Alessandro Gogna, un’intervista del 1990: cosa è cambiato sul fronte dell’ambientalismo montano
Pubblichiamo un’intervista ad Alessandro Gogna del 1990, già pubblicata sul GognaBlog
Sono passati quasi ventisei anni da questa intervista e qualcosa è cambiato sul fronte dell’ambientalismo montano. C’è meno fiducia nelle associazioni (almeno in quelle nazionali) e c’è qualche risultato in più per ciò che riguarda i rifiuti. Almeno questo risultato l’abbiamo ottenuto: cambiare le coscienze nella gestione di ciò che rifiutiamo. Con il rischio di avere un mondo asettico.
Sono cambiato pure io, perché ora ritengo che a un certo punto della nostra vita, dobbiamo tutti domandarci: – Quanta spazzatura è in me?
Inabissarsi nella voragine nostra interiore alla ricerca dei propri rifiuti profondi è l’unico antidoto alla malattia di un pensiero raziocinante e sociale che vuole un mondo asettico. Il pensiero, dove ha appena spazzato e disinfettato, sporca già solo con il proprio passaggio. Che sia orizzontale o verticale.
Un’intervista del 1990 di Gianni Sartori
Per la serie “un altro alpinismo era possibile?” ho ripescato questa antica intervista ad Alessandro Gogna risalente a un incontro pubblico con Mountain Wilderness a Predazzo. Alessandro parlava per conto dell’associazione, ed era il luglio 1990.
Naturalmente lo conoscevo di fama e per aver letto il suo Un Alpinismo di Ricerca, ma fu una piacevole scoperta confrontarsi con la sua coscienza ambientalista (e, da quanto mi disse in seguito, non solo in Montagna: andava regolarmente a lavorare, nella sua casa editrice milanese, la Edizioni Melograno, in bicicletta). Non so se nel frattempo abbia cambiato qualche idea, se sia arrivato a qualche compromesso con il sistema di sfruttamento delle montagne che le sta trasformando da un lato in parco-giochi dall’altra in discarica (anche, o soprattutto, esistenziale…). In ogni caso il valore di questa testimonianza rimane, a mio avviso, esemplare per coerenza e radicalità. Alessandro Gogna ha recentemente organizzato (ricordo che siamo nel 1990, NdA) Free K2, la prima spedizione internazionale, voluta e organizzata da Mountain Wilderness, per liberare il K2 dalle tonnellate di rifiuti e dai chilometri di corde fisse che ne umiliano il fascino. Nonostante i molteplici impegni, il grande alpinista si rivela disponibile, gentile. Data l’ora piuttosto tarda, premette soltanto che avrebbe intenzione di cercar di dormire almeno un paio d’ore. Lo aspetta infatti una levataccia. Domani alle quattro (del mattino) parte per le Tre Cime di Lavaredo dove Mountain Wilderness ha in programma l’ennesima azione dimostrativa contro la strada a pedaggio. E precisa: “Contro la strada in quanto tale, indipendentemente dal pedaggio”. Che fare contro questo degrado galoppante? In che modo i sinceri amanti della Montagna si possono opporre alla distruzione dell’ambiente alpino? Alessandro Gogna insiste su un concetto che poi riprenderà varie volte nel corso della chiacchierata: occorre innanzitutto “dare una svolta, invertire l’attuale tendenza sperando di arrivare a toccare la mente e il cuore di quanti dicono di amare la Montagna e la Natura”. Mountain Wilderness è un’associazione internazionale che riunisce alcune migliaia di alpinisti ed escursionisti di Grecia, Francia, Italia, Catalunya… in difesa delle Alpi, dell’Olimpo, dei Pirenei. Alessandro racconta di aver trovato un alto grado di coscienza ambientalista tra i catalani. Del resto ve ne sono molti anche tra i militanti di Greenpeace (di cui Mountain Wilderness sembrerebbe essere un po’ l’omologo montano), proprio tra quelli impegnati negli arrembaggi dimostrativi contro i navigli intenti a scaricare in mare rifiuti tossici o contro le baleniere attrezzate per massacrare inermi cetacei in via di estinzione.
