Acque: fonte rinnovabile, non un bene infinito
L’esempio della Valtelina e del torrente Rezzalasco deve portarci a riflettere su questo grave problema sociale.
Sarà tutto quello che si vuole, ma l’ACQUA non è un prodotto commerciale al pari degli altri, bensì un patrimonio che va protetto, difeso e trattato come tale.
Così la Direttiva 2000/60/CE all’articolo 1 definisce questa risorsa unica e irripetibile, allo scopo e con la finalità di sviluppare una politica comunitaria integrata e istituire un quadro per la protezione di tutte le acque.
Sono principi solenni quelli indicati nella Direttiva che mirano a promuovere un utilizzo sostenibile fondato sulla protezione a lungo termine delle risorse idriche disponibili.
Affermare ciò significa rendersi conto del valore che riveste un bene come l’acqua, importante e irrinunciabile per l’intera umanità.
Significa in altri termini che l’acqua non è un bene infinito; è certo una risorsa, ma che richiede una perizia particolare nell’uso e nella gestione, evidenziando che il deterioramento dello stato dei corpi idrici diventerebbe un vero proprio boomerang con conseguenze indefinibili per la sopravvivenza della biodiversità del nostro pianeta.
Ogni paese al mondo cerca di adottare un minimo di regole, di principi sui quali fondare almeno sulla carta, atteggiamenti e comportamenti in sintonia con il bene di cui si sta parlando.
Di fatto vediamo la corsa all’accaparramento delle fonti idriche con le conseguenze a noi note e ciò che si vuole procedere alla privatizzazione dell’acqua. Le multinazionali dell’acqua investono cospicue somme di danaro per assicurarsi le fonti idriche e utilizzarle poi con finalità di profitto, accentuando ulteriormente disparità e tensioni a livello planetario e condizionando pesantemente lo sviluppo di intere regioni della terra che da sempre convivono con il problema della sete.
Anche nei paesi sviluppati la situazione non è brillante; la competizione alla privatizzazione delle risorse idriche è in pieno svolgimento e viene attuata ricorrendo a normative subdole e ambigue che consentono attraverso pressioni più o meno lecite di esercitare un vero “esproprio” ai danni della collettività-umanità di un bene necessario e irrinunciabile.
Se l’Unione Europea ha ritenuto necessario dotarsi di una normativa che almeno nello spirito vuole chiarificare e intervenire per tutelare le acque comunitarie sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo, a livello dei singoli paesi esistono ancora situazioni a dir poco sconcertanti, dove regole e procedure “garantiscono” che l’acqua venga trattata nella peggiore delle possibili maniere, consentendo a taluni di fare dell’abuso l’unico modo di utilizzo in dispregio a qualsiasi principio etico e coerenza a parametri ambientali e sociali.
L’Italia sicuramente è proprio il tipico paese dove normative spesso antiquate e talvolta contraddittorie e farraginose, consentono quasi sempre che l’attuazione e l’applicazione delle norme vengano utilizzate a fini lobbistici per soddisfare interessi di gruppi che si appropriano di risorse che appartengono a tutti, come l’acqua.
Con la legge 220, l’acqua viene infatti classificata tra le fonti rinnovabili, consentendone talvolta un uso, anzi uno “sfruttamento” che comporta molto spesso un impatto e un deterioramento dello stato del corpo idrico con le conseguenze ben note: alterazione dello stato dei luoghi ( prosciugamento di alvei, modifica del microclima, danni alla flora e alla fauna, impoverimento della qualità ambientale territoriale e la limitazione all’approvvigionamento dell’acqua potabile, incrementando gli utili delle industrie dell’imbottigliamento delle acque minerali).
Le domande di concessione di derivazione di acque per uso idroelettrico stanno aumentando in maniera esponenziale negli ultimi anni creando seri problemi ambientali e non solo.
La mancanza di una politica orientata al risparmio energetico e l’assenza di una pianificazione territoriale che stabilisce tipo e natura degli interventi da consentire, ha innescato il boom di richieste di sfruttamento dei corsi d’acqua specialmente sul versante alpino, facendo leva sulla confusione normativa esistente a livello nazionale, regionale e provinciale, ma anche giocando sul limitato potere contrattuale che possono contrapporre i piccoli comuni di montagna.
Ci sono ambiti, dove il deterioramento dei corpi idrici è talmente accentuato, oltre la soglia di accettabilità che va a tradursi in una palese alterazione dello stato dei luoghi.
In Lombardia, la provincia di Sondrio ne è un esempio eclatante. Il 90% dei torrenti della provincia sono già oggetto di sfruttamento per fini idroelettrici e sembra che il trend dominante sia quello di continuare a captare acqua dai pochi rigagnoli rimasti indenni.
