Trattori e futuro

L’amico Toni Farina mi chiede un commento sull’ennesima ondata di proteste del settore agricolo che a Febbraio 2024 ha bloccato strade e infiammato varie città europee e ovviamente la stessa “capitale” della UE, Bruxelles. Occupandomi di cose agrarie dalla fine degli anni ’70 e avendoci scritto due libri (Il Pianeta dei frigoriferi, Scienza Express, 2022; e Il pianeta mangiato, Dissensi, 2017) mi arrischio nell’impresa, consapevole che si tratta di un terreno molto complesso. Sulla maggior parte dei media (tradizionali e social), la cosa è stata presentata quasi esclusivamente come una rivolta del mondo agricolo all’implementazione di certe norme agroambientali. Guardiamo ora alla cosa con occhio disincantato, anche perché come sempre le vere cause potrebbero non essere visibili in superficie.

Per prima cosa: mancano pochi mesi al rinnovo di Parlamento e quindi delle Commissione UE. Il momento peggiore per proporre riforme di lungo periodo, anche bene ispirate, che però inevitabilmente non possono soddisfare le aspettative di tutti i gruppi di interesse. Questo rende inevitabile che proteste di ogni tipo possano venire appropriate da parti politiche per agende molto interessate e molto momentanee.

Veniamo alle proteste, che sono rumorose ma sembrano essere abbastanza circoscritte alla filiera dei cereali (che significa anche, non solo, filiera delle proteine animali). Proteste che sono ricorrenti, da decenni, non nascono in sé dal rifiuto delle proposte misure agroambientali (su queste torneremo più avanti) ma da un tema non certo nuovo. E cioè dalla richiesta di sostegno al reddito agricolo. Semplificando un po’: parte degli agricoltori non riesce a coprire i costi di produzione e quindi non vede remunerato il proprio lavoro, nonostante il massiccio trasferimento di risorse pubbliche che si chiama Politica Agricola Comunitaria (PAC), che va avanti dal 1962 e che anche in questo ciclo (ogni ciclo dura 6 anni) eroga a tappeto 387 miliardi di euro, oltre un terzo dell’intero budget europeo.  

La fase congiunturale attuale è innegabile. Abbiamo una guerra in Europa e – guarda caso – tra due dei maggiori produttori ed esportatori agricoli mondiali. I costi dell’energia, ecc. che si riverberano sui mezzi di produzione agricola, fanno la loro parte. Anche questa non è una novità: già nel 2006 Michael Pollan nel suo seminale “Dilemma dell’onnivoro” scriveva «Quando mangiamo, ingurgitiamo energia fossile».

Così tornano periodicamente richieste di ulteriore sostegno diretto al reddito (quindi richieste a UE e governi di metterci altri soldi pubblici) e/o di protezionismo in un sistema ormai assuefatto all’intervento pubblico ad ogni costo. È sfuggito ai media, ma l’inizio effettivo delle proteste è stato in Germania all’annuncio pretesto della volontà del governo di togliere le agevolazioni fiscali sul carburante agricolo (nel nome della volontà di non sussidiare attività climalteranti; ricorda un po’ la rivolta dei gilet gialli in Francia, il cui detonatore fu la carbon tax paventata dal governo Macron). Evidentemente non tutte le componenti sociali sono convinte della necessità dell’azione climatica. E forse, noi che lo siamo, abbiamo sbagliato a far credere che la transizione energetica si sempre indolore e a costo zero. Temi su cui riflettere, se non vogliamo che l’azione climatica – disperatamente urgente – si areni. 

Atri contenziosi si intrecciano nelle proteste, per esempio è nei confronti del Mercosur e cioè delle importazioni da Brasile e Argentina che sono due delle maggiori potenze agricole del mondo. Ma anche le importazioni agevolate di derrate agricole dall’Ucraina hanno creato malcontento, soprattutto in paesi come la Polonia. Qualcosa, qua e là, verrà concesso, visto che siamo in periodo elettorale. Misure tampone, non strategiche.

Come detto le difficoltà degli agricoltori nel vedere remunerato il proprio lavoro sono esacerbate da problemi contingenti ma non sono nuove. Nella (spesso complicata) filiera agroalimentare non sono certo loro a detenere le leve del comando. Così come non lo siamo noi consumatori.

