Quando il commercio diventa l’anima dell’alpinismo

Quando il commercio diventa l’anima dell’alpinismo, già pubblicato sul n. 250 della Rivista della Montagna (2001)

Michieli Franco – Italy

Oggi consideriamo naturale che salire sulle montagne comporti un costo in denaro, modesto nel caso di una gita vicino a casa, ma anche altissimo nel caso di spedizioni a mete remote o prestigiose, che risultano pertanto riservate a un’élite. Non dovrebbe però sfuggirci che l’entità di tali costi ha subito una rapida evoluzione negli ultimi decenni, seguendo la rivoluzione economica che ha coinvolto non solo le società occidentali, ma il mondo intero. Se pensiamo che una cinquantina d’anni fa giovani alpinisti destinati in seguito a divenire famosi compivano le loro prime imprese con corde per stendere il bucato o sacchetti della frutta in testa al posto del passamontagna, possiamo renderci conto di quanto l’uso della ricchezza abbia guadagnato nel frattempo uno spazio decisivo nella frequentazione della montagna. Ricordo anche che poco più di vent’anni fa, tornando a Milano da gite in Grigna con addosso scarponi e zaino, in metropolitana si suscitava ogni volta scandalo: le signore, in particolare, facevano critiche a voce alta, e una volta fui aspramente rimproverato perché ritenuto un vagabondo drogato. Oggi si fa perfino fatica a ricordare tutto questo: l’abbigliamento da montagna è di moda, come lo è portare lo zaino, e le attività alpinistiche sono state omologate per mezzo dell’unico sistema capace di spianare la strada alle idee più strambe o anticonformiste, cioè quello di inglobarle nel campo dell’economia: la pratica della montagna è divenuta parte dell’industria del tempo libero.

Cordillera Raura, Peru. Foto: F. Michieli

Chi avrebbe mai detto, in un passato non lontano in cui i più faticavano ad avere il denaro necessario per sfamarsi e per vestirsi, che anche il tempo della nostra vita sarebbe diventato un bene in commercio, cui destinare spese non indifferenti? Il concetto può sembrare strano, ma è di tale rilevanza nella società attuale che non possiamo più ignorarne le conseguenze. Facciamo una semplice constatazione: gli stambecchi passano la vita sulle crode, ma non spendono una lira; le aquile si librano sopra le cime e non si curano affatto della prossima entrata in vigore dell’Euro. Il Tempo, anche quello destinato al gioco e all’esplorazione, appartiene loro per natura: nessuno si premura di organizzarglielo in cambio di un compenso. Anche l’uomo ha vissuto per decine di migliaia di anni in condizioni simili. La conoscenza dei mille segreti del territorio, del comportamento degli animali e dei possibili utilizzi delle diverse piante doveva bastare alla vita: il tempo libero dalle attività volte alla sopravvivenza permetteva di sviluppare relazioni e pensieri spontanei, che nessuna “agenzia” si occupava di mettere in vendita. Anzi, in epoche arcaiche il Tempo era la divinità stessa: era identificato col moto circolare del cielo, nel quale i vari allineamenti del sole, dei pianeti e delle costellazioni dello zodiaco costituivano gli eventi supremi che influenzavano il corso dell’esistenza sulla terra. Oggi pochi di noi collegano ancora in modo diretto il trascorrere del tempo con i moti silenziosi degli astri, anche quando ci troviamo in montagna o in luoghi selvaggi: il tempo è quello degli orologi, e ci stiamo bene attenti perché il tempo che passa costa. Costa assentarsi un giorno in più dal lavoro, rispondere in ritardo alle mail o non essere telefonicamente reperibili per più di qualche ora. Oppure costa tardare, anche in montagna, perché dovremo pagare di più il rifugio, l’agenzia, i portatori, le guide, il rinnovo dei viveri e così via. Il tempo non solo non è più sacro (anzi, è il motore invisibile che fa maturare i rendimenti in banca o in borsa), ma sta diventando una delle merci principali, specialmente nell’ambito delle società tecnologicamente più avanzate. Vediamo come.

