Energie pulite

Carlo Alberto Pinelli

Mi è capitato di leggere, sul numero 146 ( 4 ottobre ) de Il Venerdì di Repubblica, un’ intervista dal titolo “ Anno 2050: Bye Bye Petrolio”. Le domande sull’aumento delle emissioni inquinanti, e sugli stratagemmi per contrastarle, senza necessariamente stravolgere gli stili di vita dei cittadini del mondo, erano rivolte all’ingegnere ambientale Mark Jacobson della Stanford University. Le conclusioni mi sono parse inquietanti. Ma non per il motivo che il lettore si sta immaginando. Prima di spiegare le ragioni che mi inducono a usare un aggettivo così minaccioso vorrei fare una premessa, per inserire l’argomento nella cornice di quelle che a mio parere sono le sue esatte dimensioni.

L’emergenza climatica è un dato incontrovertibile e bene agiscono tutti coloro che stanno aiutando Greta a suscitare la straordinaria ondata di proteste giovanili cristallizzate nei Fridays for Future. Però la soluzione rimane tutt’altro che semplice, malgrado qualsivoglia entusiasmo estemporaneo; ed è lontana, come lo era prima, dall’individuare un percorso efficace, checché se ne dica e ci si auguri; purtroppo non basta marciare per le strade, sventolando simpatici cartelli, o sollecitare sit- in di digiuno, per arginare un processo economico/culturale (– o un virus?-) che ormai domina ogni anche minimo aspetto dell’ esistenza di tutti noi e pilota le aspettative di miliardi di nostri simili. Lungi da me l’idea di sminuire il significato della protesta contro l’industria inquinante. Però, detto brutalmente, è la diffusa ( e di per se legittima) aspirazione al benessere materiale il fattore di gran lunga maggiormente colpevole dell’aumento di CO2 nella biosfera. Fa male doverlo ammettere: ma la verità, più spesso di quanto si creda, può anche non vestire i panni del “politically correct”.

Anzi, a voler essere ancora più brutali: è la crescita al momento inarrestabile della popolazione mondiale ( e in particolare delle classi borghesi emergenti) a rendere praticamente impossibile la fuoriuscita dall’incubo incombente di cui parla, con accorati toni apocalittici, la ragazzina svedese. Abbiamo a che fare con una crescita della specie umana cancerogena, anche se tutti evitano di parlarne, a cominciare dalla famosa e per molti versi pregevolissima enciclica “Laudato Si”. Un silenzio irresponsabile, che sottrae validità a ogni altra proposta alternativa.
Ma cominciamo a vedere, in estrema sintesi, le cose come stanno, per capire se le soluzioni ventilate contengano una qualche briciola di efficacia o siano soltanto puerili scongiuri, buoni per pacificare le coscienze ma incapaci di abbassare anche solo di una linea la febbre del pianeta.
I paesi dell’OCSE, di cui l’Europa fa parte, contribuiscono all’inquinamento da CO2 per un terzo del totale mondiale. E’ una percentuale ancora troppo alta ma attualmente in lieve diminuzione. L’Europa è responsabile del 9 per cento di quel terzo. Per il momento la dispersione nell’atmosfera di CO2 in Europa decresce già del 2 per cento annuo. Non basta, però è già qualcosa. I paesi non OCSE, tra cui la Cina e l’India, sono responsabili dei due terzi delle emissioni inquinanti e le aumentano del 3,4 per cento l’anno. Questo trend micidiale appare destinato a crescere in sintonia con le aspettative delle popolazioni locali. Aspettative in gran parte sacrosante, ma non per questo meno esiziali.

Veniamo all’Italia. Il Piano Nazionale Energia e Clima prevede il raddoppio dell’energia pulita per il 2030. Il costo dell’operazione è stimato ufficialmente a 187 miliardi di euro, da sommare ai 220 miliardi di euro che la nostra collettività sta già pagando per onorare gli impegni internazionali relativi al clima. A sborsare questi ulteriori 187 miliardi saranno sempre gli italiani attraverso le bollette o altro. Un salasso salato, che tutti però saremmo disposti ad affrontare se ne derivasse qualche reale e significativa diminuzione della percentuale di CO2 nell’ atmosfera; e a patto che non erodesse fino all’osso, strada facendo, i valori immateriali in cui si incardina la nostra cultura. I sostenitori del provvedimento affermano che una gran parte di questa spesa verrà coperta dalla sterilizzazione degli sgravi concessi fino ad oggi alla produzione di energie fossili. Si tratta di un plateale abbaglio, perché tali sgravi riguardano i carburanti utilizzati dall’agricoltura ( benzina e gasolio per trattori e altri macchinari), dai pescatori ( idem ), dagli autotrasportatori ( idem). Gli sgravi hanno avuto fin’ora la loro ragione nel compensare parzialmente l’alto prezzo dell’energia che questi settori economici devono sopportare in Italia rispetto ai loro concorrenti europei. Quando il Governo si è reso conto dell’alzata di scudi che un simile provvedimento avrebbe provocato ha subito fatto marcia indietro.
Ritorno all’articolo del Venerdì di Repubblica, all’intervista con Mark Jacobson, e al mio sconcerto. Mi limiterò ad affrontare il tema delle turbine eoliche, un problema spinoso di cui da anni mi occupo, lasciando arbitrariamente da parte il fotovoltaico.
Mark Jacobson sostiene che in Italia, entro il 2050, l’energia di fonte eolica può raggiungere il 26 per cento del fabbisogno elettrico totale, contro l’attuale 5 per cento. Per riuscirci occorrerà però utilizzare 5700 km quadrati di terreno, pari – diciamo – all’estensione dell’intera regione Friuli- Venezia Giulia, o quasi. Se srotolassimo questi 5700 km quadrati lungo l’intera dorsale collinare e montana della penisola, quella cioè adatta ( si fa per dire) a questo tipo di impianti, ci troveremmo di fronte ad una devastazione paesaggistica senza precedenti nell’intera storia del nostro paese. Basti pensare che già oggi, per racimolare quel misero 5 per cento di intermittente e inaffidabile produzione di energia elettrica dal vento, sono state snaturate enormi porzioni di paesaggi dell’Italia meridionale. Di fronte a simili obiezioni Jacobson non si scompone. Si tratta solo, dice, di abituarsi alla vista di quell’ininterrotta selva di pale rotanti. Del resto, conclude seraficamente, tra una turbina e l’altra si possono continuare le tradizionali attività agricole e pastorali. Cosa pretendiamo di più?

