Alpi Ribelli, Mountain Wilderness raccontata da Enrico Camanni

Enrico Camanni, in un capitolo del libro Alpi Ribelli, ha raccontato la storia della nascita di Mountain Wilderness vista attraverso i suoi occhi di giornalista, alpinista, scrittore e attivista.
Di seguito, divisa in dieci puntate e arricchita con foto di archivio di Mountain Wilderness e di Alessandro Gogna, ve la proponiamo per esteso.

Enrico Camanni

Alpi Ribelli

Nei secoli le Alpi sono state rifugio e megafono delle anime libere, contrarie e resistenti. Dalla leggendaria lotta di Guglielmo Tell, un filo sottile lega le terre alte alla tentazione della ribellione. In oltre settecento anni di storia, le ‘Alpi libere’ hanno avuto seguaci autorevoli e interpreti esemplari.
Dagli artigiani eretici che si sacrificarono con Fra Dolcino ai piedi del Monte Rosa, ai partigiani che fermarono i nazifascisti sulle montagne di Cuneo e Belluno, fino ai movimenti contemporanei contro il treno ad alta velocità in Valle di Susa. Questo libro raccoglie le storie dei montanari e degli alpinisti che seppero disubbidire agli ordini, costruendo sulle montagne rifugi di resistenza, avamposti di autonomia e laboratori di innovazione sociale.
Come una risorgiva carsica che emerge dalle profondità del tempo, la montagna si ricorda di essere diversa e fa sentire la sua voce fuori dal coro. Una vecchia idea, forse un’utopia, che non ha ceduto al consumismo delle pianure e rinasce di tanto in tanto in forme nuove e dirompenti. In mezzo al conformismo della maggioranza valligiana, si alza il grido di chi rivendica una diversità geografica e culturale, compiacendosi dell’antico vizio montanaro di sentirsi speciali e ospitare i diversi, i ribelli, i resistenti, gli eretici.

Capitolo 1. Commando sul Monte Bianco

Sono gli alpinisti a riprendere vertiginosamente la battaglia. Il nemico non è più uno solo; alla monocultura dello sci di massa e alle autostrade della neve si sono aggiunte le altre metastasi dell’industria turistica: banalizzazione e mercificazione della montagna, riduzione degli spazi selvaggi, aggressione del cemento, proliferazione di impianti a fune, strade e motori. Gli alpinisti verdi sono in gran parte cittadini che frequentano le Alpi per piacere e vanno cercando una montagna pulita e incorrotta, anche facendo severa autocritica. Spesso, in passato, sono stati i primi consumatori dell’ambiente montano.
Le clamorose denunce sono firmate dall’associazione ambientalista Mountain Wilderness, nata a Biella nell’autunno del 1987. Qualcuno la chiama Greenpeak per l’assonanza con Greenpeace, ma loro rifiutano il paragone. Troppo impegnativo, e poi ognuno ha la sua storia. In realtà il movimento deriva da una costola del Club Alpino Italiano e da un doloroso dibattito interno alle istituzioni alpinistiche. Il vero atto fondativo non è il congresso di Biella del 31 ottobre 1987; è piuttosto il congresso di Ivrea del 5 aprile 1986: «Il CAI e la sfida ambientale, montagna da vivere o montagna da consumare?».
Il titolo dell’appuntamento eporediese non lasciava spazio alle fughe. L’incertezza semmai stava nella colpevolezza dell’imputato, perché gli organizzatori volevano mettere in discussione i vecchi dogmi e le facili certezze del CAI, evidenziandone le contraddizioni. Intendevano smontare l’idea retorica che chi sale le montagne lo faccia sempre per un atto di amore. All’epoca ero un giovane reporter di alpinismo e dirigevo il mensile Alp, giornale patinato e irriverente. In un anno di vita avevamo già destabilizzato il sonnacchioso mondo della montagna con grafica aggressiva e immagini provocanti, e soprattutto con cronache degne di un buon giornale; ci eravamo divertiti a ribaltare gli equilibri più inviolabili e sconfessare i pensieri più atrofizzati. Eravamo dei provocatori della carta stampata e la usavamo per scardinare i luoghi comuni. Come aveva scritto Georges Livanos «le Grec», l’alpinista venuto dal mare, «non contents de faire de la gymnastique sur les murs de la cathédral… ils en saccagent les sculptures».

Reinhold Messner in traversata verso il Col du Toula, alla base del Grand Flambeau. 15 agosto 1988 Foto: A. Gogna


È esattamente con quell’animo che il 5 aprile 1986 parto per Ivrea, la città di Adriano Olivetti e del vescovo rosso Luigi Bettazzi. Gli uccelli cantano, è primavera. Il Mombarone e la Quinzeina si stanno scrollando la neve di dosso. Nel grande anfiteatro morenico si respira aria di fronda, la mia aria preferita. Siedo nella sala del convegno e mi sintonizzo su ogni intervento, annoto, memorizzo e simpatizzo. Sento già i tasti dell’Olivetti 32 sotto i polpastrelli, e fanno un bel rumore. È un momento da non perdere, si capisce che ne uscirà qualcosa di irreparabile. Come intitoleremo? Ci vuole una definizione forte: «La diaspora»; «Il divorzio». Troppo banali. Meglio «Un caldo aprile per il Club Alpino Italiano». Anche la coreografia è perfetta: una specie di rappresentazione teatrale. Sembra uno dei tanti congressi del CAI – i delegati di sezione, le relazioni ufficiali, le commemorazioni, gli ossequi, il solito dibattito di maniera prima di scivolare al ristorante – e tutti sanno che non è così.