Punta Corna e il nuovo estrattivismo verde europeo

Di Alberto Valz Gris – dalla rivista “Nunatak” n. 63 inverno 2022

Punta Corna. Foto: Beppe Leyduan da “I camosci bianchi”

Punta Corna Project e il cobalto

Fra le numerose vette dell’alta valle di Viù si alza la Punta Corna, uno sperone roccioso di aspetto piuttosto evidente fin dal fondovalle, compreso tra i valloni del Veil e del Servin. La storica guida CAI-TCI redatta da Berutto e Fornelli elenca numerosi itinerari che ne risalgono le pareti scoscese, la cui frequentazione in tempi recenti sembra però sporadica. Non è solo un ristretto manipolo di alpiniste e alpinisti, però, ad aver posato gli occhi su queste formazioni rocciose. Anzi, le pareti della Corna hanno ricevuto un’attenzione mediatica recente per una questione del tutto diversa e per molti versi opposti alla ricreazione in alta montagna. Questo complesso montano è infatti al centro di un rinnovato interesse geologico orientato all’estrazione di una risorsa mineraria, il cobalto, dalla paventata importanza strategica e dal crescente valore di mercato. Questa operazione di prospezione geologica, che si chiama “Punta Corna Project”, è ad opera di una società australiana che risponde al nome di Alta Zinc attraverso una sua controllata italiana, la Energia Minerals.

Sono i dirigenti della stessa Strategic Minerals, la società torinese che si occupa della fase di prospezione geologica, a sottolineare come il successo del progetto genererebbe una sinergia produttiva con un’altra e non meno importante vicenda, e cioè quella della Italvolt di Scarmagno. Il progetto Italvolt consiste nella realizzazione di una fabbrica di batterie ad alta capacità, fra le prime se non la prima del Paese. L’azienda ha da qualche settimana sottoscritto un accordo per acquisire una porzione degli stabilimenti ex-Olivetti nell’eporediese.

L’attività estrattiva nell’Eurozona

Lo stesso boom dell’elettrico su cui i dirigenti di Alta Zinc e Italvolt fondano le loro proiezioni è quello che ha portato molti Stati a inserire i metalli da batteria nella lista delle cosiddette materie prime critiche. E’ questo il caso dell’Unione Europea, che ha di recente dato una svolta piuttosto significativa alla sua politica mineraria interna. Questa svolta, che consiste in un nuovo impulso a cercare ed estrarre materie prime all’interno dell’Eurozona, è sostanzialmente un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi decenni, in cui si è preferito delocalizzare l’attività estrattiva (generalmente sporca e poco redditizia) nei Paesi a sud dell’equatore. Riportare l’estrazione in Europa, si legge in un comunicato della Commissione Europea pubblicato a settembre dell’anno scorso, è una scelta conseguente a due motivazioni. Da un lato, la stabile impennata nella domanda di mercato che le materie critiche hanno subito negli ultimi anni. Dall’altro, la fragilità delle catene globali del valore acuita dallo stallo globale causato dalla pandemia da SARS-CoV-2. Ovviamente l’UE non è l’unica entità a mirare a una tale politica: la ricerca di minerali strategici galoppa, ad esempio, anche negli Stati Uniti. Il ragionamento è piuttosto semplice: per fare la transizione ecologica ci servono grandi quantità di materie prime critiche e non possiamo più affidarci alla sola importazione, quindi dobbiamo ricavarcele da noi. Questa politica si potrebbe chiamare di “sovranità estrattiva”. L’aspetto meno discusso di queste traiettorie è che una politica mineraria sovranista segna un ritorno di attività economiche abbastanza problematiche dal punto di vista sociale e ambientale e questo rappresenta nuovi interrogativi e problemi per chi, nei territori ricchi di risorse, ci abita.

A testimonianza della dimensione distruttiva della transizione ecologica, una coalizione globale di ONG, comunità locali e accademici da 36 Paesi ha di recente firmato un appello per sollecitare l’Unione Europea ad abbandonare il Green Deal nella sua forma corrente. Come si legge nel comunicato, le politiche e i programmi europei causeranno la drastica espansione di un’estrazione mineraria distruttiva in Europa e nel Sud del mondo, il che è una brutta notizia per il clima, per gli ecosistemi e per i diritti umani in giro per il mondo. L’appello è stato sintetizzato con uno slogan del tutto chiaro: «non possiamo scavare la nostra via d’uscita dalla crisi climatica».