Suscita preoccupazione in particolare la rapidità con cui stiamo distruggendo e violentando le Alpi, dove è quanto mai urgente “difendere tutto quello che c’è ancora da difendere”. Le minacce per l’ambiente alpino sono molteplici. Vanno dal degrado ambientale genericamente inteso alle piste da sci; dalle nuove strade al dilagare del cemento; dall’uso indiscriminato di mezzi meccanici (auto, elicotteri, moto…) alle tonnellate di rifiuti abbandonati dagli escursionisti, fino alle vere e proprie discariche in prossimità di rifugi, bivacchi, stazioni delle seggiovie. Gli chiedo in che cosa consista l’iniziativa programmata per il giorno successivo, alle Drei Zinnen. “Quella prevista per domani – mi spiega – è per noi una scadenza molto importante. Assieme all’organizzazione degli ambientalisti ladini, S.O.S. Dolomites, abbiamo indetto una manifestazione contro la strada che dal Lago di Misurina va al soi-disant “Rifugio” Auronzo. Attualmente si calcola che in soli due mesi, quelli di maggior afflusso, venga percorsa da 80.000 (ottantamila!) auto. Cercheremo di occupare la sede stradale dalle sette in poi e cercheremo, discutendo e volantinando, di spiegare alla gente le ragioni della nostra iniziativa”. Per la cronaca: il giorno dopo Alessandro e compagni sono stati presi in contropiede dalle autorità che, astutamente, hanno provveduto a chiudere (solo temporaneamente, chiaro) la strada. Domando quali siano state le iniziative precedenti di questa dimostrazione contro “l’autostrada di Lavaredo”. “Tra quelle che hanno suscitato maggior scalpore vanno ricordate senz’altro l’iniziativa per ripulire la Marmolada e la spettacolare azione diretta sul Monte Bianco contro la Funivia dei Ghiacciai”. Inoltre, sempre in collaborazione con S.O.S. Dolomites, Mountain Wilderness ha caldamente contestato il cosiddetto 200° anniversario della “scoperta” delle Dolomiti. Per Gogna il 200° anniversario è stato un significativo esempio di come la provincia di Trento consideri iniziative culturali quelle che in realtà contribuiscono a ridurre l’ambiente dolomitico alla stregua di un Luna-Park, a un immenso e grottesco “divertimentificio”. I finanziamenti potevano venir usati molto più intelligentemente per arginare il degrado, per recuperare testimonianza delle autentiche tradizioni culturali dell’area dolomitica. Della stessa opinione sono i Ladini, l’antico popolo di queste montagne. Ecco quanto scrivevano in un manifesto firmato Ambientalis Ladinus de la Dolomites: “A 200 anni dalla scoperta di Dolomieu, le amministrazioni provinciali e locali di Trento, Bolzano e Belluno festeggiano le Dolomiti a parole mentre, anno dopo anno, le distruggono coi fatti. Le Province Autonome di Trento e Bolzano permettono e spesso finanziano la continua costruzione di nuovi impianti di risalita, di piste da sci e strade con forte impatto ambientale, di ampi parcheggi in quota, ecc. La regione Veneto addirittura li realizza in proprio mediante la Canal Grande S.p.A. “Anche da parte degli alpinisti – precisa Gogna – esistono comunque delle colpe specifiche. In sostanza la comunità degli alpinisti dovrebbe considerarsi responsabile di quanto sta avvenendo tra le nostre montagne. Dovrebbe riconoscere i problemi che magari involontariamente ha provocato all’ambiente alpino, pubblicizzando e spettacolarizzando, con l’obiettivo di partenza del solo far conoscere la montagna”.
E continua: “E’ anche “merito” degli alpinisti se interi gruppi montuosi hanno perso la loro aureola di fascino, di mistero…”. Ma almeno, si spera e si presume, alpinisti ed escursionisti si arrampicano, camminano, sudano insomma. E il sudore, come è noto, diversamente dal gasolio e dalla benzina, non inquina. Per quelli di Mountain Wilderness bisognerebbe imparare a saper distinguere tra una esperienza vera e una esperienza falsa, mercificata, che si può comprare preconfezionata. Sempre sul Monte Bianco, Gogna ricorda il via vai continuo e ossessivo degli elicotteri impegnati a girare spot pubblicitari riprendendo questo superbo archetipo di freschezza, candore, vacanze invernali, ecc. Immagini di sicuro rendimento dal momento che si prestano a pubblicizzare le mentine come i pannolini, l’acqua minerale come gli assorbenti, i detersivi come la D.C. (l’intervista risale al 1990, ricordo, e c’era ancora l’odiosa Democrazia Cristiana, NdA).
