Colombero (UNCEM): la montagna non è solo un luogo di divertimento.

Intervista a Roberto Colombero, Presidente UNCEM (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) del Piemonte. Testo e foto di Toni Farina.

Roberto Colombrero

Roberto Colombero buongiorno, sono passati quasi sei anni dal nostro incontro di Dronero. Allora lo spunto fu la tua intervista a La Stampa (venerdì 1 aprile, inserto Terre Alte) in cui, in contrapposizione al Comune di Argentera, nella vicina Valle Stura di Demonte, affermavi in modo perentorio “In Val Maira l’eliski non si farà mai”. Confermi? Proprio l’eliski è stato di recente oggetto di rinnovate polemiche per via della nuova legge della Regione Piemonte inerente il turismo montano che ne amplia le possibilità.

Allora potevo permettermi di fare quella dichiarazione perché avevo un ruolo “esecutivo” nelle amministrazioni di valle. Ruolo che oggi non ho. Quindi non posso predire eventuali altre decisioni di terzi. Fortunatamente la legge non prevede comunque eliski dove non ci sono impianti e impianti in valle non ci sono.

Dall’eliski allo ski come industria, della quale l’eliski è ormai parte integrante. Un’industria turistica su cui poggia una parte importante dell’economia dell’arco alpino. Ma anche industria in crisi per il conclamato cambio di clima globale e l’impennata dei costi dell’energia. Due fattori quanto mai attuali. È appena passata l’ennesima irruzione di aria africana nel cuore dell’inverno con piogge fino a 2500 metri. Un’industria di fatto assistita, che vive grazie a consistente apporto di risorse pubbliche, soggetta ad accanimento terapeutico: come altrimenti definire i fondi stanziati al termine della scorsa legislatura dalla regione per sostenere stazioni a bassa quota. Un accanimento anche mediatico: non passa giornata senza che il Tg regionale mandi in onda un servizio sulle stazioni della Via Lattea. L’altra montagna pare non esistere.

Esiste La Montagna e dobbiamo cercare tutti di far vedere che esiste altro rispetto alla montagna come esclusivo luogo di divertimento, industriale o slow, del mondo urbano. Esistono comunità, esistono paesi, esistono necessità. Le opportunità che potenzialmente il turismo, tutto, mette a disposizione non sono tali, se non fanno crescere le comunità delle nostre valli. Il turismo buono (industriale dove ha senso continuare a farlo e probabilmente non dappertutto, e quello sostenibile dove non ci sono infrastrutture) è tale se crescono le comunità che mettono il territorio a disposizione. Non c’è nulla di buono o di cattivo a prescindere.

A proposito di stazioni sciistiche in (perenne) crisi. Di recente il Presidente di UNCEM Marco Bussone ha posto la questione “impianti di sci proprietà pubblica” anche in Piemonte. Un tabù che si è già infranto in altre zone delle Alpi. È sostenibile tutto ciò? Lo sci di pista come servizio pubblico quando si privatizzano settori come l’energia, i trasporti, la sanità? Posti di lavoro certo, ma come lo spieghiamo ai lavoratori di tutte le aziende in crisi? Non è forse il caso di pensare in modo serio che altre forme di turismo anche invernale non sono figlie di un dio minore, ma sono un futuro possibile? E soprattutto sostenibile anche dal punto di vista economico. Ad esempio: perché non chiedere ai gestori delle stazioni di riservare parti dell’area sciabile alla libera fruizione, magari con un ticket tipo pista di fondo. Come accade al Pian del Frais nel Comune di Chiomonte. La scorsa stagione con gran parte degli impianti chiusi causa covid avrà pur insegnato qualcosa. Guardare avanti insomma, anche questo è sfatare un tabù.

