“I custodi della montagna” Vite d’ingegno, calli e silenzi.
Vittorino Mason è socio vitalizio di MW dal lontano 1998, volentieri pubblichiamo la recensione del suo ultimo libro.
Quindici storie distribuite tra le regioni del Veneto, del Friuli e del Trentino.
Le voci degli ultimi custodi della montagna, gente sagace e saggia che sa fare del poco tanto e di due
patate una minestra. Uomini semplici che tengono la parola stretta nel silenzio e si riconoscono nella terra
in cui vivono. Persone schive, schiette, di poche parole, ma che mantengono la memoria dei luoghi, dei
mestieri e delle tradizioni: uomini che conoscono l’arte di menare un’ascia per aria, mungere una vacca,
guidare un gregge, tirare su una casa, andare a caccia sui monti, accendere un fuoco coi mughi, fare
carbone con la legna, ricavare da un pezzo di faggio un mestolo, intrecciare dei giunchi, tagliare l’erba
con la falce e tanti altri lavori che facevano callo e sopravvivenza.
Penso alla Giota che con una grande cassettiera in spalla e un paio di scufons ai piedi partiva da Erto e
girovagava per i paesi della pianura a vendere biancheria intima, merceria e mestoli di legno fatti a mano,
penso a Giovanni da Cercenà che perso il suo amore girò con un carrettino a vendere gelati per le strade
d’Italia. Penso ad Adone da Padola in Comelico con la sua vita grama, fatta di tante fatiche nei boschi a
tagliar legna e le mani sempre impregnate di resina. Penso ad Agostino da Soffranco, cacciatore e
guardiacaccia al contempo, malgaro a Casèra di Cornia. Con un bicchiere di bianco in mano, mi
raccontava sempre dei “banditi” i camosci. Le Gaie di Erto, le due sorelle Polonia e Maria, quasi degli
esseri mitologici. Le potevi vedere girare con le gerle sulle spalle cariche di fieno che andavano a falciare
su in montagna per le poche vacche che avevano in stalla, penso a Beppino de Giambon, sopravvissuto al
Vajont che ha insegnato a Mauro Corona a mungere le vacche e usare la sgorbia.
Queste donne e questi uomini sono gli ultimi di una razza in via d’estinzione. È per questo che, prima che
essi scompaiano tutti, ho voluto raccontarli, mantenerli in vita con un po’ d’inchiostro. Questi ultimi li ho
incontrati per strada, altri li ho cercati grazie a una dritta o ad un’intuizione. Alcuni sono ancora vivi, altri
sono morti, ma di loro rimangono queste storie a testimoniare gli ultimi custodi della montagna.
Casualmente, o forse no, molte di queste storie sono legate da un comune denominatore: il disastro del
Vajont del 1963, quasi un cordone ombelicale mai reciso.
Le storie
A quelle già citate sopra, ci sono poi le storie: Il sentimento del bracconiere, che racconta di Genesio da
Vezzano (Belluno). A 15 anni boscaiolo sotto le Tre cime di Lavaredo, poi muratore a costruire una diga
in Svizzera e la caccia, passione trasmessagli dal padre, anche per arrotondare la magra dieta…
Poi i ricordi dell’ultima guerra quando nell’aprile del 45 anche Genesio sparò. Aveva un conto in sospeso
con quelli delle S.S. Un mese prima una pattuglia tedesca gli sparò mentre tornava a casa da scuola; lo
ferirono a una gamba.
Il larin di Isolina che racconta di Isolina da Fusine (Forno di Zoldo), zitella, una vita in miseria,
lavorando sempre la terra… Polenta e formaggio era il piatto base, la carne rara, solo nelle grandi feste se
ne vedeva un po’. L’inverno era lungo, freddo e con tanta neve, per cui la gente, specie le donne che
rimanevano in casa, si adoperavano in vari lavori come filare la lana, fare scarpét.
La stagione della giazzera che narra della gente di Lasèn che per un tozzo di pane nell’estate del 1921
cavarono ghiaccio nella giazzèra di Ramezza.
Le vicende belliche della guerra del 1915-18 imposero un arresto di tutte quelle che erano le attività
industriali nelle terre invase. Feltre e Belluno, occupate dalle truppe austro-ungariche, dovettero asservire
ai bisogni dell’invasore che, per far funzionare la macchina bellica e l’industria che ne confezionava le
armi, requisì tutto il metallo disponibile e nella Birreria di Pedavena gli impianti di refrigerazione,
Nel 1919 la Birreria riprese l’attività e l’anno dopo la produzione sfiorò i ventimila litri che saranno
cinquantamila nel 1921. Di fronte a questa grande richiesta i proprietari si trovarono però a far fronte a un
grande problema: erano ancora senza impianti di refrigerazione. Nell’agosto del 1921 scatta l’operazione
“slitte di ghiaccio” che dà il via alla stagione della giazzèra del Monte Ramezza. Ingegnandosi due
intraprendenti amici, Giosuè ed Umberto, conoscendo i bisogni della Birreria e la risorsa di ghiaccio della
giazzèra, fanno intendere alla ditta che sarebbero stati in grado di fargli pervenire ogni giorno una certa
quantità di ghiaccio.
