazione? Quale il significato di Wilderness adottato dai soci fondatori?

Per capire le ragioni che hanno dato vita a Mountain Wilderness basta leggere la relazione introduttiva di Roberto Osio ( ecco un altro nome da aggiungere al precedente paragrafo!) scritta a quattro mani con il sottoscritto. L’invito ad incontrarsi a Biella s’intendeva rivolto a quegli alpinisti che concordavano sulla necessità di trovare con coraggio e con fantasia una via efficace per opporsi alla progressiva designificazione della natura montana, con conseguente e speculare impoverimento della stessa esperienza dell’alpinismo. Era un’esortazione al coraggio e alla sfida, elementi chiave dell”alpinismo, ad andare oltre all’ovvia opportunità di liberare le montagne dai rifiuti, a esplorare idee e strumenti adatti a non permettere la degradazione della montagna, bene di partenza. In questa ottica, il termine wilderness, natura selvaggia secondo il vocabolario inglese, va al di là della sua definizione di stampo ecologico-paesaggistico per assumere un significato che potremmo chiamare umanistico, un significato nel quale trovano posto anche valutazioni di tipo psicologico ed etico. Il valore della wilderness risiede nella qualità del rapporto che essa riesce e favorire tra l’uomo civilizzato e la natura. C’è wilderness ovunque l’uomo che ne senta davvero il bisogno interiore può ancora sperimentare un incontro diretto con i grandi spazi e viverne in libertà e in semplicità di cuore la solitudine, i silenzi, i ritmi, le dimensioni, le leggi naturali, i pericoli. C’è wilderness laddove l’ambiente naturale, proprio grazie alla sua autenticità, ci aiuta a scoprire quante poche delle protesi meccaniche e quanti pochi dei gusci protettivi che la società in cui viviamo ci impone siano veramente indispensabili e quanti rappresentino piuttosto soltanto un filtro sterilizzante posto tra noi e la vera voce della natura. La platea era evidentemente composta esclusivamente da alpinisti e questi sono stati, almeno agli inizi, il cuore della neonata associazione. Però col tempo l’attenzione di Mountain Wilderness si è rivolta con pari intensità anche alle popolazioni che hanno avuto il destino di nascere e vivere nelle vallate montane. Una sfida culturale complessa e irta di possibili malintesi. Ma sicuramente inevitabile.

Free K2, striscione – foto Archivio MW Italia

 

L’Ecologia Profonda a cui si ispira MW, con la sua critica alla società industriale, con l’idea della semplicità di mezzi e della ricchezza di fini, come si concilia con gli exploit alpinistici che hanno usato e abusato della tecnologia, sia per quanto riguarda i materiali sia per quanto riguarda la medicina?

Questa è un poco una domanda trabocchetto. Ma la risposta a ben pensarci non è troppo complicata. Se perseguissimo l’utopia della purezza assoluta, rifiutando ogni sostegno tecnico, dovremmo arrampicare nudi dalla testa ai piedi e ovviamente legati a liane e non a solide corde sintetiche. Scarponi e ramponi: nemmeno parlarne! Abbandonare le vecchie piccozze dei nostri nonni per utilizzare attrezzi più moderni e efficienti (questo è solo un esempio tra mille), non significa cedere a colpevoli compromessi consumistici: vuol dire semplicemente accettarsi come esseri umani e non come scimmie antropomorfiche. Diminuire i margini del rischio è lecito; illecito invece è emarginare il rischio e annullarlo più o meno del tutto, prevaricando per giunta sulle possibilità di scelta degli altri. La posizione di Mountain Wilderness contraria all’abuso degli spit e al proliferare delle vie ferrate segue questa linea. Rientra a pieno titolo nella risposta il problema dell’uso delle bombole d’ossigeno per vincere ( che orrenda parola!) le più alte vette del pianeta. Credo che un simile uso andrebbe vietato dalle autorità dei paesi himalayani, o per lo meno deprecato con forza dall’UIAA e da tutto il mondo alpinistico serio. Troppi pseudo-alpinisti raggiungono vette un tempo prestigiose utilizzando tali mezzi, del tutto assimilabili a medicinali dopanti. Non prendiamocela con Hillary e Tensing, ma ormai evitiamo di imitarli.

Convegno di Biella per Mountain Wilderness, primi novembre 1987, Haroun Tazjeff, C. A. Pinelli

 

Per concludere non posso non chiederti del CAI e dell’atteggiamento bivalente nei confronti dei grandi temi ambientali? Penso all’Eliski ma non solo.

Preferisco non parlare male del CAI, associazione che mi ha accolto giovanissimo e grazie alla quale sono diventato un alpinista. Resto con orgoglio socio del CAAI e della sezione di Roma, della cui scuola di alpinismo sono stato istruttore e direttore. Ho fatto parte del Consiglio Centrale e ho presieduto la TAM centrale. Depreco però che un’ associazione così illustre e benemerita continui ad assumere posizioni tentennanti, a volta addirittura ambigue, quando si tratta di affrontare i temi scottanti della difesa delle montagne (i casi dell’eliski e della nuova funivia della punta Helbronner insegnano!). Mi sembra che i vertici del CAI continuino a nutrire il segreto terrore di essere assimilati a una qualsiasi associazione ambientalista militante, per definizione “poco equilibrata”. Un’associazione capace cioè di difendere la wilderness montana con le unghie e con i denti, anche correndo il rischio di aderire a slogan e a iniziative “garibaldine” non sempre suffragate al cento per cento da prove scientifiche, ma animate solo da un pericoloso “spirito profetico”. Non manca poi nel CAI il timore di assumere posizioni non condivise da tutto il suo sfaccettato corpo sociale. Così facendo lo storico Sodalizio troppo spesso si è auto-emarginato dal campo di battaglia. Che peccato!

Il nuovo Consiglio Direttivo di MW in compagnia di Carlo Alberto Pinelli

Il tè nel frattempo è finito e anche la nostra chiacchierata, mi congedo e Pinelli mi regala dei fogli con le “famose” Tesi di Biella e la relazione introduttiva di Roberto Osio. Leggo fino in fondo e forse questo, più di altre considerazione rivela il senso di quello che Pinelli mi ha lasciato: “Nessun alpinista, neppure il più famoso, può arrogarsi il diritto di giudicare dall’esterno le motivazioni interiori di altri alpinisti, magari più giovani, né criticare le loro scelte sulla base di regole del gioco che dovrebbero essere libere, ma vengono invece contrabbandate come confini morali. In montagna, regno della libertà, tutti i percorsi, tutti gli approcci sono leciti per definizione. Leciti ma a un patto: che non demotivino, o sterilizzino, o limitino gli altri approcci”.

Nicola Pech