La Marmolada, vetta più alta dell’area dolomitica, venne chiamata “La Regina”. Al ghiacciaio del versante settentrionale fa da contraltare la vertiginosa parete calcarea del lato meridionale; un bastione roccioso lungo alcuni chilometri e alto fino a 900 metri. Oltre che di fondamentali imprese alpinistiche fu teatro di aspre battaglie nel 1915-1918. Oggi è diventato lo scenario di un indecente degrado ambientale che sembra non volersi più arrestare. Lungo i percorsi si potrebbero raccogliere barattoli a quintali ma questo in fondo è un male minore se pensiamo a cosa scorre nelle viscere del non più incontaminato ghiacciaio. Chi ha fatto la sconsigliabile esperienza di cadere in un crepaccio nel periodo estivo (quando può passare parecchio tempo senza che una provvidenziale nevicata intervenga a imbiancare) può confermarlo. Magari ne sarà uscito indenne grazie alla prontezza di spirito dei compagni di cordata, ma sicuramente “onto” da far schifo; ricoperto da smog, catrame e robaccia del genere. Se l’emozione del momento gli avrà consentito di dare un’occhiata disincantata sul fondo avrà avuto modo di scorgervi inequivocabili chiazze di idrocarburi. Provare per credere! L’operazione “Marmolada Pulita” (tra luglio e settembre 1988) non era senza precedenti. Già negli anni Settanta un gruppo di volontari si era “fatto carico” (in tutti i sensi) di riportare a valle decine e decine di sacchi di spazzatura. Tutta roba raccolta nei pressi del Bivacco Dal Bianco. A tale proposito ci sarebbe da segnalare un fatto che la dice lunga sul livello di coscienza dell’alpinista medio. Gogna racconta che dietro la porta del bivacco c’era un avviso che invitava i “signori alpinisti” a gettare i rifiuti nel canalone ovest (dove erano meno visibili) invece che in quello est, come avveniva regolarmente. Intervento personale: osservo che l’indicazione “RIFIUTI” con relativa freccia per indicare il crepaccio, l’inghiottitoio o la dolina dove lasciare impunemente i propri rifiuti è ancora assai diffusa; dai Bivacchi delle Pale di San Martino al Becco di Filadonna, dai rifugi del Sella alle pendici dei colli di Lumignano. Esempio macroscopico, quest’ultimo, di quali conseguenze deleterie può comportare per un ambiente naturale particolare la sua “valorizzazione” alpinistica.
Torniamo alla Marmolada. Quella dell’88 venne definita “una faticaccia, ma per fortuna siamo stati assistiti dal tempo”. Ci sono voluti alcuni voli con l’elicottero (“con il senno di poi – commenta Gogna – si sarebbero potuti utilizzare i muli”) per portare a valle l’ingente quantità di “scoasse” raccolta dai volontari. Oltre a quello del trasporto resta aperto il problema dello smaltimento dei rifiuti. “Sarebbe una buona cosa poter adottare in futuro la raccolta differenziata” afferma l’eco-alpinista. Infatti i militanti di Mountain Wilderness sono consapevoli che questo è solo un aspetto del problema ben più vasto e complesso; che non basta certo ripulire qualche canalone per dire di aver risolto la questione dell’inquinamento. “D’altra parte bisogna pur cominciare, in un modo o nell’altro. Noi cominciamo da ciò che ci è più congeniale, da quello a cui ci sentiamo più legati, dalle montagne. Cominciamo dall’alto…”.
