Che cosa significa sacralità della montagna.

Che cosa significa dire che l’alpinismo e più in generale la pratica non banale, ludica, della montagna apre alla dimensione spirituale del sacro? Una riflessione di Giovanni Widmann, professore di filosofia e storia al liceo Russell di Cles.

Alpinismo sulle montagne di Devero. Foto: Luigi Ranzani

Che cosa significa dire che l’alpinismo e più in generale la pratica non banale, ludica, della montagna apre alla dimensione spirituale del sacro? Per tentare di rispondere all’impegnativo quesito è opportuno innanzitutto analizzare alcuni significati del termine “sacro”: a) ciò che appartiene o pertiene alla divinità e come tale partecipa della potenza divina; b) ciò che per la sua maestosità e/o potenza incute un senso di riverenza e attonito stupore; c) ciò che è inviolabile e non può essere fatto-oggetto di qualsivoglia intervento profanatorio e dissacrante, ossia  atto a negarne il carattere sacrale (fonte: Dizionario Zingarelli 2000, Zanichelli).

Ora, considerata nella sua prima accezione la sacralità della montagna e della sua ascesa verso la vetta rimanda chiaramente ad un significato religioso e spirituale e apre ad una prospettiva esistenziale dell’esperienza alpinistica, che si connota simbolicamente come un itinerario di perfezionamento interiore caratterizzato da forti accenti intimistico-sentimentali. In questo senso la scalata diventa un’esperienza mistica di ascesa-ascesi e l’ascensione è elevazione, ovvero sforzo teso alla purificazione morale e finalizzato al progressivo ricongiungimento all’origine e scaturigine del creato, a Dio, per cui la vetta suprema è oltre la vetta estrema, un cammino in vista della stazione nella regione iperuranica, oltre il cielo, verso la realtà e l’entità trascendente e divina; la salita è rito di spoliazione ed espropriazione. Quale esempio paradigmatico di tale concezione mistica e sacrale della montagna si può annoverare la salita al monte Ventoso del Petrarca.

Mont Ventoux

Invece nella sua seconda accezione la montagna con la sua sublime imponenza e conturbante bellezza rimanda al soggetto che la contempla in uno stato di estasiato e commosso rapimento subendo la potente attrazione per il primordiale, spettatore partecipe e incantato della mirabile magnificenza e meraviglia della natura che provoca ammirazione e godimento estetico misto all’oblio di sé, della propria individualità, per con-fondersi armonicamente nella totalità organica della Natura vivente di cui si sente parte. Il soggetto avverte la sublimità della montagna, ma anche la potenza, è affascinato dall’amenità del solare paesaggio campestre ma anche inquietato dalla terribilità dei recessi ombrosi, dalle frastagliate irregolarità e abissali profondità delle balze rupestri e dei precipizi. Tale sentimento contemplativo nel mentre dona pace interiore e un senso di serafico distacco dalle brame mondane, pieno di stupore e riverenza e insieme di timore e terrore, avverte la segreta presenza di forze che travalicano la mera dimensione fisico-meccanica degli elementi e percepisce negli eventi naturali l’avvento di ciò che chiama misteriosa sacralità della natura vivente. Qui il divino non è più entità trascendente ma totalità immanente che panteisticamente compenetra tutta la natura; è l’Uno-Tutto di G. Bruno. Nel dinamismo della natura inorganica ed ancor più nelle manifestazioni e nello sviluppo della natura organica l’uomo sente la presenza palpabile e segreta dello Spirito. Nella storia delle idee tale concezione ha trovato la sua massima espressione nel panismo e titanismo romantico e nell’idealismo di Schelling, che concepì l’identità di Natura e Spirito.

Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling in una fotografia del 1848. Foto: Wikipedia.

La terza accezione consegue naturalmente alla seconda: se la natura non è soltanto materia ma viene divinizzata e spiritualizzata, ovvero sacralizzata, ne deriva la necessità di non profanarla né violarla, ma di preservarla e venerarla. La sacertà della natura così concepita la rende “intoccabile”. Ma anche l’analisi etimologica del termine latino sacer offre ulteriori spunti di riflessione per la nostra disamina del carattere spirituale dell’esperienza della salita alla montagna (alpinistica, ma non solo, infatti essa può riguardare anche la frequentazione escursionistica; molto meno quella del turista occasionale, che cerca altre emozioni: lo svago, il divertimento, la distrazione, l’evasione dalla routine, il rilassamento, ecc.). È interessante soprattutto questo significato del termine sacer: colui o ciò che è consacrato ad una divinità per essere offerto come vittima, e come tale è esecrato, esecrabile, infame e maledetto, abominevole (fonte: Bianchi-Lelli, Dizionario illustrato della lingua latina, Le Monnier, Firenze, 1974). In quest’accezione il sacro è interpretato in senso negativo, come vittima sacrificale offerta agli dei.

Possiamo leggere analogicamente e secondo una duplice prospettiva questa sacertà officiata come rito sacrificale o propiziatorio: il monte sacro esige il sacrificio non come pratica ascetica ma come offerta di sangue, soprattutto quando l’alpinista-vittima-sacrificale è stato immolato poiché ha voluto sfidare la montagna andando oltre i propri limiti e oltre i limiti consentiti dalle necessitanti leggi di natura, sfidandole attraverso un atto tracotante di hýbris. Si tratta di una figura archetipica: l’uomo che viene punito perché ha voluto sfidare gli dei, o il Destino, Dike, l’Ordine cosmico, Giustizia e Necessità.

