Come i miliardari vogliono salvarsi dalla fine del mondo distruggendolo
Di Alessio Giacometti, dottorando in scienze sociali a Padova. Copyright: Il Tascabile
Un manipolo di ultraricchi convoca un noto futurologo in un resort di extra lusso nel deserto. A ossessionarli è ciò che chiamano “l’Evento”, il collasso della civiltà cui si preparano da tempo senza riuscire a risolvere alcune questioni dirimenti: come mantenere l’autorità sui propri accoliti quando il mondo precipiterà nel caos? Cosa offrire ai servitori in cambio di fedeltà e protezione? Come impedire diserzioni e rivolte? I magnati ipotizzano collari per il controllo umano, robo-guardie, c’è chi propone persino il sequestro delle scorte alimentari. Riconoscono apertamente che equipaggiare il più inaccessibile dei bunker per l’apocalisse non servirà a nulla, se non saranno pronti anche a gestire l’imprevedibilità del comportamento altrui.
Il futurologo rimane interdetto. E le risposte che dà non soddisfano il gruppo di ultraricchi. Non sta prendendo sufficientemente sul serio le nostre preoccupazioni, pensano loro. Così com’è arrivato il futurologo se ne va, con una scoperta decisiva però: che l’anarco-individualismo esasperato degli ultraricchi non solo è d’ostacolo alla mitigazione della crisi climatica, rischia anche di pregiudicare le iniziative collettive di adattamento al clima che si scalda.
Protagonista della vicenda descritta qui sopra è Douglas Rushkoff, docente di media studies al Queens College di New York e autore di Solo i più ricchi. Come i tecnomiliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci qui (Luiss University Press, 2023), che si apre appunto col racconto in prima persona del consulto avuto con la congrega di prepper miliardari. Quello dei rifugi anti-apocalittici – in versione esclusiva e militarizzata per i più abbienti, cooperativa e autosufficiente per le piccole comunità della classe media – è un business in spettacolare ascesa, soprattutto nell’America borghese, cristiana, repubblicana, che da sempre coltiva paranoie sulla fine del mondo o il tramonto dell’Occidente. Di peculiare, nel survivalismo praticato dai miliardari, c’è che i loro bunker superattrezzati non sono semplici rifugi, caverne luxury per superstiti facoltosi: parlano sfacciatamente di una forma mentis che concepisce l’adattamento in maniera competitiva, individualistica, difensiva, ostile nei confronti della vita e disconnessa dal resto società. Una mentalità da survival of the richest che, commenta Rushkoff, in un mondo trasformato dai cambiamenti climatici “ci fa immaginare un’esistenza più simile a quella in una fortezza ben difesa che a quella in un’oasi accogliente”.
Il libro di Rushkoff è una sortita allucinata all’interno di questa specifica mentalità degli ultraricchi di fronte alla sfida dell’adattamento, un habitus sfrontato e prevaricante che l’autore stesso chiama “Mindset” e definisce così: il Mindset si basa su uno scientismo del tutto ateo e materialista, che crede che la tecnologia possa risolvere ogni problema, (…) ritiene i rapporti umani un fenomeno di mercato, teme la natura e le donne, pensa che i contributi del singolo non debbano nulla al passato e mira a neutralizzare l’ignoto dominandolo e privandolo di anima.
Mossi da un simile orizzonte mentale, i super-ricchi sono convinti che la crisi climatica non sia una loro colpa, che un sovrappiù di tecnologia basterà a rimettere le cose a posto, che la catastrofe rappresenti una nuova opportunità per fare affari, che in caso di collasso loro stessi meritino di salvarsi più di chiunque altro, che avranno vita lunga nella “tecno-bolla” dei loro bunker iper-artificiali, che un piano B sarà sempre possibile con una fuga nello spazio e la fondazione di una nuova civiltà in qualche remoto esopianeta. A detta di Rushkoff e di chi scrive, è una visione della crisi climatica e dei modi di fronteggiarla quanto mai sviante e pericolosa.