Il problema di fondo rimane eluso anche questa volta: e cioè che chi remunera (spesso insufficientemente) gli agricoltori per il loro prodotto sono la grande industria di distribuzione e di trasformazione alimentare. Senza dimenticare le fasi di raccolta, conferimento e trasporto, che non sono sempre e ovunque nella UE trasparenti ed efficienti.

Ebbene, anche questa volta si assiste a promesse di breve periodo da parte della politica ai coltivatori ma senza coinvolgimento della trasformazione e distribuzione alimentare. Ma senza un approccio olistico che comprenda tutta la filiera alimentare nel suo complesso, temo che le prossime sfilate di trattori inferociti siano solo questione di tempo. La CAP, da decenni ormai uno strumento improprio di ammortizzazione sociale più che una politica agricola comune, richiede una drastica riforma. 

Veniamo alle misure “verdi”. Rotazioni, riposo dei terreni, fasce di rispetto, ripristino o ricreazione di siepi, tutela degli ambienti di margine, inserzione di elementi “naturali” nel paesaggio agrario e altre ancora sono delle ottime idee per mitigare la semplificazione ecologica inevitabilmente connaturata nell’agroecosistema. Alcune sono semplici buone pratiche agronomiche. Ci sono poi concetti come le cover crops, o carbon capture crops (cioè colture di copertura inserite tra quelle principali al fine di catturare CO2) che rientrano nell’ambizione europea di diventare il primo continente carbon-neutral.

Un’avversione di principio a queste misure non è giustificabile. Tanto più che, come detto, l’agricoltura europea vive pesantemente di aiuto pubblico e quindi è pieno diritto del Parlamento UE, che rappresenta i cittadini, di richiedere misure ambientali che sono sostenute – almeno in linea di principio – dalla popolazione. Dobbiamo chiaramente lavorare, a tutti i livelli della filiera alimentare da chi produce a noi che consumiamo, per “detossificare” il paesaggio agrario. Il che non è semplice o immediato, ma va fatto.

Ma a mio avviso la UE ha chiaramente sbagliato metodo e tempistiche. Imponendo dall’alto misure che probabilmente dovevano essere concertate alla base (lo ammette, a disastro fatto, la stessa Von der Leyen nelle dichiarazioni post-proteste). E lo ha fatto pure in una fase di sofferenza del settore schiacciato tra alti costi di produzione e prezzi non remunerativi. E prima di un’elezione, offrendo il destro a forze politiche (generalmente di destra, mi si perdoni il gioco di parole) che stanno costruendo la loro narrazione, da sempre anti-UE, anche su una certa strisciante e montante insofferenza per misure ambientali, climatiche o di semplice buon senso.

In realtà, ad una lettura tecnica, la politica agroambientale della UE, la famosa (o famigerata) «Farm to Fork», si rivela piena di richieste incoerenti, scollegate dalla realtà, una specie di compendio frettoloso di tutto quello che suona “verde” e che apparentemente bisognava comunque inserire nel testo. E che invece prima bisognerebbe dimostrare di potere applicare su scala sufficiente. Quando gli agricoltori si lamentano della incongruenza delle misure, e anche della difficoltà obiettiva a recepirne alcune, non se lo stanno inventando. Mi auguro che la Commissione UE ritorni con proposte meglio realizzabili, evitando l’imposizione di burocrazia a tappeto e promovendo invece, magari tramite le realtà regionali di assistenza e sviluppo rurale, una sostanziale riforma dell’ambiente coltivato e della filiera alimentare nel suo complesso, a livello paesaggistico, di bacino, di territorio.

Il vero problema è: cos’è la politica agricola europea oggi. La PAC, come accennato, è dal 1962 un gigantesco trasferimento di risorse dal contribuente al settore agricolo. È un terzo del budget europeo, a sostegno di un settore che però rappresenta 1,4% del PIL europeo. In realtà si tratta di un programma che di europeo ha solo lo stanziamento e l’allocazione dei soldi, le politiche sono poi nazionali. Anche governi eletti su agende anti-Ue non si tirano mai indietro quando c’è da incassare ed elargire.

La PAC ha risolto il problema, evidente nel 1962, dell’autosufficienza alimentare europea. Un continente provato da due guerre mondiali consecutive in cui razionamenti e penuria alimentare erano appena dietro l’angolo, e in cui si abbandonava la terra e si emigrava per fame. Ma gli anni sono passati, il mondo cambia a velocità accelerata e le sfide di domani non saranno quelle di ieri.