Io credo che quelli che ragionano come Jacobson siano i veri nemici della specie umana. Sempre che “essere umani” significhi ancora non abdicare alla percezione della bellezza, alle proprie radici culturali e al rispetto della storia di cui siamo figli. Conosco l’obiezione: se la casa è in fiamme, dovremo rassegnarci a sacrificare i nostri valori, anche quelli fondamentali, pur di garantire ai posteri un qualche tipo di sopravvivenza. La risposta è semplice: il ricorso alle pale, così come vengono proposte oggi, non ci avvicina neppure di un millimetro a quella sopravvivenza. Per cambiare in parte la prospettiva bisognerebbe trasferire reali e massicci investimenti nella ricerca. Quale ricerca? Per esempio quella che riguarda la messa a punto di credibili sistemi di stoccaggio che neutralizzino l’intermittenza ( il vento è capriccioso e durante la notte il fotovoltaico si spegne), abbandonando nel frattempo l’affrettata installazione degli attuali modelli, con gli investimenti connessi. O se si preferisce, si potrebbe per lo meno cominciare a istituire un tavolo nazionale, al quale invitare tutti i portatori di interesse, ambientalisti inclusi, per decidere dove sia accettabile la presenza delle pale eoliche sull’intero territorio della penisola e dove no, in relazione alla ventosità, al pregio dell’ambiente circostante, infine ai vantaggi reali che se ne potrebbero trarre. Resterebbe però un’ altra domanda senza risposta: fino a che punto potremmo accettare il baratto tra l’ oggettiva degradazione di una parte non marginale di quei valori culturali ( radicati nei paesaggi) che ci hanno fatti quello che siamo e il miraggio della sopravvivenza futura?
Invadere la maggior parte dei profili collinari italiani, così ricchi di echi e di storia, con decine di migliaia di manufatti rotanti, più alti della Mole Antonelliana di Torino, equivale ad una radicale e brutale omogeneizzazione dei paesaggi, senza apprezzabili contropartite a livello del problema planetario.

Le selve delle torri eoliche, a causa del loro numero e delle loro spropositate dimensioni, diventeranno l’elemento dominante – schiacciante – dei paesaggi in cui verranno innalzate. La loro presenza cannibalizzerà, sottometterà e umilierà tutte le altre forme, spesso sottili e delicate, dei tessuti territoriali locali, danneggiandone l’ armonica percezione. Basta fare un viaggio nel Molise, in Basilicata o in alcune parti della Sicilia per convincersene. Stiamo per essere imprigionati in una mostruosa gabbia di aerogeneratori che producono qualche briciolo di energia solo quando soffia il vento adatto. Ne vale davvero la pena?
L’ invasione eolica porta ad un’ irreversibile semplificazione a senso unico dei paesaggi identitari; a una definiva obliterazione di quanto resta ancora delle loro così diverse sedimentazioni storiche e delle loro valenze simboliche e emotive. Una drammatica perdita di identità, passaggio obbligato verso la loro degradazione in avamposti delle periferie urbane: “non-luoghi” indistinguibili gli uni dagli altri.


Temo fortemente che molte spregiudicate lobbies economiche si apprestino a cavalcare le ragioni della protesta studentesca e usino astutamente lo tsunami emotivo causato dalla predicazione di Greta come grimaldello per far approvare da chi ci governa, con la superficiale fretta dettata dalla presunta emergenza, provvedimenti privi di vantaggi per il corpo sociale, inefficaci riguardo al problema mondiale, ma molto lucrosi per loro stesse.
Stiamo assistendo, insomma, all’ultimo atto della conquista “coloniale” del mondo rurale da parte delle logiche e degli interessi di gruppi finanziari e di pressione senza scrupoli, spesso infiltrati dalla malavita organizzata.
Se almeno il massacro del paesaggio contribuisse a capovolgere il cammino della società mondiale che va verso l’auto- distruzione! Però così non è. Fin troppo evidentemente. L’energia che si può produrre dal vento – per lo meno con le tecnologie attuali – resta e resterà sempre solo una goccia nel mare. Una goccia velenosa.
Carlo Alberto Pinelli