Sulla Marmolada Gogna e compagni verificarono come dagli scarichi della terza stazione della funivia fuoriuscissero mediamente 300 (trecento) litri giornalieri di una broda liquida costituita da acqua, scarichi di fogna, oli esausti, materiali petroliferi vari… pensate a cosa devono aver prodotto e scaricato vent’anni di ininterrotta attività della funivia. C’è, ben visibile, una striscia marrone larga 15 metri che solca tutta la parete sotto la terza stazione. In fondo poi si trova la discarica vera e propria. Qui lo schifo del consumismo si mostra in tutto il suo splendore. L’anno prima la discarica era già stata in parte ripulita da un gruppo di veneziani che si erano portati via qualcosa come 150 carichi. La quantità dei rifiuti comunque restava ancora enorme. Per una ulteriore indagine gli “aspiranti spazzini” hanno utilizzato la via dell’Ideale che risale lungo la parete e viene attraversata varie volte dal colatoio di liquame. Per “scrostare” dalla parete i rifiuti incastrati è intervenuta anche la Guardia di Finanza, le “Fiamme Gialle”. Naturalmente restano ancora appiccicati il petrolio, gli oli esausti minerali, ecc. “Devo dire che in questa circostanza, in questa battaglia ci siamo sentiti particolarmente soli. Abbiamo volantinato, cercato di coinvolgere la gente, gli utenti della funivia… ma quasi tutti se ne fregavano. Forse è proprio vero che in fondo amano di più la montagna quelli che non ci vanno”. Naturalmente non bisogna dimenticare che anche il lago artificiale (il Fedaia) e la relativa strada carrozzabile hanno alterato il microclima della Marmolada. Ma questo è ancora niente: un po’ dovunque il terreno roccioso è stato spianato per aprire piste da sci. Se il fondo della pista è piatto la neve dura di più e quindi le ruspe sono entrate in azione per eliminare le cunette e le asperità tipiche di un terreno calcareo carsico. Quello che ora si può “ammirare” è una specie di omogeneo deserto. Invece del caratteristico carsismo di superficie abbiamo delle vere e proprie ferite, strazianti da vedere e impossibili da rimarginare. Oltre alle ferite inferte all’estetica bisognerà considerare anche quelle di natura strettamente geologica. Su questo problema stanno indagando alcuni geologi di “Aquila Verde” legati a Mountain Wilderness. Come se non bastasse, per garantire ai turisti la pratica dello sci estivo, si sprecano risorse preziose. E’ incalcolabile la quantità d’acqua che viene sprecata con lo scioglimento della neve provocato dall’uso indiscriminato di sostanze sparse sulla superficie per renderla più “sciabile”. Anche questo, insieme all’azione dei gatti delle nevi, contribuisce a degradare ulteriormente il ghiacciaio.
Naturalmente Gogna e gli altri ambientalisti non hanno trascurato di occuparsi del famoso polistirolo espanso immesso nei crepacci. Come è stato accertato, fino a qualche anno fa c’era l’abitudine di riempire qualche crepaccio terminale con enormi quantità di polistirolo e poi far saltare con una piccola carica di esplosivo i bordi, così da coprire tutto e “far spessore”. Adesso il polistirolo percorre gli oscuri meandri sotterranei del ghiacciaio. Prima o poi tutto verrà risputato fuori, ma intanto, si rammarica quel sentimentale di Alessandro Gogna “niente è più come prima, l’incantesimo è rotto”.
Un’altra spiacevole sorpresa li attendeva nel Vallone d’Antermoia. Anche questo era stato trasformato in discarica abusiva. Dalla stazione della funivia Serauta scende un lungo tubo nero che riversa la solita brodaglia immonda. Nel canalone sottostante la prima stazione l’Amministrazione della funivia aveva evidentemente ritenuto di poter gettare di tutto, impunemente. Il canalone per tutta la sua lunghezza di circa duecento metri era completamente intasato da materiali eterogenei. Per una profondità che varia dai due ai tre metri. Questa discarica vera e propria si estende per circa 250 metri. Uno spettacolo apocalittico, circondato da pareti di roccia. Per altri 2-300 metri si continua a rinvenire materiale sparso; fino al limitare del bosco, dove è stato fermato dagli abeti; almeno per ora. “Qui finalmente abbiamo rinvenuto ingenti quantità del famigerato polistirolo. Evidentemente, dopo che la notizia del suo impiego come “riempitivo” ha cominciato a circolare, hanno ritenuto opportuno sbarazzarsene per la via più spiccia”. Gogna ha personalmente esplorato il canalone intasato di immondizie e rottami insieme a Reinhold Messner: “Abbiamo risalito e fotografato per un lungo tratto, finché non ci siamo resi conto del precario equilibrio del materiale incastrato e sospeso. Se cominciava a franare sarebbe venuto giù tutto; e