Con gli sci nell’inverno islandese. Foto: F. Michieli

Le nuove tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni, divenute in pochi anni molto utilizzate anche in montagna, hanno accelerato enormemente il processo di mercificazione non solo di beni e servizi tradizionali, ma anche di tutto ciò che può occupare il nostro tempo. In pratica, grazie soprattutto al cyberspazio, sono le relazioni a essere al centro dello sviluppo della cosiddetta new economy: le relazioni non solo tra persone, ma anche delle persone con la cultura, l’ambiente, ogni genere di hobby e, di conseguenza, anche con la montagna. L’esperienza che ciascuno ricerca nel desiderio di godere del proprio tempo libero viene sistematicamente proposta in vendita sotto forma di “pacchetto”: un termine che dovrebbe farci inorridire, e che invece procura affari d’oro. Per restare nel nostro ambito, sappiamo che sono diventati un “pacchetto” gli 8000, le alte vie, innumerevoli trekking in giro per il mondo, i soggiorni in rifugio o nell’agriturismo, il week-end di sport “estremi”: la settimana con la guida (per non parlare della settimana bianca), e non ultima la testata giornalistica specializzata legata a una vasta gamma di opzioni collaterali capaci di indirizzare la nostra vacanza. Se in passato chiudendoci in casa potevamo pensare di essere lasciati tranquilli col nostro tempo, oggi è proprio tra le mura domestiche che veniamo attaccati più duramente: televisione a parte, il tempo – anche e specialmente quello notturno – è divorato da Internet (anche i siti sulla montagna sono innumerevoli); ed è un tempo che paghiamo, sotto forma di bolletta e, in modo indiretto, della pubblicità contenuta nei siti, che inevitabilmente ci sublima nella testa. Restando alla fine con una poco piacevole impressione: che, nonostante tutta l’ammirazione dovuta agli eroici aggiornatori dei siti, quel parapiglia di immaginette e trafiletti abbia ben poco a che vedere con la realtà, causa i limiti insiti nel mezzo stesso. Si può sfuggire? Sì, ma come ha ben detto l’ex vicepresidente americano AI Gore, «chi non è su Internet non esiste». Dunque tra poco esserci sarà davvero obbligatorio, se non per i sinceri eremiti. Tanto è vero che gran parte delle spedizioni non riesce già più a farne a meno.

Fin dove arriverà questo processo? L’accesso alla natura diverrà a pagamento, o sarà obbligatorio acquistare specifici servizi di “aiuto” alla fruizione? Per chiarire questa eventualità con voce più autorevole della mia, cito alcuni brani tratti da un articolo pubblicato recentemente in prima pagina sul “Corriere della Sera” (12.04.00), a firma dell’economista e filosofo americano Jeremy Rifkin: «Immaginate di svegliarvi una mattina e scoprire che ogni aspetto del vostro essere è diventato una faccenda commerciale, che la vostra vita si è trasformata in una ineguagliabile esperienza di shopping. […] Nel mondo degli affari, il nuovo termine operativo è life time value (LTV), cioè il valore del tempo di vita dell’acquirente. Parliamo della misura teorica di quanto potrebbe valere un essere umano se ogni momento della sua vita venisse mercificato dentro la sfera commerciale». Anni fa si diceva che presto progresso e benessere ci avrebbero assicurato sempre più tempo libero. Molti di noi sognavano che le possibilità di passare lunghi periodi nella natura, lontano dalla fretta della civiltà, si sarebbero moltiplicate. Ma non si era capito che invece il progresso identificato con la crescita economica illimitata non può sussistere se non conquistando sempre nuovi angoli dell’esistenza, cioè rendendo produttivi spazi e tempi rimasti in precedenza fuori dal mercato. Reso disponibile ogni oggetto materiale, il mercato per ampliarsi deve riuscire a vendere anche beni immateriali, cioè le relazioni. L’avventura è ovviamente tra questi. Alpinismo ed escursionismo, il cui pregio più grande è stato il loro far parte della sfera del gratuito – che non vuol dire senza spese, ma piuttosto che appartiene al tempo interiore della persona, come gli affetti, i sentimenti, la fede, o la memoria di certe opere d’arte con cui ci si sente in totale sintonia – rischiano di diventare l’opposto di se stessi, anche se esteriormente paiono le medesime attività di prima. E invece no: una cosa che si compra non ha niente a che vedere con ciò che nasce da una relazione spontanea, anche se il desiderio di partenza è simile.

