Il paesaggio è cultura

Cos’è il paesaggio? Che relazione ha con la nostra storia e la nostra identità? Pubblichiamo questa riflessione di Giovanni Widmann, professore di filosofia e storia presso il liceo Russell di Cles (Trento)

Possiamo dire che un paesaggio è integrazione tra ambiente fisico-naturale (con la sua varietà e peculiarità oro-idrografica, vegetale e zoologica) ed ambiente artificiale (insediamenti umani infrastrutture, realtà produttive, ecc.). A differenza di un territorio, il cui concetto rimanda alla determinazione di una circoscritta estensione spaziale, un paesaggio esprime una storia, essendo stato modellato dall’azione umana nel tempo. Tempo e uomini fanno il paesaggio, e questi ultimi nella sua configurazione possono più o meno riconoscersi e identificarsi, a seconda della qualità di quell’integrazione, ossia del grado di armonizzazione e di equilibrio che l’azione umana ha saputo garantire.

Foto: Giovanni Widmann

Ma cosa intendiamo più propriamente quando ci riferiamo ad un paesaggio? Un paesaggio è il segno tangibile e durevole della progettazione, del lavoro, della coltivazione e formazione di un territorio; nel paesaggio si trasfonde lo “spirito” di una comunità in un certo tempo, i suoi valori, le sue occupazioni e preoccupazioni, i fini immediati e remoti per i quali lo si è trasformato, mantenuto, alterato o cancellato. Però un paesaggio non permane nel tempo, infatti evolve in relazione al mutare dei motivi e dei bisogni siano essi materiali o psicologici -, al mutare del senso che gli uomini danno al loro vivere, alla loro idea di felicità. Un paesaggio esprime dunque un’identità? Sì, però nella misura in cui favorisce un’identificazione, ovvero mi identifica, mi rappresenta. Nel momento in cui mi riconosco in esso, quel paesaggio è anche espressione della mia identità, è mio non perché lo domino ma in quanto lo abito ed esso nel contempo abita in me. Solo dopo aver dato un’identità al paesaggio possiamo dire di ricevere, anche, un’identità. Così, possiamo dire, dopo una lunga assenza, che un paesaggio non lo riconosciamo più perché in esso noi più non ci riconosciamo. Ecco allora che un paesaggio non è solo esterno, esteriore, ma diventa paesaggio dell’anima evocando un legame e un’affinità, per cui venendo assorbito ed elaborato nella propria vita interiore diventa ricordo, memoria di una storia personale e collettiva. Potremmo dire che il suo elemento di spazialità fisica si temporalizza, anzi è in sé sempre immagine mobile e materica del tempo, quello cronologico degli storici e quello psicologico della propria esperienza autobiografica, che proprio nello spazio e nel paesaggio trova il terreno per ancorare la propria dimensione interiore, che sempre procede avanti e indietro, snodandosi tra passato e presente senza una logica apparente né un ordine, ma seguendo le traiettorie inconsce e imprevedibili dei propri vissuti, illuminate da quella che Proust chiamava «memoria involontaria».

Foto: Giovanni Widmann


Possiamo dire che un paesaggio è più attraversato col ricordo che transitato; non si sta in e non si percorre un paesaggio, ma lo si vive attraverso. Esso si fa esperienza, interiore ricognizione di tracce apparentemente insondabili, recupero di percezioni intime e personali, evocazione di una memoria e rielaborazione di una storia, spesso dolorosa, per strapparla al tempo della nullificazione, che non è oblio ma indifferenza. Quando non si prova più nostalgia per un luogo o per un tempo, ecco che proprio allora si comincia davvero a morire perché si è diventati insensibili al proprio passato, per cui si vive forse un presente vuoto e anonimo, ma senza investire di attesa il futuro. Scrive a questo proposito Proust: «I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono solo al mondo dello spazio dove per facilità li collochiamo. Essi non erano che una parte insignificante, fra le impressioni contigue che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto di un certo istante; e le case, le strade, i viali sono fuggitivi, ahimè, come gli anni.»