noi con lui”. A questo punto comunque cominciavano a convincersi che quello di cui c’era maggiormente bisogno “non era un’azione di pulizia, ma piuttosto un’azione di polizia”: In effetti, grazie alle iniziative di Mountain Wilderness, c’è stata un’indagine della Pretura di Agordo in merito alle discariche della Marmolada e sulla faccenda del polistirolo. “Ma – commenta amaramente Gogna – è stata un’indagine pilotata”. Alessandro & C. si sono quindi premuniti. Lo schifo è ben documentato da centinaia di fotografie. Ironizza pure: “Tra l’altro ho scoperto che fotografare discariche è una cosa difficilissima, ma sto facendo pratica”. Ci tiene comunque a precisare che in fondo i rifiuti non sono nemmeno la cosa più grave. Si possono raccogliere, eliminare, riciclare… anche se poi tutto ritorna come prima. Prima di tutto bisogna opporsi all’idea che la Montagna sia qualcosa che si può comprare come al supermercato; opporsi anche all’idea di chi “la divide in due, per cui la parte bassa sarebbe meno interessante, da tagliare con la funivia così da arrivare subito e senza sforzo in alto. E’ un inganno di chi vende una immagine fasulla della montagna. Senza la parte bassa non ci sarebbe nemmeno quella alta”. Non si giudichi frettolosamente quest’ultima affermazione come banale o scontata. Fatta da uno come Gogna che la “parte alta” può dire di conoscerla come pochi è senz’altro degna di considerazione. Meditate. Del resto basta stare a osservare il comportamento di chi è arrivato sulla cima con le proprie gambe rispetto a quelli saliti in funivia (o in auto, quando c’è la strada). Con ogni probabilità troverete tra questi ultimi gli esuberanti raccoglitori di fiori e arbusti, i lanciatori di richiami e i portatori di apparecchi radio. Se l’eccesso di energie lo avessero impiegato per salire forse sarebbero più discreti e contemplativi. E più consapevoli.
Gogna non perde l’occasione per un ulteriore richiamo alla responsabilità e all’impegno personale: “A volte, almeno in teoria, esiste già una precisa legislazione in merito. Vedi la legge Galasso sulle discariche. Che poi venga regolarmente applicata è un altro paio di maniche. Molte cose si potrebbero già impedire ma resta il problema della mancanza di una diffusa cultura ambientalista. La gente vede ma non si scompone. Non c’è quindi da meravigliarsi se poi l’autorità non interviene. In fondo abbiamo l’Amministrazione che ci meritiamo”. E insiste: “E’ importante che cambino le coscienze”. Come esempio piccolo ma significativo di un indispensabile cambio di mentalità cita la scritta (ben diversa da quella del bivacco Dal Bianco) che si può leggere presso un rifugio degno di questo nome nelle Apuane, il rifugio Rossi, sopra a Castelnuovo di Garfagnana: “Questo rifugio non ha cestino della spazzatura”: Edificante, direi. Si dichiara senza equivoci che “i rifiuti ognuno se li porta a valle, da dove sono venuti”. “Dobbiamo smetterla di considerare i rifugi come servizi”. Infatti la natura dei servizi è tale per cui tendono costantemente a svilupparsi, a migliorare in efficienza, volume, comodità… (“a parte quelli pubblici urbani – osserva Gogna polemicamente e acutamente – che sembrano invece peggiorare…”). Le richieste di un certo tipo “da parte di chi non sa rinunciare alle sue comodità e abitudini nemmeno per qualche giorno, quasi costringono chi gestisce i rifugi a migliorare la qualità delle prestazioni”. E’ il caso dell’attuale tendenza generale al raddoppio che, automaticamente, comporta il raddoppio dell’impatto ambientale. Con l’aumento della capacità di ricezione, delle “comodità”, i rifugi stanno diventando alberghi, ristoranti. Stanno snaturando la loro funzione e stravolgono, violentano ulteriormente l’ambienta alpino. Può capitare che perfino da un onesto bivacco si decida, dalla mattina alla sera, di ricavare un albergo d’alta quota. Qualcosa del genere è accaduto qualche anno fa anche sulle Pale di San Martino. Con la stessa logica, la mulattiera diventa strada asfaltata, la baita casa per le vacanze e il “punto panoramico” dove si giungeva stanchi, sudati, magari sfatti oggi è a portata di mano con la seggiovia. Una logica perversa che, mentre apparentemente va incontro alle esigenze della gente, non fa altro che snaturare il rapporto con la montagna. E permette agli operatori del settore di realizzare congrui profitti. Incalcolabili sono invece i costi, sia ambientali che culturali. Il profeta della “wilderness” incalza: “Ecco perché sostenevo che in fondo quello dei rifiuti è solo l’aspetto esteriore della questione. Magari si potrebbe anche risolvere utilizzando appositi furgoncini per le