Per lungo tempo i super-ricchi sono stati i più tenaci araldi del negazionismo climatico, oggi non più difendibile e perciò rimpiazzato dall’altrettanto subdolo “ritardismo”: un atteggiamento strategico che mira a prolungare quanto più possibile il business as usual ostacolando i cambiamenti necessari o procrastinando indefinitamente le misure urgenti per la decarbonizzazione. Quando si tratta di mitigare l’impatto ambientale, gli ultraricchi tendono a favorire interventi minimi e conservativi, enfatizzano gli svantaggi economici delle politiche socialmente più trasformative, oppure spingono per enormi soluzioni tecnologiche e di mercato al riscaldamento globale che ribaltino la situazione collocandoli nuovamente in una posizione di vantaggio competitivo. Fatto equivoco, le soluzioni avveniristiche che caldeggiano promettono di realizzare un salto evolutivo per il progresso della specie e finiscono immancabilmente per concentrare nelle loro mani sempre maggiore ricchezza. Il Mindset è una strategia di ultra-accelerazione ma senza alcuna destinazione, ha fatto notare Malcom Harris in un’intervista a Rushkoff apparsa su Wired: “è come voler costruire un auto tanto veloce da sfuggire ai fumi del proprio scappamento”.
Oggigiorno, come ricordato da Andrew Hunter Murray sul Financial Times, non c’è praticamente miliardario che non abbia elaborato un proprio personalissimo piano per salvare il pianeta. Il più ricco tra i ricchi, Elon Musk, ha lanciato una competizione con un premio da 100 milioni di dollari per lo sviluppo di tecnologie per il sequestro del carbonio atmosferico. Ancora più ambiziosamente, Jeff Bezos ha sborsato 10 miliardi di dollari in programmi di “crescita verde” con il suo Bezos Earth Fund. George Soros, Bill Gates e Richard Branson finanziano invece progetti di ricerca applicata in geoingegneria, a dispetto delle perplessità sollevate da centinaia di scienziati del settore. Già nel 2008, il climatologo David Victor etichettava come greenfingers, “pollici verdi”, questi filantrocapitalisti, miliardari patriottici o speculatori convertiti che assurgono al ruolo di salvatori del pianeta e premono per progetti di riparazione tecnologica vasti e rischiosi, di cui ovviamente intendono conservare la proprietà intellettuale qualora gli sviluppi si rivelassero propizi.
Per i super-ricchi le crisi non sono infatti che un’occasione per spremere ulteriore profitto, come avvenuto con la campagna del Grande Reset avanzata da Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, per rilanciare l’economia mondiale dopo la pandemia di COVID-19 con una nuova forma di capitalismo “consapevole”, benevolo, più direttamente coinvolto e protagonista nella risoluzione dei grandi problemi dell’umanità. È così che, piegando a proprio vantaggio le catastrofi sociali e ambientali, i super-ricchi diventano ancora più ricchi, macinando profitti stellari: negli ultimi due anni, l’1% dei più ricchi al mondo si è intascato i due terzi della nuova ricchezza prodotta a livello globale, mentre gli introiti di Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet e Meta sono aumentati del 20% (+1100 miliardi di dollari) e le quote azionarie addirittura del 50%. Stando alla classifica stilata da Forbes, nell’ultimo anno il numero di persone con un patrimonio superiore al miliardo di dollari è cresciuto del 20% e sono oggi oltre 2.500 i miliardari a spasso per il pianeta con un una ricchezza complessiva di 13.1 trilioni di dollari, quasi quanto il PIL annuale dell’intera Unione Europea. I milionari sono invece più di 60 milioni, si concentrano come i miliardari principalmente negli Stati Uniti, e godono di una fortuna che ammonta in totale a oltre 150 trilioni di dollari, più del PIL mondiale.
