Alpi Ribelli, Capitolo 10: in questa compagnia di ipocriti e buffoni

Di Enrico Camanni

Mountain Wilderness non si ferma al Monte Bianco. L’8 settembre 1991 punta contro la strada delle Tre Cime di Lavaredo, l’asfalto a pagamento che porta i pullman e le automobili al cospetto di un monumento senza eguali, fragile come Venezia e le piramidi d’Egitto. Anche il rifugio Auronzo, che vive di polente al termine della carrozzabile, è nel mirino del movimento. Le fogne scaricano senza sosta e l’inquinamento è inaccettabile. Le Tre Cime sono profanate da migliaia e migliaia di visitatori ignari della loro delicatezza. È un turismo da cartolina illustrata, la vacanza del mordi e fuggi. Che senso ha una bellezza di carta? Si sale troppo in fretta sotto le grandi pareti, e senza alcuna coscienza del luogo. Certi passeggeri chiedono al gestore del rifugio: «Vorremmo continuare in macchina, è possibile? Come si fa?». Sono domande innocenti. Pensano di posteggiare l’auto in vetta alla Cima Grande, stendere la coperta sui sassi e sdraiarsi a prendere il sole.

Il parcheggio del Rifugio Auronzo


La barriera del pedaggio è seminascosta nel pianoro tra i mughi e i sassi di dolomia. Si paga dazio alla soglia dei duemila metri. Prima si costeggia il lago di Misurina, incantevole di mattina e sera, congestionato di giorno. Nei bazar si ammassano orologi a cucù, cappelli tirolesi e portachiavi con la stella alpina. È la sagra dei luoghi comuni.
La conca di Misurina è assuefatta ai motori. Ci ha fatto l’abitudine. Qui il turismo di massa risale al Ventennio, quando il fascismo sfruttò l’eco retorica della Grande Guerra per spingere il popolo sulle montagne. Nell’estate del 1939 lo scalatore Emilio Comici annotava:
mattina di gran movimento sulla strada e sui piazzali. Corriere affollate di turisti, auto, motociclette, viandanti: tutti venivano a contemplare le Tre Cime di Lavaredo, il Sorapiss e l’incanto del lago. Nelle corriere, in auto, in motocicletta, ogni tanto passava qualche mio collega con il suo bravo cliente da portare in montagna.

Dino Buzzati


Quando i «valorizzatori» del territorio dolomitico minacciano il proseguimento della strada verso la Forcella Lavaredo e il magico altopiano delle Tre Cime, Dino Buzzati scrive incollerito sul Corriere della Sera:
con che vandalico entusiasmo l’immondo coro degli scappamenti devasterà i purissimi silenzi! Sotto le sdegnose rupi, nelle notti di luna, scintilleranno di luminarie al neon le stazioni di servizio. Su per i canaloni tenebrosi, dove sepolte dalle frane le ossa di qualche alpino ancora giacciono, salirà il crepitio svergognato dei «due tempi» mescolato a echi di orchestrine.

Le lunghe frequentazioni dei testi buzzatiani mi hanno reso amico lo scrittore bellunese, che era perdutamente innamorato delle Dolomiti. Penso che se la storia avesse trent’anni di meno Buzzati sarebbe al nostro fianco mentre saliamo il nastro d’asfalto delle Tre Cime, per la prima volta a piedi, tra manifestanti pacifici e bambini schiamazzanti. Una bambina chiede al padre militante: «Papà, quando arriviamo al rifugio? Ma non potevamo prendere la macchina?» La strada dello scandalo è stata chiusa al traffico per un giorno, così scopriamo particolari mai visti: le sassifraghe che vestono i terrapieni e le marmotte che scappano al passaggio degli escursionisti perché conoscono i motori, non le persone.