immondizie. Ma anche lo smaltimento non risolverebbe il vero problema, quello di una sempre maggiore antropizzazione, di una vera e propria urbanizzazione sistematica dell’ambiente montano. In particolare di quello dolomitico. Pensiamo all’incremento costante dell’indotto che gira intorno ai rifugi. Vedi il caso del Vajolet, se di rifugio si può ancora parlare…”. “Il problema è ancora quello di riuscire a cambiare la mentalità di chi va in montagna. Per questo sostengo che quando riusciremo a chiudere una sola funivia quello sarà un segno di cambiamento radicale, di inversione di tendenza. Perché sarà cambiata la coscienza della gente”. A questo punto, inevitabilmente, pongo una questione: “Ma come potranno allora andare in montagna le persone con una qualche disabilità?”. Per Alessandro Gogna si tratterebbe di un “alibi ipocrita”, posto in genere da chi difende altri interessi e degli handicappati sostanzialmente se ne frega e pensa ai suoi profitti, di chi si ricorda di loro soltanto quando fanno comodo: “In città non li mettono nemmeno in condizione di poter prendere la metropolitana, di poter entrare in un negozio… l’ambiente urbano è saturo di barriere architettoniche, discriminanti e nessuno, o quasi, si preoccupa di abolirle”. La chiusura di una funivia alla fine danneggerà soltanto chi sfrutta la montagna. In compenso sarà una testimonianza tangibile dell’auspicabile “rivoluzione culturale”. “La gente avrà compreso che oggi come oggi in montagna si vende qualcosa che non esiste. Un prodotto ben confezionato, un’idea di montagna completamente fasulla, un’invenzione pubblicitaria falsa e artificiosa che allontana sia dall’esperienza alpinistica autentica che da quella, non meno vera e profonda, contemplativa”. Un concetto quello espresso da Gogna immediatamente comprensibile da tutti coloro che hanno avuto l’esperienza di un contatto vero (come dire: organico, strutturale…?) con la Natura e con la Montagna.
Altra recente impresa di Mountain Wilderness, quella sul Monte Bianco contro la “funivia dei ghiacciai”. L’azione si svolse sul cosiddetto “pilone aereo”, famoso per essere sostenuto non dal solito pilone, ma lateralmente, da funi d’acciaio ancorate a due cime. Gogna, Messner e Giampiero di Federico erano saliti nottetempo su una di queste (il Grand Flambeaux) e da qui Reinhold era stato calato lungo le funi. Raggiunto il pilone aereo calò le corde su cui Alessandro e Roland Losso risalirono, con la stessa tecnica che si usa in speleologia. Quindi cominciarono a tirar su lo striscione di Mountain Wilderness (“pesantissimo”). Venne poi issato in modo tale che non impedisse il transito dei vagoncini e che gli addetti alla funivia (che al pilone arrivano con i vagoncini) non potessero rimuoverlo facilmente. Ma venne comunque tolto nella giornata stessa. Gogna ci tiene a precisare che tutta l’operazione si era svolta nella più assoluta legalità. “Nemmeno per un attimo è stato interrotto il funzionamento; non c’è mai stata interruzione di pubblico servizio…”. Non vuole correre il rischi che l’attività di Mountain Wilderness venga fraintesa, che la gente si ritragga. Soprattutto non vogliono inimicarsi le popolazioni locali, i valligiani. Non intendono scontrarsi con chi in montagna ci vive. Per questo il valore dell’azione sul pilone aereo è stato esclusivamente simbolico. Nessun blocco, nessun sabotaggio, nessuna violenza. “Non abbiamo attentato in alcun modo all’economia montanara. Tra l’altro, oltre che completamente inutile, la funivia in questione è anche in passivo”. Con il loro gesto volevano agire sulle coscienze, dare un messaggio “forte”, di svolta all’immaginario, al gusto e allo stile di chi va in montagna. Riabilitare “l’esperienza autentica, il valore del sudore…”. Chiunque vada in montagna da qualche decina di anni (e può quindi fare confronti) ha potuto rendersi conto di come ai nostri giorni l’immaginario alpinistico e montano sia per lo più colonizzato da ideologie e concezioni del mondo che con l’alpinismo storico non hanno molto a che fare (anche se vi attingono a piene mani e si alimentano della sua storia, del suo prestigio…), ma forse questa è ormai “un’altra storia”… Per la cronaca: l’anno dopo Mountain Wilderness è tornata sul Bianco per un’altra azione dimostrativa, stavolta meno “elitaria”. Circa duecentocinquanta alpinisti hanno composto in mezzo al ghiacciaio una grandiosa scritta umana: POUR LE PARC. “Per quanto riguarda la funivia – conclude Gogna – sembra proprio che l’unica soluzione praticabile consista nel comprarla. Per poi disattivarla, naturalmente. Come Mountain Wilderness ci stiamo muovendo in questa direzione…”.