L’occasione per una seria riflessione si è avuta quando la regione Lombardia rilasciava nel marzo del 2005 una concessione di derivazione ad uso idroelettrico a una società privata per lo sfruttamento del torrente Rezzalasco.
La Valle di Rezzalo, contigua al Parco nazionale dello Stelvio era stata devastata dal fenomeno alluvionale nell’estate del 1987 e ciò poteva e doveva essere condizione sufficiente a evitare qualsiasi tipo di intervento in ambito particolarmente fragile finalizzato alla tutela e conservazione del sito.
Nonostante i pareri negativi e l’opposizione formulata dal Comune di Sondalo, competente territorialmente, il provvedimento amministrativo (concessione di derivazione) veniva accordato alla società richiedente, provocando legittimo disappunto tra i valligiani e tra coloro che hanno a cuore la sorte della montagna.
Alcuni comitati spontanei in difesa delle acque si sono attivati, ben consapevoli che l’acqua è un bene finito e come tale va gestito con oculatezza, nonostante le leggi dello Stato si sforzino di inquadrare le acque come “fonte rinnovabile” e dunque quale bene infinito.
Evidentemente, normative poco adeguate a trattare e gestire una tipica e rilevante materia come l’acqua, possono dispiegare anomalie piuttosto incisive e provocare effetti dannosi sugli ambiti montani e conseguenze sull’intera collettività.
Si pensi al concetto di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità delle opere di captazione delle acque che di fatto impongono un “diktat” che si va a scontrare con le più elementari norme di tutela dell’ambiente e del fattore umano che vi risiede e contrasta con i principi sanciti dalla direttiva europea che invoca una politica sostenibile in materia di acque.
Sono le solite scorciatoie che ignorano la reale complessità del problema specifico.
La stessa convenzione stipulata da associazioni ambientaliste con la legge 220 al solo fine di promuovere nel paese energia al 100% proveniente da fonti rinnovabili, se da un lato induce e sostiene dei comportamenti in linea con il rispetto dell’ambiente e tendente a un risparmio dei consumi, dall’altro consente di fatto che territori montani ricchi di oro bianco (acqua) vengano sottoposti a vincoli e sfruttamento intensivo e selvaggio.
A poco valgono, misure mitiganti come il lasciar defluire sul punto di captazione di una quantità irrilevante d’acqua (deflusso minimo vitale), determinata peraltro usando una formula matematica che stabilisce una quantità fissa che viene rilasciata quasi a compensare una ferita sull’ambiente che va ben oltre l’alterazione dell’alveo del torrente.
Certo, la partita non è di poco conto e richiede buona volontà, impegno e correttezza poichè l’ambiente, la montagna, le acque sono di tutti e sono bene unico e irripetibile.
Di fronte a una partita di questa natura, in Provincia di Sondrio è stato fondato un coordinamento al quale partecipano più soggetti, la società civile, associazioni ambientaliste come Mountain Wilderness Italia; quasi un risveglio delle coscienze di fronte a una situazione importante che riguarda e avrà effetti sullo sviluppo futuro di queste montagne.
Tra i principali obiettivi, il coordinamento intende allargare i contatti e informare la popolazione sull’effettiva portata del fenomeno e sulle conseguenze che ne potranno derivare dallo sfruttamento intensivo della risorsa acqua.
Si propone altresì di intervenire a livello istituzionale presso enti locali, provincia, regione per chiedere che la normativa regolante la materia, si adegui alla Direttiva 2000/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea che si prefigge il raggiungimento di principi certi e una politica sostenibile nel campo delle acque.
Organizzare convegni e altre manifestazioni per promuovere conoscenza, tematiche, misure e provvedimenti per la tutela adeguata dell’ambiente saranno gli obiettivi prioritari che il coordinamento si prefigge.
Allargare il coordinamento per accogliere utili contributi da parte della cittadinanza attiva, di enti, privati, associazioni; stipulare rapporti di collaborazione con strutture analoghe operanti nell’ambito del perimetro alpino anche fuori dai confini nazionali allo scopo di creare un fronte compatto e operativo di fronte alla situazione venutasi a creare e ormai non più derogabile.
In definitiva, la grande sfida sarà la difesa dell’ultima irrinunciabile risorsa che noi abbiamo: l’ambiente, ultimo baluardo che dovremo preservare per le generazioni future; mantenere salda una posizione realistica, forte, ispirata a promuovere e sostenere interventi compatibili e in armonia con la capacità di sopportazione del nostro pianeta.