Ribadisco quanto detto in precedenza. Non si può demonizzare un settore perché fa comunque girare economia. Certo che possono essere discutibili o insensati investimenti sotto i 2000 metri per gli evidenti mutamenti climatici. Ma dove lo sci industriale è ancora altimetricamente sostenibile, l’ipotesi della pubblicizzazione degli impianti è un tema da affrontare se si vuole essere competitivi con altre stazioni sciistiche, soprattutto internazionali. Di pari passo però servono investimenti anche sulla montagna dove non nevica firmato perché ha dimostrato che crea economia, crea occupazione, impatta meno sull’ambiente e forse alimenta più facilmente la crescita socio economica dei paesi.

Torniamo in Val Maira. Eliski a parte, il nostro incontro di Dronero aveva in realtà come tema il “caso Valle Maira” in generale. “Una valle naturalmente biologica e tale deve rimanere”, affermavi. È ancora così? La Valle Maira è ancora un simbolo di turismo sostenibile? Indica ancora la strada da seguire?

Tornetti di Viù

La Valle maira è stata un esempio perché partita in tempi non sospetti su un’idea di turismo che valorizzasse ciò che eravamo e ciò che siamo rispetto ad emulare o scimmiottare altri modelli che non ci appartenevano. Ma nulla dura in eterno se non si rinnova. l cambiamento è parte della vita. Miglioramento, progresso, evoluzione personale, fanno parte della nostra crescita. Dalle nostre famiglie, alle nostre comunità, ai nostri comuni, alle nostre valli. Quindi la valle continua ad essere un modello in tal senso, ma, oltre a compiacersi e a guardare a cosa ha fatto, deve continuare sempre a interrogarsi sulle scelte che vengono fatte, se vanno nella direzione giusta e soprattutto come possono incidere sulla valle tra 20 anni. Credo che quella domanda dovrebbero farsela tutti ogni qual volta vengono prese decisioni dagli enti pubblici e/o dagli imprenditori privati. La valle in quanto tale è un patrimonio che va valorizzato sotto tutti i puti di vista e la responsabilità è di tutti, comuni, unione montana, associazioni, imprese private e consorzio turistico.

A proposito di strade. A ottobre 2020, prima del lockdown autunnale, la Commissione Tutela Ambiente Montano del CAI ha organizzato in Valle Miara, a Marmora, un incontro sul tema “Strade turistiche di alta montagna”, particolarmente sentito da quelle parti. Dall’incontro è emerso con chiarezza che il futuro di queste strade non può che essere una gestione che limiti la libera circolazione dei mezzi motorizzati privilegiando una fruizione dolce integrata da mezzi di trasporto collettivi. Che cosa ci riserva il futuro?

Le strade bianche di alta montagna sono stato un tema molto divisivo in passato perché, semplicemente, è stato affrontato il tema e sono state prese decisioni. E quando si decide si fanno contenti e scontenti. Molto più facile sarebbe stato non prendere decisioni, ma probabilmente chi non decide nulla ha sbagliato hobby nel fare l’amministratore. Io credo non si possa generalizzare e soprattutto non ci possano essere modelli “funzionanti”  esportabili sic et simpliciter . Ogni situazione va contestualizzata e inquadrata nel territorio in cui si sviluppa. In linea di massima ritengo che , per come va il mondo, si debba limitare sempre di più il flusso di mezzi motorizzati in alta quota. Il come va studiato area per area: cosi, per assurdo, due giorni di chiusura in un determinato luogo possono essere pochi, in altri possono essere del tutto inutili. Credo sia determinante lavorare sull’approccio culturale alla montagna perché in questi due anni di pandemia abbiamo visto come anche l’approccio di escursionisti improvvisati in quantità industriali nelle nostre valli sia poco integrabile ambientalmente, culturalmente, socialmente ed anche economicamente. Va rivalorizzato il senso del limite che è un valore intrinseco della “montagna”: non è per tutti, che piaccia o no.

Escursionisti, ciclisti e mezzi motorizzati: quale convivenza è possibile?

Valle Maira, priva di infrastrutture turistiche invasive, ma anche priva di aree naturali protette, se si esclude il sito Rete Natura 2000 delle Sorgenti Maira. Si tratta di un caso quasi unico nelle Alpi Occidentali. Non pensi sia una contraddizione? A quando un’area protetta per l’altipiano della Gardetta?