Parlandogli, osservandolo si ha la sensazione che anche Alessandro Gogna (come altri andati “alla Montagna”, magari per caso ma comunque predisposti se non proprio predestinati) sia “inciampato” in quelle che tra culture meno materialiste (e meno consumiste), in altri tempi, luoghi e situazioni, sarebbe stata identificata come “esperienza del Sacro”. Del resto “lo Spirito soffia dove vuole”, ma predilige, notoriamente, le vette, gli anfratti, i dirupi, le creste affilate delle Montagne. Sembrano confermare questa impressione le sue ultime considerazioni e ricordi personali con cui si conclude la lunga ciacolada): “E’ incredibile come, pur non avendo più necessità di cacciare, di raccogliere cibo per sopravvivere, noi continuiamo a saccheggiare la natura. Basta vedere come si riduce il sottobosco dopo il passaggio delle orde dei raccoglitori di funghi. Ricordo che quando avevo otto anni mi sono ribellato a mio padre che mi costringeva a raccogliere funghi. Sia chiaro: anche a me piacciono e quello che rifiutavo era l’idea che si andasse in montagna solo per raccogliere funghi; avevo già intuito che c’era dell’altro. Figurati che un giorno avevo trovato un porcino enorme e ho preferito lasciarlo dov’era. Forse sarà stato poi trovato da qualcun altro, ma comunque gli ho regalato qualche ora di vita”. Fin troppo facile fare dell’ironia su questa mancanza di spirito utilitaristico. A chi scrive fa venire in mente una concezione dell’alpinismo (e magari della vita) similare a quella espressa da Lionel Terray: “Conquistatori dell’Inutile”. Per il futuro non si fa troppe illusioni: “Per noi si tratta di seminare delle idee, sperando di incontrare terreni, coscienze fertili, disponibili… Allora forse vedremo dei risultati, magari tra anni. Certo che comunque così non si può continuare. Sarebbe il degrado definitivo degli ultimi spazi naturali rimasti tali”.
Confermo pienamente. Nei Paisos Catalans ho incontrato un livello di coscienza ambientale diffusa che, nella penisola iberica, è secondo soltanto a quello dei baschi (pensiamo, in Euskal Herria, alle battaglie contro la centrale nucleare di Lemoiz e contro la diga di Itoiz…). Non per niente nei PP. CC. anche uno dei movimenti indipendentisti di sinistra più radicali si chiamava Moviment de Defensa de la Terra (suo lo slogan “Defensar la Terra non és cap delicte”: difendere la Terra non è reato). Inevitabile per chi scrive pensare ad alcuni scempi ambientali e paesaggistici che, da allora, sono stati realizzati in zone che ben conosco: Costa d’Agra (nei pressi di Folgaria), sul Monte Fior (Altopiano di Asiago) o sul Civetta lungo le cui devastanti piste da sci sorgono ora, al posto delle migliaia di abeti abbattuti, squallidi lampioni per le discese in notturna degli “amanti della montagna di plastica” (oltretutto dei privilegiati in questi tempi di crisi). D’altra parte… l’avete voluto il capitalismo? Ovviamente bisogna pensare che si inquina anche raggiungendo i luoghi della montagna. Personalmente, da anni uso sia la bicicletta (se possibile) che i mezzi pubblici (per quanto scarsi e malridotti, in Veneto). Un aspetto positivo è quello di non dover necessariamente ripercorrere al ritorno lo stesso itinerario dell’andata. Per esempio, se da Velo d’Astico salgo al Pria Forà posso poi scendere ad Arsiero per prendere la corriera. In ogni caso portatevi il telo di sopravvivenza, dopo una certa ora non fanno più servizio. E’ l’avventura.