I super-ricchi non mancano mai di ripetere che una simile concentrazione di capitale non è un problema per i piani di mitigazione, anzi: solo un’élite tecnocratica e illuminata al potere sarebbe in condizione di risolvere le sfide dell’umanità, in primis il riscaldamento globale. È vero al contrario che nulla come la ricchezza si correla all’impatto ambientale: i miliardari hanno un’impronta di carbonio migliaia di volte superiore a quella dei loro compatrioti e secondo le stime del Stockholm Environment Institute e di Oxfam, tra il 1990 e il 2015, l’1% degli individui più ricchi del pianeta ha emesso nell’atmosfera più gas serra del 50% degli individui più poveri. Da sempre i super-ricchi distolgono l’attenzione dalle loro scandalose emissioni colpevolizzando un unico fattore, quello a loro più speculare: la sovrappopolazione e la crescita demografica nei Paesi del Sud globale, per altro in forte rallentamento. Imputano ai consumi retrivi e inquinanti dei super-poveri la maggiore responsabilità delle emissioni, ma è chiaro che una politica incisiva di mitigazione dovrebbe aggredire la forbice delle diseguaglianze da entrambi i lati, contrastando i sovraconsumi dei più ricchi e al contempo il sottoconsumo dei più poveri.
I super-ricchi sono convinti che la crisi climatica non sia una loro colpa, che un sovrappiù di tecnologia basterà a rimettere le cose a posto, che la catastrofe rappresenti una nuova opportunità per fare affari, che in caso di collasso loro stessi meritino di salvarsi più di chiunque altro.
Come scrive il geografo sociale Danny Dorling in Inequality and the 1% (Verso Books, 2019), i super-ricchi impoveriscono l’economia alle spese di tutti, inchiodano la società in uno schema di diseguaglianze incrollabile, compromettono gli sforzi per la mitigazione che non li vedano direttamente nella posizione di decisori o beneficiari. I governi di tutto il mondo non intervengono sui loro patrimoni perché credono che solo dal loro portfolio di investimenti possano scaturire le soluzioni necessarie, arrendendosi così al “male minore” dell’ingiustizia sociale purché i capitalisti mantengano la promessa del technological fix.
Ci si dimentica però troppo spesso che la diseguaglianza economica non è un sottoprodotto detestabile del capitalismo, è il suo stesso obiettivo: come esemplifica Rushkoff, il mercato è un tavolo da poker in cui ogni giocatore mira a rimanere l’ultimo, quello che con un bluff o un colpo di fortuna riesce a sgominare gli avversari e a vincere l’intera posta in gioco. “Le società che sono arrivate a un tale livello di diseguaglianza economica non sono mai riuscite a evitare il fascismo”, avverte Rushkoff, “tantomeno una civiltà che ha massacrato il suo ambiente è mai stata in grado di sfuggire al collasso”.
C’è poi un altro problema irrisolto e di lungo corso con i super-ricchi, reso palese oltre un secolo fa da Thorstein Veblen nella sua celeberrima “teoria della classe agiata”: all’origine di ogni forma di proprietà e concentrazione di capitale pulsa l’istinto a emulare la ricchezza altrui, e sono perciò i ricchi a dettare mode, costumi e gusti, influenzando le aspirazioni dei più e plasmando la percezione di ciò che è ritenuto normale, irrinunciabile o auspicabile possedere. Una simile spinta agonistica all’emulazione dei ricchi e al loro reciproco superamento può innescare una deriva pericolosa: tutti pretendono di avere sempre più privilegi, anche il ricco che rifugge dalla massa di emuli con consumi ancora più ostentativi, lusso sfrenato, turismo estremo, o quello che lo stesso Veblen chiamava “ozio vistoso”. La rincorsa non può mai avere fine proprio perché i ricchi spostano l’asticella dell’emulazione sempre più in alto, contribuendo più di ogni altro fattore alla costruzione sociale dei desideri delle classi subalterne.