Salita al Wasenhorn. Foto: Sergio Ruzzenenti

Più interessante e originale è però la seconda lettura che si può darne, rovesciando la prospettiva: qui la “divinità” non è più la montagna nella sua sacralità ma l’uomo, che sacrifica a se stesso la montagna; l’uomo qui è il prototipo del moderno imprenditore turistico che ne sfrutta le risorse naturali e paesaggistiche costruendo strutture e infrastrutture a beneficio di un turismo di massa che in montagna non cerca la dimensione spirituale ma anzi quella più prosaicamente materiale e corporale: il piacere, la piacevolezza, dunque un rapporto edonistico con l’ambiente montano, superficiale e poco o per nulla consapevole della sua storia, ignaro dei valori che hanno caratterizzato le genti di montagna, i montanari (frugalità, sobrietà, fatica, sacrificio, tenacia, ecc.), ormai anch’essi pressoché scomparsi dalla scena, ridotti a macchiette folkloristiche e perciò false e artificiose comparse ad uso e consumo dei turisti curiosi di pittoresco e di antiquaria vetustà, di archeologia etnico-culturale a buon mercato. Una trasformazione antropologica che ha comportato il sacrificio della montagna, della sua natura, della sua storia.

Questa naturalmente è una ricostruzione sommaria e schematica di un tema che è assai più complesso e articolato, perciò non ho certamente la pretesa di essere stato esaustivo. A questo proposito è il caso di fornire una breve chiarificazione anche del concetto di “montagna”, visto che si tratta di un termine abusato e spesso usato in modo irriflesso, senza definirne con esattezza la sostanza, i contorni e le implicazioni, omettendo, trascurando o mescolando inconsapevolmente e confusamente i suoi vari e diversi significati. Che cos’è dunque la montagna? Anche in questo caso la montagna ha varie declinazioni: a) orografia e struttura geofisica dei monti: quindi origine e conformazione geologica e morfologica (rilievi e loro disposizione, altitudini, catene montuose, ecc.), caratteristiche ambientali e paesaggistiche, climi, varietà di fauna e flora, ecc. b) regione montuosa presso la quale vivono comunità montane le quali hanno una storia secolare di rapporti con la media e alta montagna, hanno sviluppato usi e costumi, tradizioni, forme di religiosità, elementi simbolici e pratiche ritualizzate, cultura materiale, rapporti, scambi, identità. Un ambiente duro e severo, la montagna, che ha implicato lo sviluppo di un’economia agricola e d’allevamento che per molto tempo è stata di mera sussistenza, ma anche l’artigianato, lo sfruttamento delle risorse naturali (idriche, silvo-pastorali); c) con lo sviluppo dell’industrializzazione, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e con la concomitante nascita della società dei consumi la montagna da una parte si è spopolata, infatti molti giovani attratti da migliori condizioni di vita, comodità e benessere hanno trovato occupazione in pianura e vi si sono trasferiti, speso rimuovendo o rinnegando le proprie origini montanare.

Nubi sul Disgrazia. Foto: Michele Comi

Dall’altra la montagna con lo sviluppo turistico ha conosciuto un contro-movimento di ri-salita favorito dallo sviluppo del turismo, che mentre ai primordi ed originariamente era elitario (la villeggiatura, così come l’escursionismo e la pratica alpinistica col supporto delle locali guide alpine, che erano perlopiù cacciatori, era prerogativa di intellettuali, artisti, aristocratici, regnanti) nel tempo si è trasformato nel fenomeno del turismo di massa, specie invernale, attraverso la creazione di tutta una serie di infrastrutture (piste, impianti di risalita, alberghi, ma anche sentieri escursionistici, attrazioni spettacolari (si pensi alla diffusone dei ponti tibetani, ai circuiti di downhill, alle vie ferrate, ecc.) per rendere sempre più appetibile e gradevole il soggiorno anche attraverso un imponente battage pubblicitario, strutture che hanno continuato a crescere e tuttora crescono in ragione del costante aumento degli ospiti. A farla da padrone è naturalmente la logica capitalistica del profitto, che creando immaginari collettivi e desideri (anche attraverso lo sfruttamento dell’immagine a cui si prestano alcuni grandi nomi dell’alpinismo) ha poi saputo soddisfarli, privilegiando però un approccio utilitario, superficiale e consumistico alla montagna, vista come un bene, una merce da sfruttare, anzi da saccheggiare per il tornaconto di pochi, con scempi ambientali che sono sotto gli occhi.

La montagna luna park

È evidente quindi che l’atteggiamento contemplativo e stupefatto del viandante solitario che romanticamente era in cerca di esperienze profonde e spiritualmente appaganti a contatto con una natura di struggente bellezza, da condizione dell’anima con forti connotazioni estetiche, ma anche etiche e spirituali si è via via trasformata in una fruizione turistica più prosaica, frettolosa e banalizzante da parte del turista- consumatore che come altre merci messe in vendita, allo stesso modo consuma – pagando – anche emozioni, sensazioni, desideri e piaceri più o meno fuggevoli – con ciò semplificando e snaturando il rapporto con la montagna – sia nella sua dimensione fisica che culturale, sociale e comunitaria – che così è diventata un grande mercato a cielo aperto, con riti consumistici, pratiche omologanti e uniformanti; la moda della montagna possibilmente sulla montagna alla moda, mondana, dove trovare gli svaghi, i dilettevoli soggiorni e gli sport di montagna vissuti però secondo lo spirito del cittadino di pianura, ma così eclissando la montagna vera e non da cartolina, che incompresa nella sua essenza rimane sullo sfondo o addirittura è invisibile, ideale per una foto o un selfie nel frastornante circo delle stazioni  turistiche dove tutto si consuma ed espelle lasciando intorno una desolante distesa di scorie e di rifiuti (reali e metaforici).

Giovanni Widmann