Il saccheggio
Da un intervento alla Facoltà di Scienze politiche, Università La Sapienza di Roma, 12 marzo 2009. Di Paolo Rumiz
Oggi serve la lingua del Pentateuco, o dell’Apocalisse di Giovanni, perché viviamo un momento biblico. “E verrà il giorno in cui le campagne si desertificheranno e la boscaglia invaderà ogni cosa, i ghiacciai entreranno in agonia e l’aria diverrà veleno. Il tempo in cui la natura sarà offesa nelle sue parti più vulnerabili”. Se i nostri padri ci avessero fatto una simile profezia non li avremmo creduti. Invece succede.
Siamo in guerra. Una guerra contro i territori. In Italia è iniziata la guerra per l’accaparramento delle ultime risorse. Sta già avvenendo: cementificazione dei parchi naturali, requisizione delle sorgenti, privatizzazione dell’acqua pubblica, discariche e inceneritori negli spazi più incontaminati del Paese, ritorno al nucleare, grandi opere imposte con la militarizzazione dei territori e la distruzione di interi habitat, fiumi già in agonia, disseminati di ulteriori centrali idroelettriche, impianti eolici che stanno cambiando i connotati dell’Appennino.
Guardate cosa succede con l’eolico. Gli emissari di una multinazionale dell’energia si presentano a un comune di cinquecento-mille abitanti. Offrono centomila euro l’anno per due o tre pale eoliche alte come grattacieli di trenta piani. Il sindaco al verde non ha alternativa. Accetta. Per lui quelle pale sono il solo modo per pagare l’illuminazione pubblica e gli impiegati. La Regione e lo Stato non intervengono. In nome dell’emergenza energetica passano sopra a tutto, anche a un bene primario come il paesaggio. Risultato? Oggi la rete eolica italiana non è il risultato di un piano ma del caso. Segna come le pustole del morbillo i territori deboli, incapaci di contrattare.
Con l’acqua la situazione è ancora più limpida. Vi racconto cose che ho visto personalmente. Qualche scena, capace di illuminare il tutto.
Alta Val di Taro. C’è una fabbrica di acque minerali che succhia dalle falde appenniniche in modo così potente che nei momenti di siccità gli abitanti del paese -noto fino a ieri per le sue fonti terapeutiche e oggi semi abbandonato- restano senz’acqua nelle condutture pubbliche. C’è una protesta ma il sindaco tranquillizza tutti in consiglio comunale. “Non abbiate paura -dice- quando mancherà la NOSTRA acqua la fabbrica pomperà la SUA nei nostri tubi”. L’acqua del paese è data già per persa, requisita dai padroni delle minerali. L’idea che si tratti di un bene pubblico e prioritario non sfiora né il sindaco né la popolazione rassegnata.
Recoaro, provincia di Vicenza. Una pattuglia di “tecnici dell’acqua” (così si presentano) fanno visita a una vecchia che vive sola in una frazione di montagna. Le chiedono di poter fare delle verifiche alle falde. La donna pensa che siano del Comune. Il lavoro dura un mese. I tecnici trivellano, trovano acqua. Poi chiudono il pozzo aperto con dei sigilli. A distanza di mesi si scopre che la fabbrica di acque minerali giù in valle sta facendo un censimento delle fonti potabili in quota, in vista della grande sete prossima ventura della Terra in riscaldamento climatico. I parenti della donna si accorgono del maltolto e sporgono denuncia. Scoprono di essersi mossi appena in tempo per evitare l’usucapione del pozzo. Il sindaco tace. Gli abitanti di Recoaro pure. Ciascuno vende le sue fonti in separata sede.
Castel Juval, in val Venosta. Qui potete fare le vostre verifiche da soli. Vi sedete al ristorane dell’agriturismo di Reinhold Messner e chiedete dell’acqua. Scoprirete di avere due opzioni. L’acqua minerale -la notissima acqua propagandata dall’alpinista sudtirolese- e l’acqua di fonte. La fonte di Reinhold Messner. Ebbene, anche questa è a pagamento. Metà prezzo rispetto a quella in bottiglia, ma anch’essa a pagamento. E la gente beve, estasiata. Vedere per credere.
Che dire? Come gli abitanti della Somalia o del Mali, siamo disposti a pagare ciò che ci sarebbe dovuto gratuitamente. Abbiamo rinunciato a considerare l’acqua come pubblico bene. La nostra sconfitta, prima che economica, è culturale. La grande vittoria del secolo scorso fu l’acqua nelle case. Oggi abbiamo accettato di tornare indietro. Siamo ridiventati portatori d’acqua. Come gli etiopi, arranchiamo per le strade con carichi inverosimili d’acqua e non riflettiamo che il valore reale della medesima è appena un centesimo del costo della bottiglia. Meno del costo della colla necessaria a fissare l’etichetta.
Il dramma non è solo lo scempio delle risorse, ma la nostra insensibilità alla rapina in atto. Abbiamo accettato di farci derubare. Siamo un popolo rassegnato, e i signori delle risorse lo sanno perfettamente.
Il dossier di un’azienda multinazionale finlandese descrive così una regione italiana del centro: “facilità di penetrazione, costi d’insediamento minimi, zero conflittualità sociale”. Soprattutto, “poche obiezioni ecologiche”.
Sembra il Congo, invece è Italia.
Paolo Rumiz