Paesaggio dunque come elemento di ricostruzione e rivisitazione di luoghi temporali. In questo senso se è più naturale pensare di poter analizzare e comprendere un certo tipo di paesaggio a partire dal passato, ricostruendo le vistose o labili o consunte tracce e stratificazioni del passato nel suo aspetto attuale, meno naturale è riconoscere che per comprendere un passato, anche nei suoi elementi territoriali, paesaggistici, architettonici, ecc., è necessario volgersi a interrogare il presente: il presente permette infatti di formulare le domande, di porre i problemi da investigare dotati di una bussola e di un orientamento in direzione del passato, ovvero avendo un punto d’appoggio e una prospettiva, come a suo tempo aveva mirabilmente compreso il grande storico medievista Marc Bloch: «Ora, meno eccezionalmente, certo, di quanto si pensi, capita che, per raggiungere la chiarezza, è proprio fino al presente che si deve arrivare. In alcuni dei suoi caratteri fondamentali, il nostro paesaggio rurale, già si sa, risale a epoche assai remote. Ma per interpretare i rari documenti che ci permettono di penetrare quella genesi nebulosa, per porre correttamente i problemi, per averne anche solo l’idea, si è dovuta soddisfare una prima condizione: osservare, analizzare, il paesaggio di oggi. Esso solo, infatti, dava la prospettiva d’insieme da cui era indispensabile partire. (…)» Si pensi in questo senso alle tracce dei culti devozionali nelle valli alpine, ai molti capitelli votivi, o, ancora, ai tracce diffuse che testimoniano la pratica di un’economia di sussistenza a dimostrazione di una forte integrazione tra ambiente naturale e lavoro umano, come nel caso dei resti di antichi mulini ad acqua e segherie veneziane, così come di mulattiere e “tovi” e “ciaradori”, peraltro con una forte influenza sulla toponomastica locale e più in generale sull’evoluzione della lingua e degli idiomi.

Foto: Giovanni Widmann

È fondamentale avere memoria, ma è altrettanto fondamentale avere conoscenza e coscienza del presente, anche nei suoi effetti negativi e distruttivi sul paesaggio, per poter meglio comprendere come e quando si è giunti a questo risultato, da dove si è partiti. Scriveva ancora Marc Bloch: «L’incomprensione del presente nasce inevitabilmente dall’ignoranza del passato. Ma non è forse meno vano affaticarsi nel comprendere il passato, se non si sa niente del presente Ecco allora che il paesaggio è certamente anche espressione culturale, nel significato che l’antropologia culturale e l’etnologia danno al concetto di cultura, intendendo tutte le manifestazioni dell’agire umano in un determinato contesto storico-ambientale, quindi includendo non solo le produzioni dello spirito, i simboli, i valori e le credenze, ma anche gli usi e costumi, la cultura materiale, le pratiche, le tecniche, ecc.