Ripeto, non ho ruoli esecutivi e non rispondo per altri. Ma credo che il tema del “chi” regola sulla protezione di un determinato ambiente sia del tutto superato e lo sarà sempre di più dalla consapevolezza diffusa che l’ambiente è un patrimonio che tutti abbiamo la responsabilità di salvaguardare. E già le norme attuali, e i vincoli, in un area zps (come la Gardetta) o sic, sono le stesse di un area protetta “governata” da un ente parco.

Rimaniamo sul tema parchi naturali. A suo tempo il Piemonte con la legge quadro regionale del 1975 e la conseguente creazione del Sistema Parchi fu un vero esempio, non solo nazionale. Oggi, aree naturali protette e siti della Rete Natura 2000 europea interessano il 17% del territorio, aree interne ma non solo. Parchi di pianura come il Po piemontese che va da Casalgrasso al confine con la Lombardia sono potenziali laboratori di sostenibilità. Tuttavia, quella spinta innovativa si è esaurita da tempo e l’intero sistema regionale vive un momento critico. Secondo le associazioni di tutela ambientale le scelte di riorganizzazione che la Regione Piemonte ha in cantiere rischiano di accentuare questa crisi che non è solo di risorse ma anche di ruolo, di identità. E questo è paradossale in un momento in cui proprio questi enti territoriali dovrebbero essere elementi portanti per una vera transizione ecologica. Che ne pensi?

Credo che il governo del territorio, in un futuro prossimo, potrà essere oggetto di profonde mutazioni per avere strumenti istituzionali più moderni e rispondenti ad esigenze (vedasi la salvaguardia ambientale) che, quando sono nati gli enti locali attuali, non erano neanche immaginabili. Il sistema degli enti parco ha svolto un ruolo importantissimo storicamente. Credo che ancora oggi abbia un ruolo fondamentale per tutto ciò che riguarda gli studi, i progetti sperimentali e l’applicazione sul territorio delle innovazioni e delle tecnologie che permettono e permetteranno l’effettiva applicazione nel mondo rurale dei principi della transizione ecologica. E per far si che gli studi, le sperimentazioni, le innovazioni diventino patrimonio di tutti, il lavoro insieme degli enti parco, delle autonomie locali, della Regione dovrà essere sinergico, chiaro nei compiti di governo del territorio e finalizzato alla giustizia sociale dei territori in cui insistono le aree protette perché altrimenti si rischia che la transizione ecologica si riduca a giardinaggio. Non possiamo permettercelo.

Val Maira, Rocca la Meja

Come forse sai sono consigliere del Parco nazionale Gran Paradiso, designato dalle associazioni di tutela ambientale. E allora in conclusione non posso fare a meno di chiederti che cosa pensi del progetto che un comitato sta portando avanti per il centenario del parco che ricorre proprio quest’anno. Una montagna definita “sacra” nel territorio del parco, sulla quale si inviata Homo sapiens a non salire più in cima. Un progetto culturale finalizzato a sensibilizzare sulla necessità del Limite, che non prevede alcun divieto ma solo una libera accettazione. Un progetto al quale l’ente di gestione del parco non ha finora aderito, ma il comitato promotore ha avviato un confronto con le comunità locali.

Monveso di sforzo, Montagna Sacra

Come detto in precedenza credo che ridare un significato al senso del “limite” sia assolutamente fondamentale. L’idea di una montagna sacra in cui l’uomo è invitato a non salire la ritengo uno strumento corretto per questa battaglia. Purtroppo non ho grande fiducia nel buon senso del genere umano (soprattutto dopo questi due anni di pandemia) e penso che, come venisse dichiarata sacra una montagna, il giorno dopo avremo flotte di persone col cellulare in mano per farsi il selfie su una vetta vietata (Almeno che la vetta non sia davvero molto difficilmente raggiungibile). Sappiamo benissimo che un conto è la finalità culturale del progetto, un altro conto sarebbe poi l’effettivo controllo.

Toni Farina