Oltre a impedire l’attuazione di piani equi per la mitigazione e a provocare il consumismo emulativo delle masse, i miliardari promuovono una visione dell’adattamento che dipinge l’umanità come già spacciata. C’è un filo conduttore che lega il ritiro in bunker anti-apocalittici alla fuga nel metaverso e alla colonizzazione spaziale fomentate dai survivalisti miliardari, vale a dire la certezza fallace che anche nelle peggiori circostanze planetarie sarà in ogni caso possibile ricorrere a un’exit strategy per salvarsi la pelle e gli affari. Si prenda l’esplorazione spaziale: come ribadito dall’astrofisica Erika Nesvold, autrice di Off-Earth (2023) e curatrice di Reclaimed Space (2023), sono le fantasie escapiste dei super-ricchi ad alimentare oggi il mito della frontiera spaziale, tra nuovi pianeti da occupare, miniere lunari da fondare e hotel di lusso da mandare in orbita. A eccitare questa nuova ondata di avventurieri dello spazio è l’impressione che il cosmo abitabile sia potenzialmente sterminato, svincolato dalla finitudine di un pianeta Terra ormai esausto. E tuttavia l’immaginario eufemistico che propugnano aziende come SpaceX e Blue Origin dimentica colpevolmente di menzionare l’inquinamento da space junk, le emissioni insostenibili e deprecabili dell’industria spaziale, l’assoluta vulnerabilità della vita orbitale. Più esploriamo lo spazio più ci rendiamo conto di quanto ci rimanga precluso: la fuga spaziale non è possibile, anche se i miliardari continuano a fingere che lo sia.
C’è poi un altro aspetto curioso nella fuga verso altri pianeti perorata dai survivalisti danarosi: lo stesso Rushkoff fa notare che ai tempi della Guerra Fredda le missioni spaziali erano sì intrise di insopportabile nazionalismo statunitense o sovietico, ma erano vissute anche come un’entusiasmante impresa collettiva. Ora non è più così: la corsa allo spazio è un business per tycoon, una dimostrazione di supremazia tecnologica e potere finanziario tra i giganti del tech. Altro che grande passo per l’umanità, il successo delle spaceflight companies segna la resa finale all’ultraliberismo: secondo Rushkoff “è la prova che viviamo in un mondo dove una persona può guadagnare abbastanza da dare vita a un programma spaziale e mettere in atto con successo la strategia di fuga definitiva”.
È una visione aberrante in cui il progresso della civiltà culminerebbe quando, assoggettata la natura terrestre per mezzo della tecnologia, un pugno di ultraricchi si distaccherà dal resto dell’umanità per creare nuovi ambienti entro cui continuare a crescere. Frattanto all’élite tecnocratica del pianeta toccherà trincerarsi in bunker pattugliati e isolarsi quanto più possibile dai dannati della Terra. A giudizio di Rushkoff ciò che impensierisce di più i prepper miliardari è proprio quella folla: la folla di Washington, la folla che ha eletto Trump e la folla che devasterà i loro rifugi. I ricconi che oggi salgono sul carro della tecnologia dal volto umano non si preoccupano tanto dell’impatto delle loro piattaforme sulle persone, quanto dell’impatto potenziale delle persone sulla loro sicurezza e sui loro privilegi. Temono che si rendano conto di quel che è successo finora.
La fobia per i futuri migranti climatici riflette quella speculare per i migranti di oggi: ecco perché Peter Thiel, epitome dei survivalisti più spietati, oltre ad allestire il suo personalissimo bunker in Nuova Zelanda, finanzia l’attività di gruppi alt-right contro l’immigrazione clandestina negli Stati Uniti. Allo stesso modo, i miliardari non temono l’intelligenza artificiale in sé, che loro stessi contribuiscono a sviluppare, ma le masse di esclusi che potrebbe generare e bisognerà tenere a bada in un modo o nell’altro. Il “capitalismo della paranoia” dei rifugi anti-apocalittici risponde così a un bisogno molto specifico dei survivalisti facoltosi, ossia evitare il dilemma morale dell’empatia, di decidere se aiutare o meno chi è in difficoltà.