Dicevamo più sopra che un paesaggio può esprimere un’identità, se con essa si intende non un’appartenenza esclusiva ed escludente, una rigida e ritenuta immutabile forma o essenza comunitaria, ma piuttosto un’appartenenza e un riconoscimento. In questo senso possiamo allora dire che un paesaggio segna anche un’alterità, una differenza, un differenziamento. Si ri-conosce infatti un paesaggio, il proprio paesaggio, sempre in relazione ad altri paesaggi, nella loro integrazione, con-fusione o contrasto tra elementi naturali e artificiali, tra forme trasformate dall’azione. Un paesaggio è perciò un prodotto, il risultato di un’evoluzione, non mai una realtà statica e indifferenziata: evolve, si costruisce, così come si trasforma nel tempo, e non necessariamente a fini adattivi. Sotto questo aspetto anche il paesaggio naturale in realtà è espressione di una concezione che noi abbiamo di “natura”, del valore che noi diamo a ciò che è naturale, quando invece la naturalità non è in sé ma è pensata e almeno in parte costruita. La sua realtà è infatti una costruzione sociale, un modalità di percezione culturalmente orientata, una rappresentazione  simbolica. Dire natura e dire di amare la natura, stare a contatto della natura, ecc., è essere immersi in una sostanza culturale, essere parte integrante di una storia. Si pensi a come è evoluta la concezione della natura, avendo avuto essa un momento fondamentale nella cultura romantica per la sua influenza su un certo tipo di sensibilità, che aveva spiritualizzato la natura e enfatizzato sentimenti di panismo e titanismo. Scriveva Herder: «Esci, o giovane, in aperta campagna e osserva. La più antica, la più mirabile rivelazione di Dio, ti apparirà ogni mattina come un fatto». Naturale è sempre per noi che osserviamo, l’ambiente naturale esiste per noi che lo vediamo e interpretiamo e tuttavia dobbiamo dire che non è per questo semplicemente a nostra disposizione. Se l’uomo è sempre coinvolto nella trasformazione non solo del paesaggio ma anche della sua stessa concezione, della sua rappresentazione, della sua percezione, allora dev’esserlo anche nell’impegno atto a conservare le tracce del passato nel volto di quel paesaggio. Il paesaggio presente rimanda al passato, a stratificazioni di presenze, ad attività non meno di quanto il passato possa illuminare sulle trasformazioni del paesaggio presente. Così anche il futuro di un paesaggio dipenderà dalle scelte e dalla consapevolezza che oggi si ha della sua fragile costituzione, sempre esposta al rischio se non della sua scomparsa quantomeno della deturpazione e dell’abbandono. Perché si abbandona un paesaggio non tanto lasciandolo, ma lasciando che predomino interessi speculativi e sfruttamento indiscriminato, cioè per effetto di sciatteria intellettuale e scarsa lungimiranza, per la concentrazione dello sguardo su meri bisogni contingenti.

Foto: Michele Comi

 Un paesaggio è come una casa, ed essere dei senza-casa significa abbandonarsi ad un destino di erranti, allo sradicamento. Ma attenzione: qui non si vuole enfatizzare retoricamente il valore delle radici come natura identitaria di una comunità. Consideriamo necessario antidoto alle derive rappresentate dai miti delle scaturigini il saper prendere le distanze dalla propria storia e dal proprio passato. Il proprio passato, come i propri luoghi, non vanno venerati e con ciò cristallizzati in una fissa quanto inesistente presunta sostanzialità e originarietà, se non altro perché non sono mai davvero nostri, infatti spesse volte siamo espropriati o ci espropriamo dai luoghi del nostro passato, in quanto per continuare a vivere bisogna ad un certo punto esercitare la dimenticanza. Serve anche prenderne le distanze per poi ritornarvi con un carico di maggiore consapevolezza, la consapevolezza di chi sa di ritrovarvi una parte importante di se stesso, ovvero la ragione della sua originalità. Oggi nella mia Val di Non e in Trentino molto è cambiato; molti paesaggi sono diventati uniformi,  indifferenziati. Laddove l’insidia non è rappresentata dagli interessi economici il paesaggio rurale e montano è minacciato dalla banalizzazione di un approccio utilitario e consumistico al territorio, per cui diventa oggetto di sfruttamento o di attrazione turistica e la sua bellezza anziché costituire un’esperienza estetica ed insieme etica, anziché produrre quel piacere misto a inquieto stupore che è all’origine di ogni rigenerazione profonda, è il teatro di emozioni fugaci e passeggere.
Allo stesso modo la storia culturale di una comunità rischia di essere confusa col folklore, privata del suo spessore. Sono ormai solo un ricordo i papaveri e i fiordalisi tra i campi di grano, che come i bancospini di Proust mi rimandano ad un periodo spensierato e felice della mia infanzia, forse perché ancora incosciente. Il sentiero abituale mi conduce ad una vecchia baita diroccata dell’alta valle, dove in giugno è ancora possibile godere l’odore penetrante del fieno e pensare che non tutto è perduto. Là mi fermo, là più che altrove comprendo il significato profondo, la struggente malinconia de Il canto della terra di Mahler. Comprendo che un paesaggio è essenzialmente, primariamente cultura.

Giovanni Widmann insegna filosofia e storia presso il liceo Russell di Cles