Crisi energetica, la (dannosa) follia del taglio dei boschi

Questo articolo, pubblicato sulla newsletter “Fatto for Future” del Fatto Quotidiano ampiamente ridimensionato per esigenze redazionali, viene qui riproposto nella sua versione integrale.
Di Paola Favero – Mountain Wilderness Italia, socia accademica del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna)

Mai come in questo momento gli alberi ed i boschi sono oggetto di attenzione, propaganda, interesse, spesso assolutamente superficiali e molte volte decisamente discordanti.

La globalizzazione e omologazione che caratterizzano sempre di più la nostra società si è estesa negli anni alle coltivazioni agricole ed oggi anche ai boschi e alle foreste, creando popolamenti coetanei e spesso artificiali, molto più monotoni e fragili di fronte ai parassiti e agli eventi naturali, ma sicuramente più comodi e validi ai fini economici. Si parla sempre più spesso dell’importanza del bosco per la salute del pianeta, dell’influenza che hanno gli alberi per la mitigazione del clima, ed in particolare per ridurre la temperatura nelle città, e ancora di più del loro prezioso contributo per l’assorbimento della CO2 e la produzione di ossigeno. E contemporaneamente si vogliono tagliare gli alberi nei centri abitati perché danno fastidio, sporcano o sono pericolosi, e si decide di incentivare le centrali a biomassa legnosa che hanno un rendimento davvero basso ed emettono nell’atmosfera CO2, bruciando organismi che erano invece capaci di assorbirla e immagazzinarla nel loro legno.

Allo stesso modo si inneggia alla biodiversità e si sottolinea come sia fondamentale mantenerla e preservarla, ricordando che oggi siamo in una fase che viene chiamata la sesta estinzione poiché le specie viventi si stanno estinguendo alla stessa velocità che ha caratterizzato in tempi geologici le  “big five”, le 5 grandi estinzioni di massa, (una delle più famose quella che nel Terziario ha visto la scomparsa dei dinosauri). Si ricorda come la biodiversità sia alla base della vita stessa e della vita come oggi la conosciamo, si portano dati precisi che mostrano come l’uomo l’abbia già ridotta di circa il 50% e si spiega che l’80% di quella che resta è conservata nei boschi e nelle foreste, soprattutto quelle vergini o vetuste, che sono più evolute, complesse, ricche e resilienti. Ma poi, in altri contesti, si spiega che i boschi vanno gestiti e tagliati per garantirne una maggior stabilità, si sostiene che è bene ringiovanire i popolamenti forestali per renderli più resistenti alle tempeste di vento, e in nome di maggiori rendimenti e di una presunta economicità si preferiscono interventi generalizzati, effettuati con mezzi meccanici invasivi che possono operare solo con dei tagli raso, non certo con tagli a scelta a carico dei singoli alberi. Troppe volte ormai gli alberi sono visti solo come una merce uguale a molte altre e, nell’ultimo periodo, addirittura come una parziale soluzione ai problemi energetici che ci colpiscono. Nel corso degli ultimi decenni l’albero, prima considerato un individuo con proprie caratteristiche e peculiarità, utile a svariati fini ma sempre scelto e valutato con cura ed attenzione, così che c’era quello adatto a fare mobili e quello ottimo come trave, quello speciale per le sculture e quello per sedie o rastrelli, è diventato merce legno più o meno tutta uguale all’interno di processi di esbosco e lavorazione sempre più meccanizzati ed uniformati. Il taglio saltuario per piede d’albero, o taglio cadorino, fiore all’occhiello della selvicoltura naturalistica italiana, che l’ha ereditato dalla splendida Repubblica di Venezia, oltre che garantire la produzione del bosco ne salvaguardava la capacità ecosistemica, gli habitat presenti al suo interno, la sua varietà e resilienza, la biodiversità, imitando la natura stessa che solo in caso di eventi eccezionali, come tempeste di vento o valanghe, apre grandi radure all’interno della foresta; oggi si va sostituendo un taglio adatto ai nuovi mezzi meccanici sempre più efficienti e veloci, che aprono superfici a raso e non guardano certo ai singoli alberi.