Quello dei bunker “è un business volto a fare in modo che quando si chiuderanno le porte non ci saranno molti bambini affamati a bussare”, sostiene Rushkoff: un modo per non affrontare le conseguenze etiche del proprio egoismo, placare il proprio senso di vergogna e tenere alla larga l’altrui istinto di vendetta.
Per i prepper miliardari la dimensione materiale del survivalismo è scontata e banale, ben più complicato è trovare invece delle argomentazioni credibili per darsi uno straccio di giustificazione morale: cosa legittima gli ultraricchi a fuggire dalla realtà? Che diritto hanno di lasciare indietro tutti gli altri? Il Mindset dei survivalisti danarosi è rovinosamente imbevuto dei precetti della genetica delle popolazioni e del liberismo di mercato, due scienze che combinate assieme hanno dominato la modernità e condotto l’umanità alle porte del collasso dando forma al darwinismo sociale più feroce. In natura e in società a sopravvivere e riprodursi sarebbe l’individuo più egoista, competitivo, senza scrupoli, pervicace nel massimizzare i propri interessi personali a discapito degli altri. Forti di questa convinzione ipocrita e sbagliata, i miliardari sono certi di essere tali per proprio merito e promuovono un malcelato disprezzo per le masse di sconfitti che si lasciano alle spalle.
Eppure, sempre secondo Oxfam, la maggior parte delle entrate dai super-ricchi non deriva da talenti personali, prestazioni lavorative retribuite o innegabili capacità manageriali, ma dal rendimento per il possesso di asset che globalmente viene tassato in media al 18%, poco più della metà dell’aliquota massima applicata in molte nazioni ai salari dei lavoratori dipendenti. Storicamente la pressione fiscale è cresciuta ovunque nel mondo, per tutti, ma in proporzione molto meno per i più ricchi – complice la teoria economica del trickle-down secondo cui tagliando le tasse alle classi privilegiate queste acquisterebbero più servizi dalle classi subalterne, favorendo così l’occupazione e il “gocciolamento” della ricchezza verso il basso della piramide sociale. Ciò che gli indicatori delle disuguaglianze ci dicono è che al contrario il gocciolamento avviene verso l’alto, solo a beneficio dei più ricchi: più che di trickle-down, si potrebbe parlare di soaking-up, di “assorbimento” della ricchezza da parte di una sparuta plutocrazia di happy few.
Nulla di nuovo sotto il sole: è ciò che le teorie critiche del capitale contestano da sempre. Marx stesso parlava di “accumulazione originaria” per identificare quel momento preciso, assieme arcano e criminale, in cui una concentrazione critica di proprietà dei mezzi di produzione matura al punto da rendere possibile l’instaurarsi del modo di produzione capitalistico. Le nazioni che precorsero il capitalismo moderno – Paesi Bassi, Gran Bretagna, Stati Uniti – non divennero ricche perché i loro imprenditori erano più intelligenti o lavoravano più sodo, ma perché estorsero plusvalore dai proletari e accumularono risorse da altre nazioni, a cominciare dai combustibili fossili, senza i quali il capitalismo industriale non sarebbe mai stato possibile. Analogamente, i miliardari della Terra hanno avuto strada spianata nell’accumulare capitali così vasti che sembra oggi impossibile scalfire il loro potere, con cui pretendono di mettersi al comando di un’umanità minacciata dal collasso ambientale. Come provare a fermarli?
