Una Montagna Sacra per il Gran Paradiso 4 di 4.

Termina qui, per il momento, la discussione che ha dato seguito alla proposta di Toni Farina di istituire una Montagna Sacra per i cento anni del Parco Gran Paradiso.
Alcuni dei commenti che vi presentiamo in questo ultimo capitolo sono di filosofi che hanno approfondito il concetto di sacro, cercando di capire se e in che modo potesse adattarsi alla proposta iniziale.
Perchè, scrive Luigi Ranzani “il sacro non è qualcosa che tu decidi che dal giorno tale ciò che prima era profano diventa – per decisione politica – sacro. Non c’è processo più secolare che proclamare – de iure – il sacro”.

Ciarforon. Copyright: Wikipedia

Luigi Ranzani – filosofo
La proposta è molto interessante, forse più come sintomo che come ipotesi di lavoro e progetto culturale. Sintomo delle posture teoriche che il Moderno mostra nel mettere a fuoco il tema del Sacro. E che sono essenzialmente due: la liquidazione del sacro inteso come retaggio arcaico e residuo irrazionalistico o, viceversa, la sua rievocazione e attualizzazione come energia postiva ancora capace di emancipare la razionalità tecnico-scientifica dalla propria deriva coattiva e nichilistica.
La selezione, la fruizione e la salvaguardia di una montagna reale che funga da riserva simbolica per una relazione più essenziale e spirituale verso la “natura” rientra evidentemente nel secondo caso. Eppure, come molti tentativi di riavvicinamento al Sacro, anche questa strategia di riattualizzazione del Sacro sconta una paradossale sovrapposizione con l’opposta pretesa razionalistica di confinamento e neutralizzazione. Perchè questa sostanziale impossibiltà? Da dove questa incongruenza? Si potrebbe rispondere: dal Sacro stesso, dalla sua realtà e dinamica ontologica. Come potrebbe essere diversamente? Sacro è, infatti, ciò che per sua essenza si manifesta da sè: una rivelazione violenta e distruttiva, impersonale, non temporale, antistorica e antinaturalistica. E che quindi non prevede – dal suo interno – la possibilità che un soggetto possa reintegrarlo dentro l’ordine intenzionale di un progetto operativo pratico-politico. Anche senza necessariamente voler evocare il sospetto di derive regressive, pare tuttavia evidente come la proposta d’istituzione di una Montagna Sacra debba presupporre un’idea di Sacro già compiutamente secolarizzato, depontenziato della sua irriducibile alterità e per questo velocemente riassorbito nella progettualità del Soggetto o della Storia.

Sembra riproporsi una dinamica che si ripete ogni volta che il moderno si scontra con la sostanziale intraducibiltà dell’altro da sè: come quando nel Settecento la via estetica alla montagna, attraverso la poetica del sublime, precedette e preparò la strada all’esplorazione scientifica e alla frequentazione alpinistica di una parte di natura rimasta estranea alla significazione culturale. Anche allora la fascinazione della montagna fece precipitare il pensiero fino a fargli toccare il limite della propria capacità di rappresentazione, mentre la scienza da un lato e l’alpinismo dall’altro procedevano con le proprie strategie normalizzanti: la scienza attraverso la misurazione dell’oggetto ridotto a totalità naturale e l’alpinismo con la trasposizione dell’impasse sublime dal livello immaginale a quello agonistico e psicologico.

Ancora oggi, di fronte all’apparire della forma della montagna, il pensiero di reificare questa resistente eccedenza in un oggetto codificabile e fruibile rinvia comunque al fare prevaricante di un soggetto astrattamente separato, tragicamente ignaro che ogni “montagna” ha il proprio luogo d’accoglienza e trasmutazione nel ricordo che serba in sè l’evento immemoriale del sacro.

Enrico Rivella – naturalista
È un’idea di forte impatto che mi ha sorpreso, quindi colpisce e può raggiungere gli obiettivi che si prefigge. È anche diversa da quanto si pensava prima del Covid.
Bravi. Andate avanti, bisogna ripartire in altro modo con idee come questa. “