Peccato che in tutti i manuali di ecologia e selvicoltura abbiamo da sempre studiato che i boschi migliori sono quelli misti, disetanei e dove l’eventuale utilizzazione deve seguire l’esempio della natura prelevando una pianta là e una qua, senza disturbare la struttura forestale e senza alterare gli habitat presenti. Abbiamo anche imparato che sono proprio gli alberi più vecchi e più alti a dare la dimensione dell’ecosistema foresta, creando uno spazio di biodiversità che qualora vengano tagliati ringiovanendo il bosco si riduce drasticamente. Quante nicchie ecologiche si perdono dimezzando l’altezza di un popolamento? Così, mentre da un lato si riconosce l’importanza dei boschi vetusti e delle piante vecchie, anche quelle morte in piedi, arrivando a dare finanziamenti per creare le “isole di senescenza”, cioè tratti di bosco artificialmente invecchiati anzitempo in luoghi dove i popolamenti forestali sono stati troppo manomessi e alterati, dall’altro si continua ad inneggiare al taglio e alla gestione attiva, che portano inevitabilmente alla semplificazione e alla perdita della biodiversità.

Ma non solo. Questo tipo di approccio produttivistico, che era stato di gran voga negli anni del dopoguerra, ed era stato poi superato dalla più moderna selvicoltura naturalistica, è alla base dell’attuale fragilità dei nostri popolamenti forestali, poiché strutture monospecifiche e coetanee sono molto più sensibili a tempeste di vento e nevicate pesanti, e soprattutto ad attacchi parassitari come quello che bostrico (Ips tipographus), che sta decimando gli abeti rossi in tutto l’arco alpino e più in generale in tutta Europa. Questa specie, che per la velocità di crescita ed il legno ottimo per infissi, pavimenti, mobili, ecc… è stata ovunque favorita e spesso anche piantata, rappresenta oggi l’essenza forestale di gran lunga più diffusa, e costituisce spesso popolamenti monospecifici che sono ideali per lo scoppio di vere e proprie infestazioni parassitarie. Gli insetti sono infatti quasi sempre specifici, così che per esempio il bostrico colpisce l’abete rosso e la coleophora laricella il larice, e quando uno di questi insetti trova le condizioni favorevoli per riprodursi in modo eccezionale, in seguito a disequilibri che provocano sofferenza nella pianta ospite, improvvisamente incapace di respingere i loro attacchi, la presenza di ettari ed ettari coperti prevalentemente dalla specie prediletta moltiplica il potenziale riproduttivo del parassita, che diventa un vero e proprio flagello. Cosa che invece non si verifica nei boschi polispecifici, dove vedremo morire gli abeti rossi ma dove il popolamento continuerà a vivere grazie a tutte le altre diverse specie che lo compongono: faggi, abeti bianchi, larici, aceri, sorbi, ecc… Lo stesso fenomeno possiamo vederlo nelle pinete delle zone pedemontane che sono tutte colpite dalla processionaria: ma siamo stati noi a piantare quei popolamenti artificiali tutti della stessa specie, il pino nero, e della stessa età, creando le condizioni ideali per l’esplosione del parassita.

Mentre in passato queste infestazioni avvenivano solo occasionalmente in seguito a qualche annata particolarmente siccitosa, o a piccole aree di schianti che si verificavano in seguito a venti violenti ma localizzati, oggi con la crisi climatica vediamo tempeste di vento sempre più forti, estese e frequenti, come è stata la tempesta Vaia, che creano una massa enorme di legno deperiente e sofferente, ideale per essere attaccato dai parassiti. Ma non basta, l’abete rosso viene attaccato anche dove non si verificano questi eventi estremi a causa dello stato di stress in cui si trova per il riscaldamento globale. Due gradi in più di temperatura per un organismo che non può spostarsi o difendersi significa una situazione di debolezza e malessere che insetti, funghi, batteri percepiscono immediatamente, così che arrivano in massa per approfittare della situazione innescando la distruzione di migliaia di piante.