Terre rare e transizione ecologica

Due aspetti vanno quindi sottolineati. Da un lato, la cosiddetta transizione ecologica continua a implicare un’estrazione massiva di risorse naturali non rinnovabili. Dall’altro, l’estrazione di questi minerali è tutt’altro che pulita, come invece vorrebbero dare a intendere espressioni come estrazione “verde” o “sostenibile”.

Quello tracciato finora è il quadro sintetico ma allargato in cui rientra l’economia industriale del cobalto, la risorsa al centro dell’operazione Alta Zinc a Punta Corna. Il cobalto esemplifica in modo abbastanza chiaro le decisioni europee sulla sovranità estrattiva, perché è sostanzialmente un monopolio geografico. Stando ai dati aggiornati al 2021 dell’U.S. Geological Service, il 70% di questo minerale viene infatti ricavato nella Repubblica Democratica del Congo, un Paese notoriamente instabile dal punto di vista politico e in cui le condizioni dell’industria mineraria sono a dir poco disastrose. L’estrazione di cobalto in Congo è caratterizzata da un’organizzazione artigianale priva di alcuna forma di protezione fisica, sanitaria e legale dei lavoratori e dallo sfruttamento del lavoro minorile. Questo materiale è anche noto alla cronaca per la sua potenziale tossicità, ma le mie competenze non mi permettono di approfondire questo aspetto. Provenendo per la maggior parte da un contesto geopolitico, sociale e ambientale molto complicato, il cobalto è stato definito il “diamante insanguinato” dei metalli da batteria, e alcune aziende si sono infatti impegnate negli anni a reperire cobalto tracciabile ed estratto in maniera “equa”.

Queste caratteristiche in gran parte problematiche spiegano due traiettorie quantomeno divergenti: da un lato i Paesi consumatori come quelli dell’Unione Europea istituiscono politiche di sovranità estrattiva, tentando di aggirare le contraddizioni geopolitiche, economiche e sociali che derivano dall’importazione di cobalto. Dall’altro la ricerca elettrochimica e industriale si muove verso l’eliminazione tout court del cobalto dalle composizioni chimiche per fabbricare le batterie. In sintesi: è troppo complicato, sporco e inaffidabile, proviamo a farne a meno. Questo secondo dato ci fa riflettere sulla possibile irrilevanza di questo materiale (e quindi della sua ricerca ed estrazione) nel medio e lungo periodo. Le batterie ricaricabili prive di cobalto, infatti, non sono più una sperimentazione da laboratorio ma, nell’ultimo anno, diversi produttori di batterie e di auto elettriche hanno annunciato la transizione a batterie senza cobalto. E’ questo il caso dell’accordo tra Panasonic e Tesla e della cinese CATL, il più grande costruttore di batterie al mondo.

A queste osservazioni bisogna aggiungere una breve nota sul prezzo medio del cobalto. Come è noto, il prezzo medio di questa risorsa è cresciuto in maniera significativa nell’ultimo anno, generando proiezioni economiche molto ottimistiche da parte di chi ne promuove la ricerca e l’estrazione. Questo dato va però contestualizzato all’interno di un drastico aumento dei prezzi delle materie prime in generale, avvenuto a partire dal secondo trimestre del 2020. Se, con un rapido sguardo ai dati del Fondo Monetario Internazionale sulle materie prime, confrontiamo l’evoluzione del prezzo medio del cobalto nell’ultimo anno (+56%) con quello disponibile di altri metalli da batteria (nichel, +42% e rame, +81%) e con altre risorse minerali (alluminio, +60%), capiamo che questa crescita non ha nulla di eccezionale. E che quindi, sommata alla possibile dismissione del cobalto come risorsa da batteria, non può essere presa a misura della bontà dell’operazione Alta Zinc a Punta Corna.

In base a queste informazioni i dubbi sulla redditività a lungo termine del progetto in alta valle di Viù sono più che legittimi. Che si tratti di speculazione sull’onda del generalizzato aumento dei prezzi delle materie prime in generale, dei metalli da batteria in particolare e della possibilità di approfittare dell’ampio investimento di risorse economiche nell’ambito del rinnovato interesse geologico della Commissione Europea?

Quanto è vero che l’estrazione di risorse genera sviluppo locale? La domanda meriterebbe ovviamente una trattazione troppo vasta per questo spazio, ma è comunque utile ragionare su qualche spunto. Partiamo dall’inizio: una fase tipica della realizzazione di un progetto estrattivo riguarda la negoziazione con gli attori locali. Spesso le posizioni possibiliste di una parte di questi attori (cittadini e amministratori) sono legate a discorsi sulla creazione di posti di lavoro diretti (nella miniera) e sulla creazione di un mercato economico indotto (intorno alla miniera). Il presupposto di base, secondo queste posizioni, è che l’attività estrattiva generi posti di lavoro e, di conseguenza, una traiettoria di sviluppo locale.