E’ l’attacco al nucleo più interno della persona a quello spazio di intimità che ciascuno dovrebbe sempre e comunque poter conservare in sé, a fare la differenza. È utile ricordare che proprio intorno a questo punto si sviluppa il lucidissimo romanzo 1984 di George Orwell (l’inventore del vero Grande Fratello, tanto per intenderci), in cui con logica inflessibile si mostra come terrore e tortura possano smantellare proprio quel nucleo vitale più interno all’uomo. Il potere contemporaneo, cioè l’economia, benché non sia presieduto da alcuna singola mente perversa, ma faccia capo a convinzioni diffuse, ha scoperto un metodo per certi versi più efficace per ottenere un risultato simile: l’immersione dell’essere umano sotto una cascata di risposte pronte e in vendita per soddisfare ogni suo più piccolo desiderio, con scroscio tanto intenso da stordire e far cadere ogni difesa. Anche così, riuscendo a far mercato di ogni piccolo sogno, quel nucleo intimo si sta sgretolando. Ma lasciamo continuare il già citato Rifkin: «La mercificazione delle relazioni umane è un’avventura malsana. […] Se la giornata è limitata e fissata in un arco di ventiquattr’ore, i nuovi tipi di servizio e di rapporti commerciali sono limitati soltanto dalla capacità dell’imprenditore di immaginare nuovi modi di mercificare il tempo. […] E mentre abbiamo creato ogni sorta di aggeggio e di attività salva-tempo e salvafatica per provvedere ai bisogni e ai desideri reciproci nella sfera commerciale, stiamo cominciando ad avvertire una mancanza di tempo per noi stessi come mai era accaduto nella storia dell’uomo. Ciò perché l’enorme proliferazione dei servizi salva-tempo e salvafatica non fa che aumentare la varietà, il ritmo e il flusso dell’attività mercificata intorno a noi».

Pensiamoci bene: se a causa di infrastrutture, supporti informativi e servizi – che in un modo o nell’altro sono sempre a pagamento e per questo vengono creati – anche il nostro saltuario rapporto con natura e montagna perde la sua spontaneità, dove andremo ad attingere esperienze e risposte libere dai condizionamenti imperanti? Rifkin conclude realisticamente così: «Quando praticamente ogni aspetto del nostro essere diventa un’attività a pagamento, la stessa vita umana si trasforma in prodotto, e la sfera commerciale nell’arbitro finale della nostra esistenza privata e collettiva».

Qualcuno potrebbe liquidare l’argomento da noi proposto come l’inutile filosofia di chi non sa adeguarsi alla propria epoca. Qui intendiamo invece invitare i lettori a considerare l’importanza pratica, e non filosofica, della questione. La sempre più grave mancanza di tempi e spazi per sviluppare atteggiamenti spontanei non finalizzati al profitto in senso lato è un problema assolutamente concreto, che si ripercuote negativamente sulla qualità della vita, sullo stato dell’ambiente e sulla salute psicologica di un numero sempre maggiore di persone, per non parlare delle più vaste tragedie del sottosviluppo. Il che non significa negare che attività come il rapporto con la natura possano avere anche, in parte, un apprezzabile valore commerciale. Ma è compito nostro far sì che tale valore non superi certi limiti, annientando altri concretissimi significati dell’esperienza nell’ambiente naturale.

Ritrovare sulle montagne il tempo perduto è ancora possibile? Dal punto di vista delle montagne, certamente sì. Sopra di esse il cielo e i suoi astri, per quanto tracciati da scie di aerei e da riflessi di satelliti, segnano ancora il trascorrere di un tempo cosmico che non si lascia toccare dalle frenesie della superficie terrestre. Il problema è capire se in quel tempo riconosciamo ancora la presenza di un valore; se possediamo il desiderio di rientrare durante alcuni periodi liberi nel ritmo del divenire naturale, lasciando che sensazioni e pensieri si accordino col flusso degli eventi privi di fretta e di obiettivi prefissati che animano la montagna. A parole sembra che molti non aspettino altro; ma ribellarsi all’utopia tecnologica di cui il mondo è caduto (provvisoriamente) preda è oggettivamente difficile. Perciò incoraggiamoci a vicenda: aiutare l’umanità, oggi, significa anche difendere spazi e tempi per le relazioni gratuite. Salvare una montagna che abbia queste caratteristiche può rappresentare la vera, grande sfida tra le cime del prossimo futuro.

Franco Michieli