Foresta del Cansiglio

Non dobbiamo poi dimenticarci che l’aspetto che più mette in crisi gli alberi ed i boschi è la velocità con cui avvengono questi cambiamenti: in passato, per esempio quando le Alpi sono state interessate dall’ultima glaciazione, questa è avvenuta in tempi molto più lenti, che hanno dato modo alle piante di spostarsi in zone non ancora coperte dai ghiacci, riuscendo così a salvarsi e a ripopolare successivamente gli antichi territori. E’ il caso del pino cembro, che dalla Siberia è arrivato a colonizzare le alpi meridionali e quando i ghiacci si sono ritirati è rimasto nelle zone più fredde rivolte a settentrione. Ma l’attuale crisi climatica, proprio perché provocata dall’uomo, è caratterizzata da velocità eccezionali che non permettono ad organismi come le piante di adattarsi o di spostarsi in tempo.

Per questo è importante oggi preservare in ogni modo e con ogni mezzo i boschi presenti, che non dobbiamo valutare solo per quel piccolo rendimento economico datoci dal legname da opera o dalla legna utilizzata per produrre energia, ma per tutti i servizi ecosistemici che ci forniscono, che hanno un valore ben più alto ma difficilmente monetizzabile. Utilizzare il legno per produrre energia è lo spreco più grande che si possa fare, ed è lecito solo quando si tratta di scarti di segheria, che in altro caso sarebbero buttati. Ma tagliare alberi per poi bruciarli è oggi davvero una follia, poiché si taglia un organismo capace di assorbire CO2 per ottenere energia con un processo di combustione che invece ne produce e che immette nell’aria anche polveri sottili estremamente nocive. Il legno non è una forma di energia rinnovabile nei tempi necessari, poiché occorrono decenni per far crescere un albero. Certo non si vuole con questo negare che nei piccoli borghi di montagna bruciare la legna per scaldarsi può essere ancora sostenibile, purché siano eliminati caminetti o stufe di vecchia concezione per utilizzare invece apparecchi efficienti che consumano poca legna e non producono inquinanti. Bisogna inoltre che i tagli siano fatti con oculatezza senza rovinare o indebolire la struttura forestale, in punta di piedi insomma, come si faceva un tempo.

Champoecher. Foto: Sergio Ruzzenenti

Leggere in questi giorni slogan come “contro il caro bollette usiamo la motosega” o simili ci mostra ancora una volta la cecità in cui siamo immersi, e la malafede di chi sostiene queste cose solo per interessi ben diversi, legati agli incentivi o al tornaconto immediato, ma incapaci di vedere oltre, a quello che è il nostro futuro. Tornando ai servizi ecosistemici delle piante possiamo comprendere che solo la loro funzione di assorbimento della CO2 basterebbe a spingerci a salvaguardarli in ogni modo. Ma se a questo si aggiunge la mitigazione del clima, la produzione di suolo, la conservazione e la regimazione dell’acqua, la difesa idrogeologica, la funzione sanitaria, e turistico ricreativa, e più importante di tutte, la salvaguardia della biodiversità, possiamo comprendere che il vero tesoro sta proprio negli alberi e nei boschi in piedi, vivi, ricchi e biodiversi, e non nel legno che ne possiamo ricavare, soprattutto quando lo bruciamo.

Ecco quindi che gli slogan che sentiamo sempre più spesso, “piantiamo alberi” da un lato e “tagliamo boschi” dall’altro, suonano sempre più assurdi e falsi. E’ certo importante piantare alberi soprattutto nelle città e nelle aree urbane, ma ancora più importante è conservare i boschi, perché questi non sono solo insiemi di alberi ma rappresentano un vero e proprio ecosistema, un mondo di biodiversità su cui, non dimentichiamolo, si regge tutta la vita del pianeta, e che una volta persa non è riproducibile neppure grazie alle tecnologie più raffinate.

Sarà sulla capacità di tutelarla che si giocherà il nostro futuro.

Paola Favero