Guido Rocci – gestore di rifugio, Presidente AGRAP (Associazione Gestori Rifugi del Piemonte)
Mi ritengo una persona pragmatica senza estremismi ed essenziale con un profondo rispetto della Natura, alla quale non voglio neanche riconoscere un valore mistico. Tutti “ismi” che rendono retorici e abbastanza privi di “sostanza” le varie affermazioni di chi predica bene ma poi “razzola” un po’ meno bene, soprattutto in temo di sostenibilità questo è più che evidente. La Natura è sulla bocca di tutti in questi giorni di pandemia, ma pronta a essere di nuovo sottoposta alle necessità dell’uomo quando avrà superato questo momento critico. Quanto di buono riconosco alla Natura non sono pronto a riconoscerlo ai nostri simili. Detto questo, se parlassimo di una “montagna sacra” al di fuori di un contesto “occidentale” forse lo potrei ancora comprendere, anche se alla lunga la sacralità è destinata ad essere dissacrata dalla sola voglia di affermazione dell’opposto. In Nepal l’Ama Dablam ha ceduto al capitalismo delle spedizioni e anche la vetta dell’Everest (Sagarmatha – la dea della terra) ha visto gli Sherpa fermarsi sempre qualche passo prima della vetta per poi essere oggigiorno calpestata alla stessa stregua degli stranieri.
Sono i popoli con la loro cultura, secondo me, che riescono a dare un “senso” diverso alla Natura circostante: il namaskar (saluto il divino che c’è in te) rivolto in Nepal ha tutto un senso, rivolto altrove per me ha quasi del blasfemo. Personalmente non vedo chi potrebbe definire la sacralità di una montagna da noi ed essere disposto a difenderne coerentemente e ad oltranza l’inviolabilità. In un contesto del genere rischierei di interpretare l’iniziativa come un espediente celebrativo del centenario del Parco del Gran Paradiso. Come abbiamo avuto modo di confrontarci per BalmExperience, credo fermamente che il futuro è una Natura ad accesso limitato. Il momento propizio era adesso, potrebbe essere ancora più evidente dopo il covid-19, anche se rischia nuovamente di passare per messaggio retorico e scontato. Questa scelta non è minimamente ancora entrata nella logica degli abitanti delle valli alpine e degli amministratori ma molto di più nell’immaginario di quelle persone che vivendo nelle città iniziano a realizzare le mancanze ed i difetti di una società ipertecnologica dai ritmi insensati.
Paradossalmente chi vive a stretto contatto con la Natura non riesce il più delle volte a dargli il giusto valore anzi lo dà per scontato, contrariamente a chi invece la frequenta alla ricerca di quanto non trova più altrove. Penso che il ritorno alla Natura sia un istinto recondito nel profondo del nostro inconscio e che, in funzione di determinate condizioni, “riemerga”: vedasi tutto il parlare di questi tempi.
Sinceramente non so quale possa essere una iniziativa degna di importanza per celebrare i 100 anni del Parco, ma deve essere un qualcosa che non possa essere inteso per il solito spot propagandistico; anche qualcosa di meno “eclatante”, più semplice, ma decisamente radicato e sostenibile, da parte del promotore e la comunità circostante, dal momento della presentazione in poi.

Patrizia Rossi – ex direttore parco
Bello. A me l’idea piace. Non so se conosci questo:
Il centenario del parco può essere un buon momento, e il nome è sicuramente evocativo. Ho sempre saputo che il paradiso non c’entra, ma non so da dove viene…Tu lo sai cosa vuol dire?

Annibale Salsa – antropologo, esperto di cultura alpina, past president del Club Alpino Italiano
Alle cime delle montagne è stato attribuito nell’antichità il significato di luogo sacro, ossia di luogo interdetto alla frequentazione umana. Nella definizione di “sacro”, formulata dal socio-antropologo Emile Durkheim, si legge: <>. Molte religioni e culture/civiltà hanno elevato la montagna sacra a simbolo di inaccessibilità la cui trasgressione avrebbe assunto il significato di una profanazione.
Con l’avvento della modernità il desiderio di scoperta e di violazione degli antichi tabù ha aperto la strada a una frequentazione sempre più intensa e aggressiva. Da ciò l’esigenza di individuare, anche nelle odierne società postindustriali, alcune cime che sul piano simbolico possano significare che non tutto deve essere profanato, neanche sulla base della più rigorosa etica alpinistica. Pertanto, alla luce del significato evocativo del toponimo “Gran Paradiso”, può essere individuata una vetta da restituire al mistero della sacralità dell’alta montagna e al senso del limite che essa può rappresentare.

Francesco Tomatis – filosofo
C’è da riflettere sull’idea, bella e originale, di individuare una montagna sacra intransitabile. Istituire una montagna sacra è paradossale. Di per sé la montagna se sacra è riconosciuta tale, intangibile, non dichiarata. Ma potrebbe essere comunque significativo: una scelta culturale di sacralità e quindi naturalità.
Chi però lo sceglie? L’Ente Parco nazionale Gran Paradiso? La Regione autonoma Val d’Aosta? Gli alpinisti che liberamente rinuncino all’accesso? Magari solo una sparuta cerchia, poi arriva magari in cima qualcuno in elicottero, o anche solo in parapendio? Questo resta forse il punto decisivo.
Infine quale montagna? Il Gran Paradiso, Grande Parete, come del resto Pareyson, il mio maestro filosofo la cui famiglia ha origini a Morgex, frazione di La Salle, mi pare sarebbe un po’ difficoltoso sottrarlo al circuito turistico. Forse il Ciarforon, con la sua conformazione unica. Oppure la Becca di Monciair, svettante triangolarmente con la sua lucente parete nord.
L’idea comunque è bella, originale, emblematica”.