Dalla COP27 per il clima dell’anno scorso si parla sempre più spesso di sistemi di riparazione loss and damage per indennizzare, almeno in parte, le perdite irreversibili del riscaldamento globale, ma soprattutto per rimediare al peccato originale dell’accumulazione originaria delle corporation dell’industria fossile e di altri settori inquinanti. C’è chi stima che le ventuno maggiori aziende del fossile dovrebbero decurtare dai propri profitti oltre 200 miliardi di dollari l’anno per compensare i danni causati da emissioni e cambiamenti climatici alle popolazioni più vulnerabili. Secondo un altro studio, da qui al 2050 i Paesi che hanno approfittato maggiormente del capitalismo fossile sarebbero tenuti a versare alle nazioni meno inquinanti circa 170 trilioni di dollari per riequilibrare le sperequazioni nell’appropriazione del carbon budget planetario. Anche Nicholas Stern, autore del celebre report sui cambiamenti climatici, ha calcolato assieme ad altri economisti che ai Paesi meno attrezzati servirebbero due trilioni l’anno per rendere sostenibile il proprio sviluppo. Perché non cominciare con una super-tassa ai super-patrimoni?
In una lettera inviata ai leader del Nord del mondo, oltre centocinquanta economisti tra i quali Yanis Varoufakis e Jason Hickel hanno chiesto di introdurre un’imposta del 2% sui capitali dei super-ricchi, sufficiente a raccogliere oltre 2,5 miliardi di dollari con cui iniziare a finanziare un fondo di loss and damage a sostegno dei paesi più esposti ai cambiamenti climatici. Si stima che in Regno Unito una tassa del 0,5% ai patrimoni superiori al milione di sterline sarebbe sufficiente a coprire la quota dovuta al fondo dall’intera nazione. L’idea di base della giustizia climatica riparativa è che l’atmosfera sia un common, un bene comune che ad oggi è stato utilizzato in maniera iniqua e colonizzato a vantaggio di pochi.
Ritardisti climatici, economisti iperliberisti e politici conservatori si oppongono ai meccanismi internazionali di ristoro che prevedano una tassazione aggressiva dei super-patrimoni, soprattutto negli Stati Uniti, ma come sarebbe altrimenti possibile sostenere i programmi di mitigazione e adattamento nei Paesi meno attrezzati? Come togliere il kerosene dalle stazioni di rifornimento di Lagos ed evitare che una marea di migranti climatici si sparga in giro per il mondo? È la realpolitik più autointeressata e crudelmente competitiva a imporre di pensare globale, a preoccuparsi per il carburante che il più sperduto abitante di Hanoi versa nel serbatoio del suo catorcio, radiato da chissà quale Paese europeo ormai avviato alla transizione.
Ci vogliono coraggio politico e coordinazione internazionale per fare in modo che i super-ricchi si facciano carico della responsabilità storica delle emissioni e dell’obbligo morale della mitigazione: sarebbe la dimostrazione che le leggi non valgono solo per chi è povero e debole, con un ritorno enorme in termini di consenso popolare. Poi c’è la sfida da far tremare i polsi di rendere eque e giuste le politiche per l’adattamento: “i nostri scopi non devono essere quelli del Mindset”, ammonisce Rushkoff al termine del suo libro, “non dobbiamo mirare a traguardi individuali, a vittorie tangibili, a fughe col malloppo, ma dobbiamo cercare invece un progresso incrementale verso una forma collettiva di coesione”.
Non possiamo riparare il pianeta, non esiste alcun luogo abbastanza al sicuro in cui nascondersi, e la fuga altrove non è un’opzione. I super-ricchi sperano ancora che una trovata risolutoria dell’ultima ora possa garantire loro un altro secolo di progresso senza subire le conseguenze delle proprie azioni, ma sono ormai consapevoli che i loro affari e il loro stile di vita hanno gli anni contati. “Sanno che gli edifici che hanno costruito saranno spazzati via dall’oceano”, chiosa Rushkoff laconico. La strada dell’escapismo è già finita.