Sussidiare gli agricoltori non ferma il tempo che corre e un mondo che cambia. La PAC può al massimo mitigare ma non fermare i grandi cambiamenti.

Nonostante la PAC, tra il 2005 e il 2020 oltre 5 milioni di aziende agricole di piccole dimensioni (sotto i 5 ettari e perlopiù in zone marginali, soprattutto in Romania, Polonia, Italia, Grecia, Spagna) hanno chiuso i battenti. Questo fenomeno non si fermerà. Non ci sarà nessun “ritorno di giovani alla terra”, non negli stessi numeri. Ma molto altro sta cambiando (questi e i prossimi sono tutti dati ufficiali Eurostat). Gli agricoltori europei, come tutto il resto della popolazione, stanno invecchiando drammaticamente e nei prossimi 10 anni ci sarà un tracollo: oggi uno su 3 ha più di 65 anni e oltre la metà ne ha dai 55 in su. Piaccia o meno, se non coltiveranno i droni non lo farà più nessuno.

Ma proprio l’esempio dell’abbandono rurale e dell’imminente inverno demografico richiede un approccio culturale che va ben al di là del semplice sussidio: ci serve una politica per gestire quell’abbandono (che spesso è abbandono di agricoltura collinare e montana), che lo trasformi in opportunità. Non c’è spazio qui per i dettagli ma penso a temi come: agroforestazione, rewilding, agricoltura ad alto valore naturale (HNVF), ecoturismo “lento e a basso impatto”, gestione intelligente delle aree forestali che si vanno ricreando (e cioè non necessariamente usarle per le centrali a biomasse), ecc. Ci servono politiche integrate (non solo settoriali) per gestire i grandi cambiamenti della geopolitica globale, del paesaggio e della società. La PAC non risponde a queste sfide.       

L’ascesa di giganti agroalimentari come Cina o Brasile ha già cambiato le regole del gioco nei flussi di derrate e prodotti a livello globale. Ogni anno che passa, 100 milioni di asiatici e africani entrano nella “classe media globale”, si comprano il frigorifero e competono nella domanda di cibo. Le esportazioni agricole russe crescono a dispetto delle sanzioni NATO. Certo, perché quando hai come vicini 3 miliardi di nuovi consumatori di cibo come i cinesi e gli indiani, puoi anche fare a meno delle UE che, vista dal centro della enorme massa euroasiatica, è solo una piccola penisola in alto a sinistra che quasi esce dalla carta geografica.

Per non parlare dell’orologio che batte più inesorabilmente di tutti, quello del clima. Se giustamente viene posto l’accento sulla necessità di ridurre le emissioni e quindi mitigare il danno, ho l’impressione che come società ci stiamo dimenticando l’altra componente della drammatica equazione e cioè lo sforzo di adattamento alla “nuova normalità”. Nel campo agroalimentare significa sviluppare colture e varietà culturali che producano in un clima che nella Milano di domani sarà come quello della Marrakech di oggi, con crescenti conflitti intersettoriali per la risorsa senza la quale le piante non crescono: l’acqua. E molto altro.

Le proteste dei trattori non sono una novità e non si fermeranno qui. Entriamo in tempi di incertezza e cambiamento. Ferocemente dibattuta tra gruppi di interesse contrapposti, la politica agricola comunitaria è l’emblema di un’Europa che non sembra sapere da che parte andare. E che probabilmente non andrà da nessuna parte. Con costi sociali e ambientali enormi. Qualcun altro, o qualcosa d’altro, decideranno per noi: il mondo tutto attorno; e il cambiamento climatico.  

Mauro Balboni

Nato e cresciuto a Bolzano, laureato in Scienze agrarie all’Università di Bologna, ha lavorato quasi 40 anni nella ricerca e sviluppo del settore agroalimentare, la maggior parte dei quali come dirigente con responsabilità europee e globali. Ha vissuto a Milano, Bologna, Vienna, Oxford, Zurigo. Oggi risiede tra la Svizzera e il lago di Garda, dove ha trovato la sua vera life mission, quella di conservare un biotopo di prati magri e i suoi legittimi residenti: le “carote ametista”, le cavallette dalle ali blu, le api, le farfalle e le orchidee rare. Dal 2017 scrive sui temi della sicurezza alimentare globale e dell’impronta del cibo sulle risorse e gli ecosistemi, prima con Il Pianeta mangiato e ora con Il pianeta dei frigoriferi