Transizione energetica ed energie rinnovabili: abbiamo gli ingredienti, adesso pensiamo alla ricetta.

Negli anni ’90 nessuno aveva previsto che nel 2022 saremmo arrivati ad installare 1000 Gigawatt complessivi di impianti fotovoltaici, in grado di generare il 5% del totale dell’energia elettrica consumata sul pianeta, e che il solare sarebbe diventato di gran lunga la fonte di energia più conveniente dal punto di vista economico oltre che determinante per contrastare i cambiamenti climatici su scala globale.
Organismi intergovernativi come IPCC ed IRENA hanno proposto vari scenari per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, in tempo per evitare effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici sugli equilibri ecosistemici del pianeta.
Se l’obiettivo è chiaro, molto invece rimane da definire sulle strategie per raggiungerlo: è importante che si diffonda la consapevolezza che in gioco c’è ben di più che una mera scelta economico-tecnologica dettata dalle dinamiche del mercato. Non esiste, infatti, una sola via alla transizione energetica e, soprattutto, esistono opzioni che hanno il pregio di coniugare la convenienza economica con importanti obiettivi di progresso sociale e di tutela degli ecosistemi e del paesaggio, grazie alle caratteristiche delle nuove tecnologie di generazione, accumulo, condivisione e gestione dell’energia da fonti rinnovabili come il fotovoltaico.

Cominciamo con la sostenibilità di sistemi energetici basati sul 100% di fonti rinnovabili. Diversi studi fanno chiarezza su questo punto. Partendo dai dati puntuali di domanda ed offerta di energia in rete, viene simulata la graduale sostituzione delle centrali a combustibili fossili e nucleari con impianti ad energia rinnovabile di varia taglia e sistemi di accumulo, non solo elettrochimico. La stabilità della rete viene studiata ora per ora, nel corso dell’anno, tenendo conto del profilo reale della domanda e della variabilità della produzione degli impianti eolici e fotovoltaici con le condizioni atmosferiche.
I risultati dimostrano che gli scenari migliori, in termini di stabilità delle reti e di minimizzazione dei costi dell’energia, prevedono un utilizzo prevalente (>85%) di energia elettrica nei consumi finali e una penetrazione complessiva di fotovoltaico ed eolico che può arrivare a superare l’80% come nel caso del
modello sviluppato congiuntamente da Solar Power Europe e dalla LUT University su scala Europea1.
Un recente studio della Stanford University2 ha applicato lo stesso tipo di analisi a ben 145 Paesi in tutto il mondo arrivando alle stesse conclusioni. Non solo è possibile smettere di usare i combustibili fossili entro il 2050, come indicato da IPCC e IRENA, ma le energie rinnovabili sono autosufficienti, cioè non serve ricorrere, ad esempio, al nucleare a fissione o a fusione.
La transizione energetica però non è solo sostituzione di una fonte di energia con un’altra. La competizione in un mercato dominato da grandi produttori, che operano su una rete centralizzata, non è sufficiente a spingere i prezzi verso il basso. In questi ultimi 18 mesi, infatti, il prezzo unico nazionale è stato determinato dalla fonte più costosa (il gas) e anche l’energia generata dai grandi impianti eolici e fotovoltaici, pur costando 20 volte di meno è stata venduta a prezzi che hanno superato i 700€/MWh, generando enormi extraprofitti.
Le energie rinnovabili possiedono le chiavi per uscire da queste logiche speculative e garantire una maggiore sicurezza energetica ai cittadini. Le chiavi si chiamano generazione distribuita e comunità energetiche. Se, fino a due anni fa, la costruzione di grandi parchi fotovoltaici ed eolici veniva giustificata dalla competizione al ribasso con l’energia da fonte fossile, oggi lo scenario è radicalmente cambiato.
Perfino l’energia di un piccolo impianto fotovoltaico domestico costa da 5 a 10 volte meno dell’energia venduta in rete, e l’arrivo sul mercato di una nuova generazione di prodotti ad alta efficienza consoliderà ulteriormente questo distacco nei prossimi 5 anni.


Le comunità energetiche, per come sono concepite, sono uno strumento per favorire la condivisione dell’energia a livello di piccole comunità locali che hanno tutto l’interesse a dimensionare i propri impianti in funzione dell’autoconsumo e a mantenerne la proprietà.
Se fossero pienamente operative (purtroppo i decreti attuativi sono in forte ritardo), oggi molti più utenti
sarebbero protetti dalle speculazioni che condizionano il mercato energetico.
L’obiezione che viene spesso sollevata è che, per quanto si favorisca la generazione diffusa, il contributo di impianti di taglia massima di 1MW al fabbisogno di energia su scala nazionale non possa essere significativo. Basta, però, incrociare i dati di Terna sul consumo nazionale di energia elettrica con quelli di ISPRA sul consumo di suolo, per notare che per produrre la metà dell’energia elettrica consumata in Italia nel 2020 (320 TWh) mediante impianti integrati nell’ambiente già costruito (coperture, facciate) basterebbe una superficie pari al 10% di quella attualmente occupata dagli edifici, oppure circa la metà
della superficie adibita a piazzali e parcheggi. Non serve consumare altro suolo e nemmeno ricoprire di moduli aree agricole o di alto valore paesaggistico.
Ci sono ampi margini di scelta sulla tipologia di impianti e sulla loro collocazione, a meno che non accettiamo di ascoltare solo il punto di vista dei grandi investitori il cui scopo è fare profitti sul mercato dell’energia. Il futuro della transizione energetica e, in ultima istanza, della civiltà umana dipende dalla conoscenza e dalle scelte che stiamo facendo in questi giorni. Il problema è complesso e richiede azioni locali basate su una visione globale: siamo ancora in tempo, se lo vogliamo.

Massimo Mazzer