Il gelataio che allevava piccioni viaggiatori, Enzo di Astragal (Forno di Zoldo), da giovane a pascolare
vacche e capre e lavorare i terreni di famiglia, poi una vita da gelataio in Germania e nel tempo libero la
passione per i piccioni viaggiatori.
Il pastore di Mondeval, ovvero Vigilio da Pergine Valsugana e le transumanze con le sue pecore durante
l’inverno e poi d’estate al sito archeologico di Mondeval.
Agostino il buono, Agostino da Soffranco, cacciatore e guardiacaccia al contempo, malgaro a Casèra di
Cornia. Con un bicchiere di bianco in mano, mi raccontava sempre dei “banditi” i camosci.
Fame da tabacco, che racconta Mario “Recia” e dell’antica borgata di San Gaetano in Valbrenta, storie
dei terrazzamenti coltivati a tabacco che poi veniva contrabandato nelle varie zone del Grappa. Il
soprannome Recia perché suo padre, durante la Prima guerra mondiale, sui Monti Solaroli strappò un
orecchio al suo capitano!
Il burro di Saverio, malgaro della Busa delle Meraveje, sotto le Vette Grandi, che poi lasciò il lavoro in
malga a due fratelli kossovari.
Fiore della Val dei Mocheni, da Toller di Palù Fersina, durante la Grande Guerra, lo scrittore Robert
Musil la definì la Valle incantata. Il territorio mòcheno venne colonizzato dai conti del Tirolo con coloni
tedeschi provenienti dalla Baviera e dalla Boemia. Una vita in Svizzera e la vecchiaia dei ricordi nella sua
terra…
Nel 1939, durante la Seconda Guerra Mondiale, Hitler e Mussolini si accordarono per lasciare alle
popolazioni di madre lingua tedesca la libertà di scegliere se rimanere nei propri paesi, oppure trasferirsi
in Germania. A seguito di questo accordo, nell’aprile del 1942 gran parte della popolazione della Val dei
Mòcheni fece le valigie e venne portata in un campo profughi vicino a Salisburgo. La famiglia di Fiore
rimase in Austria solo qualche mese, poi vennero trasferirti nelle fattorie della Boemia Meridionale.
Nidia della Val di Seren, che resisteva vivendo in quella valle ormai disabitata dai nativi e occupata dagli
extracomunitari. Alcune abitazioni sono di grande pregio storico-architettonico. Un tempo abitate e ora
chiuse, cadenti, stanno andando in rovina. Dove un tempo si contavano più di duemila abitanti, oggi ne
sono rimasti circa una settantina. Dove vive Nidia aveva un’osteria, ma la burocrazia gliela ha fatta
chiudere.
Perché questo libro
Perché un libro sugli ultimi della montagna? La risposta sta a monte, in una domanda. Perché si va in
montagna?
Molti vanno in montagna per conquistare una cima piuttosto che farsi conquistare dalla bellezza della
natura. La montagna viene usata come antidoto a una quotidianità anonima, senza clamori, come riscatto
e vanto per dire all’amico o al collega di turno ho fatto il Civetta, ho fatto il Pelmo…
Il difetto sta nel verbo fare. Le montagne non si fanno, si vivono.
La montagna è maestra e per me l’andare in montagna è lezione di geografia, toponomastica, geologia,
flora, fauna, è imparare la storia dei luoghi (le vicende della guerra e dell’emigrazione) e per farlo devo
conoscere la gente, i vecchi montanari. Sono loro che trasmettono la memoria. Così facendo, imparando,
non mi porto a casa solo il ricordo di un’effimera cima “conquistata”, ma la conoscenza e l’esperienza di
luoghi che mi parlano e raccontano.
Salire lungo un sentiero dovrebbe subito farci pensare a chi e perché l’ha costruito. Noi andiamo in
montagna in maniera ludica, per passatempo, sport, per fare attività di vario genere, ma i sentieri sono
stati prima di tutto vie di fame e sopravvivenza. Cammini di fatica e sudore per cavare fuori dalla
montagna il pane quotidiano. I sentieri sono memorie di pastori, malgari, boscaioli, carbonai,
contrabbandieri, cacciatori e partigiani. Saper leggere le tracce e i segni di quel passaggio significa entrare
in contatto con un mondo che non è più conformato solo di nuda roccia, ma qualcosa che pulsa e
tramanda emozioni che non si stemperano con un “ho fatto…”.