La maledizione delle risorse

Ci torna utile in questo senso una tesi, molto conosciuta negli studi sulle risorse naturali, formulata da Richard Auty nel 1993 in un libro dal titolo eloquente: «La maledizione delle risorse». Con questa tesi, Auty sosteneva il paradosso per cui la ricchezza di un dato Paese non corrispondesse alla sua crescita economica, anzi il contrario. Secondo i suoi studi, la ricchezza di risorse naturali risultava un impedimento alla crescita economica, una prospettiva che le realtà quotidiane di Paesi come il Congo sembrano confermare.

In ambito accademico, la bontà di questa tesi è stata molto dibattuta negli anni, eppure a venticinque anni di distanza dalla sua formulazione un recente articolo di rassegna pubblicato sull’autorevole “Resources Policy” conclude che l’ipotesi per cui la dipendenza dalle risorse naturali influenzi negativamente la crescita rimane, tutto sommato, convincente.

Certo, la tesi di Auty si fonda su osservazioni alla scala dello Stato nazionale e quindi rimane uno strumento poco adeguato per valutare effetti localizzati, ma ha il pregio di illumunare il fatto che la ricchezza di risorse spesso non sia una fortuna, anzi. Anche due economisti della Banca Mondiale – non certo espressione di un posizionamento critico rispetto a temi sociali e ambientali – concludono che i boom economici legati alle risorse naturali non sono solo la delizia, ma anche la croce delle comunità locali. Questo, in breve, per un insieme di fattori. I posti di lavoro generati dall’industria estrattiva sono spesso scarsi, di bassa qualità, nocivi per la salute del lavoratore e a breve termine. Provo a spiegare queste quattro caratteristiche. In primo luogo, l’industria estrattiva ha subito una forte evoluzione tecnica negli ultimi anni, con tassi di meccanizzazione e automazione del lavoro sempre crescenti e una conseguente riduzione dei posti di lavoro necessari. A questo si accompagna una tradizionale difficoltà a reperire manodopera locale, per cui la forza lavoro è generalmente costituita in larga parte da manodopera d’importazione. In più, almeno nel contesto del Sud globale, alla manodopera locale vengono spesso riservate le mansioni meno qualificate, e di conseguenza i redditi più bassi. In secondo luogo, i ricavi legati al settore delle risorse naturali sono tradizionalmente volatili, perché sono intimamente legati ai prezzi nel mercato globale delle stesse, e questi prezzi sono notoriamente soggetti ad oscillazioni molto profonde. Questo aspetto fa riflettere sull’effettiva longevità di un’operazione estrattiva come fonte di sostentamento economico e sviluppo locale. Infine, per quanto l’industria estrattiva si sia indubbiamente modernizzata e sia soggetta a regolamentazioni ambientali più strette, rimane un’attività ad alto inquinamento, con conseguenze spesso nocive sulla salute dei lavoratori e degli ecosistemi in cui opera. I costi di riparazione del danno sanitario e ambientale arrecato da queste attività sono spesso molto ingenti e non è raro che le istituzioni locali non arrivino a coprirli.

In base a queste poche osservazioni – più uno spunto di riflessione che una trattazione estesa di questi temi – dovremo fortemente dubitare della promessa di base su cui si fondano tutti i progetti come quello di Punta Corna, e cioè che accettare il danno ecologico e paesaggistico portato dall’estrazione mineraria si traduca in sviluppo sociale ed economico per chi abita quei territori.

Le Montagne Europee a rischio

Miniera della Bagnada a Lanzada, in Valmanenco

Un rapido sguardo alla localizzazione geografica dei principali depositi di materie prime critiche offre lo spunto per concludere questo ragionamento: al centro del nuovo ciclo estrattivo europeo ci stanno le montagne. Date un’occhiata alle carte disponibili sul sito dell’European Geological Data Infrastructure, vedrete che i rilievi montuosi e la localizzazione dei minerali strategici coincidono largamente. Le Alpi e l’Appennino in questa penisola, il Massiccio Centrale francese, i Pirenei e la regione dei Balcani saltano subito all’occhio. In un continente così densamente abitato, scavare le montagne significa cancellare preziosi spazi di biodiversità e di regolazione climatica, obiettivi non esattamente allineati con le buone intenzioni promosse dalla recente “svolta ambientalista” di Stato e mercato. Tocca quindi più che mai alle culture di montagna il dovere di rivendicare il diritto a esistere e a immaginare traiettorie alternative per abitare questo pianeta.